11 APRILE 2002: il giorno della la sentenza: Badalamenti ha ucciso Peppino

Badalamenti a filicudi5

 

 

E’ il giorno della sentenza. Lo abbiamo aspettato da 24 anni. Nell’aula del maxiprocesso, all’Ucciardone ci siamo tutti e c’è una grande animazione. Entra il Presidente, tutti si alzano in piedi, legge:

-“In nome del popolo italiano, visti gli articoli 110, 575 e 577 del Codice Penale, questa corte condanna l’imputato Badalamenti Gaetano alla pena dell’ergastolo.”

Ci abbracciamo. Giovanni dice a Umberto: -“E’ finita”.

– “No che non è finita. Di sicuro ci sarà l’appello”.

-“Quello che volevamo l’abbiamo ottenuto. Adesso non m’interessa più niente. Sono stanco.”

Le prime reazioni si aggrovigliano in un misto quasi scontato di “lo sapevo”, “finalmente” , “era ora”, e in una vaga sensazione di stupore legata al fatto che il momento finale, atteso, sperato, temuto, è finalmente arrivato. Alzo le mani al cielo in un gesto liberatorio Il pensiero corre a Felicia, che non se l’è sentita di venire.  Mi allontano, esco, salgo in macchina e vado verso Cinisi. E’ ancora pomeriggio pieno, il sole frantuma la sua luce in scaglie sul mare. Intravedo la torre dell’Orsa ed è come andare a ritroso nel tempo, trent’anni prima….

 

A mare ondeggia una barca: mio zio Gasparino,  basso, grasso, col cappello di paglia in testa, sonnecchia a prua.  Mio cugino Piero indossa maschera e pinne e si tuffa. Con  Peppino, anche lui cugino di Piero, per una di quelle complesse combinazioni matrimoniali e parentali di paese, armeggiamo intorno a un attrezzo composto da un grande cerchio di ferro, attorno al quale è fissata una rete; alla parte bassa dell’imbuto formato dalla rete è legata una pietra: il marchingegno si chiama “u trarimentu”,  perché si pigliano i pesci a tradimento.

Piero riemerge con alcuni ricci di mare, li tira dentro la barca e si rituffa. Li schiacciamo e li mettiamo dentro “u trarimentu”, poi  leghiamo una corda al centro di un’altra corda fissata al cerchio come un diametro e caliamo a mare l’attrezzo. Dentro il coppo cominciano ad entrare dei pesci. Peppino guarda il fondo del mare attraverso uno specchio ed è come se facesse una radiocronaca:

– “Stannutrasennucincu viole. Talè, stannuvinennu l’autri pisci. Minchia, quantu ci nn’è!!! C’è na viola bella grossa. Talè, c’è u zzuraddu, è bellissimo, coloratissimo: Tira, Tira forte”.(stanno entrando cinque viole. Guarda, stanno venendo altri pesci. Guarda, c’e il “pizzo-di-gallo)

Dò uno strappo all’attrezzo e lo tiro in barca. Dentro saltellano una ventina di pesciolini. Riproviamo. Piero risale a bordo. Gasparino guarda verso la montagna:

-“ U suli è arrivatu a balata di menziornu. La vedi? E’ quella pietra bianca  in mezzo alla montagna. Quando il sole la illumina è mezzogiorno preciso. Andiamo a mangiare, ragazzi?”.

Piero accende il motore, la barca parte e si ferma in una caletta lì vicino, a Scalidda. Abbiamo tutti imparato a nuotare qua. C’è il primo scoglio, “u primuruccuneddu”, dove si poggia ancora il piede, dove possono arrivare anche i bambini, “u secunnuruccuneddu”, dove bisogna imparare  a stare a galla, cominciare a saper nuotare,  e “u terzuruccuneddu”, dove si arriva solo se si è nuotatori provetti. Peppino e Piero cercano qualche pezzo di legno attorno, io e zio Gasparino puliamo il pesce, accendiamo il fuoco, Gasparino tira fuori da un angolo della barca una padella con una bottiglia d’olio, sale e persino la farina. Friggiamo il pesce, che si ritrae, appena in padella, ce lo sbafiamo, bevendoci su del vino. Accendo una sigaretta e ne passo una a Peppino. Ci sdraiamo sulla battigia, mentre il mare  ci lambisce  i piedi.

Peppino: -“Sarebbe bello vivere sempre così!”

Lo guardo ironicamente: -“Vuoi fare il marinaio?”

Piero, con il piede fa schizzare un po’ d’acqua su Peppino, che si alza e lo insegue. Insieme si buttano a mare nuotando, ritornano, mi buttano  acqua addosso, li rincorro, ci tuffiamo giocando a metterci la testa sott’acqua. Gasparino ci guarda sorridendo. Quasi automaticamente, dietro qualche atavico richiamo, salgo la piccola scala ricavata nell’arenaria gialla, e quel che rimane di essa. Piero e Peppino mi notano e mi seguono. Mancano alcuni gradini e non è facile. Infine arriviamo lassù. Sotto i nostri occhi la brulla distesa dell’aeroporto: potrei,  potremmo ricostruire pietra su pietra quello che c’era prima, il Molinazzo, fissato, in maniera indelebile nel ricordo: la casa dei Cintorino, cugini di Piero, quella di “aMastricchia”, nonna di Piero e sorella di mio nonno, “u zu Cola Matisi”, suo fratello, confinante, la sua e la mia casa, dove, con mio cugino Nicola dicevamo che c’era il mito, i pozzi, le senie, i castelletti da dove passava l’acqua per irrigare, e poi la casa dei Valenti, tornati dall’America dopo quarant’anni, a morire qua,  quella dei Curcurù, belle ragazze che venivano in estate, quella di “u zuLarenzu u Spirdatu,”, quella di “u zuVitu u Checcu”, di “u zuFaruAgghiu”, di u zu Peppi Muccuneddu”,  di “U Turcu”, di “u zuVitu Badalamenti”, di “U Persu”, di “AsparinuCucinella”.  Proprio Gaspare, raffinato poeta e attore, ha scritto questo affresco: non ho resistito alla tentazione di aggiungervi le due ultime strofe:

 

Terra di Mulinazzu

 

Era ‘mpastata cu l’acqua di senia,

fumeri di sceccu e suli cucenti,

profumi di ciuri, gelsumini di notti

e poi canti, soni, rusari e nuveni.

 

Girava lusceccu ‘ntunnu a la senia,

tirannu acqua svacantava li cati,

la gebbiainchia.

U viddanuabbivirava

fasoli, cucuzzi, tinniruma, pumaroru,

milinciani e basiricò.

 

U marinaruvinia di “Li Punti”,

abbanniava:”Pisci, violi d’u Mulinazzu,

sarachi, spinuli, rizzi e pateddi..”

Roba viva rata pinenti.

 

Scinniri a “Scalidda” e tuffarisi a mari

a cogghiri rizzi e l’ogghiu a mari.

Poi, sutta a pinnata, la gran tavulata,

maccarrunari casa e vinufriscu

nisciutur’upuzzu.

 

U zzu Cola Matisiittavavuci:

“- Nuntuccati sti pira,

nunsunnu ancora maturi,

girati a la larga, pigghiàti di ddà”

E poi la sira cu l’organettu

u zzu Cola sunava,

tutti abballavamu e si cantava.

 

Sittemmirufriscu a cogghirialivi,

nanegghia ‘ntocielu,

cicigghia e lucerti nta i petri d’i mura,

nta li vaneddi u scrusciu d’i  carretti

 

lustru di luna e suli:

chistusuluarristau.

 

Traduzione: Era impastata con l’acqua del pozzo, concime di asino e sole cocente, profumi di fiori, gelsomini di notte, e poi canti, suoni, rosari e novene. Girava l’asino attorno alla senia, tirando acqua svuotava i secchi, riempiva la gebbia. Il contadino irrigava fagioli, zucchine, tenerumi, pomodoro, melenzane, basilico. Il marinaio veniva da I Punti, gridava: Pesci, viole del Molinazzo, saraghi, spinole, ricci e patelle. Roba viva data per niente. Scendere alla Scalidda e tuffarsi a mare a raccogliere ricci e olio a mare. Poi, sotto il pergolato, la gran tavolata, maccheroni di casa e vino fresco, tirato fuori dal pozzo. U zu Cola Maltese urlava: Non toccate queste pere, non sono ancora mature, girate alla larga, prendete di là. E poi, la sera, con l’organetto, u zu Cola suonava, tutti ballavamo e si cantava. Settembre fresco a raccogliere olive, una nuvola in cielo, gechi e lucertole tra le pietre dei muri, tra le trazzere rumore di carretti. Luce di luna e sole: questo solo è rimasto

 

Ritorno a guardare l’autostrada e dai miei occhi scende una lacrima.  Arrivo a Partinico: intravedo persone che non conosco, dai cui occhi non trapela nulla, cui non posso comunicare la mia gioia, e mi sento davvero fuori dal paese in cui vivo da molti anni, senza ancora essermi tolto di dosso l’identità di straniero. Incontro Dina, bella come sempre, con la sua giacca impermeabile rossa: “-Prepara i bicchieri” “- Perché?” “-Ergastolo!”. Brindiamo con una bottiglia conservata in frigo da Natale. Provo a telefonare a mio figlio Vincenzo, che è a Palermo per la manifestazione no-global contro l’i-governement: sa già tutto e mi dice che i manifestanti hanno accolto la notizia con entusiasmo grandissimo. Decidiamo di andare a Cinisi da Felicia.

 

Abbiamo sempre avuto un rapporto particolare lei ed io. Una volta mi disse: “Quando vedo te mi sembra di vedere mio figlio”, e non credo avrebbe potuto dirmi niente di più bello. Non ho smesso di andarla a trovare, soprattutto nelle grandi occasioni. Ogni volta la ritrovo più vecchia, più raggrinzita, ma con negli occhi  l’indomita energia di sempre e la rabbia di chi sa di avere subìto una ferita che le ha spaccato letteralmente la vita e che ancora grida vendetta. E’ vissuta e sopravvissuta attraverso una serie di gravi malattie, aspettando pazientemente questo momento. Ha accusato in aula, con spietata freddezza, Badalamenti, non ha smesso di chiedere giustizia, di spronarci a continuare, di volere esserci con ostinazione,  nei momenti in cui la sua presenza era importante. Mi accoglie col suo sorrisetto sornione, visibilmente commossa, un po’ frastornata, ma sempre lucida, dall’alto dei suoi ottantatre anni. Non so quanto ancora resisterà. Qualche mese fa se n’è andata Fara, sua sorella, cui era legatissima e che era stata una seconda madre per Peppino. Lei è ancora là, pronta a rilasciare interviste, a dare consigli, a dimostrare la sua precisa identità di donna siciliana mai rassegnata. Arriviamo, scendiamo di corsa, corro a casa sua, l’abbraccio:

-“E fatta, ce l’abbiamo fatta, gli hanno dato l’ergastolo”

E lei, tranquilla e dolcissima:

– “Lo so già, figlio. L’hanno detto poco fa alla televisione”

– “Occorre brindare. Pigghiamu a buttigghia.”

E’ una vecchia abitudine che abbiamo cominciato a praticare dopo la morte di Nino Badalamenti: un segreto tra noi due: allora le proposi di brindare e lei mi rispose che non era giusto brindare per la morte di qualcuno: quando gli feci notare che questo qualcuno era uno degli assassini di suo figlio, tirò fuori una vecchia e impolverata bottiglia di amaretto di Saronno: due gocce, più che altro un gesto simbolico. Abbiamo continuato con la morte di Finazzo e con quella di Ciccio Di Trapani, tutti e tre presunti esecutori dell’assassinio di Peppino. Abbiamo assaggiato qualche altro goccio  nel corso dell’ecatombe di mafiosi verificatasi a Cinisi tra l’82 e l’84. Mi accorgo che la bottiglia è sul tavolo, vuota:

– “Mi dispiace, figghiu, ma quando ho sentito la notizia, per la gioia ho bevuto l’ultima goccia rimasta”.

-“Eh, viziusa! Io non so se essere contento. E’ come se mi venisse meno qualcosa, un motivo per andare avanti. Qualcosa a cui mi ero abituato da più di vent’anni, che era diventata una parte di me stesso”.

“- Io mi sento invece come  il mare, quando, dopo u malutempu, torna il  sereno. Ora posso morire tranquilla.”

-“Ma che morire! Che va dicendo? Quest’anno organizzeremo cose grandi. Si stanno preparando a venire qua un sacco di picciotti da ogni parte d’Italia. Metteremo sottosopra questo paese”.

Felicia riprende tutta la sua forza di splendida combattente:

– “Allora voglio esserci anch’io. Morirò un’altra volta”. L’abbraccio e mi abbraccia.

 

Più tardi arrivano tutti i compagni che hanno condiviso con Peppino una parte della loro esistenza. Umberto è un po’ seccato dalle stupide domande fatte dagli intervistatori: accenna alle ultime fasi del processo, all’abile difesa dell’avvocato americano di Badalamenti, che ha cercato di scagionare il suo cliente, scaricando la colpa sui “corleonesi” di Totò Riina, e all’inconsistente posizione  difensiva dell’avvocato Paolo Gullo, il quale ha affossato definitivamente il boss, con la sua ostinazione a ripetere l’improponibile tesi dell’attentato terroristico di cui Peppino sarebbe stato autore e vittima, addirittura con l’aiuto dei suoi compagni, che avrebbero poi cercato di depistare le indagini: non è chiaro se tanta ostinazione a non voler capire e tanto accanimento contro Peppino sia determinato da motivi politici, da odio personale,  o da incapacità professionale.

 

Interviste, commenti, gioia, tristezza, diradarsi del tempo nel lontano passato. Sulla via del ritorno mi attraversano gli occhi 24 anni di angosce, di speranze, di lotte, le spensierate e incoscienti trasmissioni a Radio Aut, l’ultima sera, la ricerca disperata dei brandelli del corpo di Peppino sulla strada ferrata, le pietre sporche di sangue, le indagini mancate, i feroci interrogatori dei carabinieri e di Signorino, la chiusura della prima fase istruttoria, il lavoro di Chinnici, la prima archiviazione del caso fatta da Caponnetto, la riapertura delle indagini, condotta da Falcone e De Francisci, la  seconda chiusura dell’inchiesta e infine la terza riapertura,grazie alle deposizioni di otto pentiti, pazientemente raccolte da Franca Imbergamo, , le varie fasi del processo.  Tutte tessere di un mosaico alla cui composizione hanno dato un proprio contributo il lavoro di denuncia dei compagni , la continuità del Centro Impastato e della famiglia nel chiedere la verità, il libro “Nel cuore dei coralli” e, molto tempo dopo, il film “I cento passi”, di Marco Tullio Giordana, il lavoro della Commissione antimafia sul depistaggio delle indagini,le manifestazioni , la rinnovata sensibilità della  magistratura. Ogni volta dicevamo: oltre questo punto non si può andare, e invece siamo andati ancora oltre. C’è una certa riluttanza a ritenere tutto finito. Fra l’altro non è finita, perché ci sarà l’appello e chissà quanto ancora potrà durare. E non è finita perché la lotta contro la mafia è la pesante eredità che Peppino ci ha lasciato, la terribile responsabilità delle nostre scelte giornaliere.

(Dal libro di Salvo Vitale “Cento passi ancora” ed. Rubbettino 2014)

Nella foto Gaetano Badalamenti e il figlio Vito al soggiorno obbligato all’isola di Filicudi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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