16 maggio 1955: ricordando Turiddu Carnevale e sua madre Francesca Serio (Dino Paternostro)

Quel tragico mattino di maggio

di Dino Paternostro

Turiddu CarnevaleFaceva ancora buio e, nelle campagne di Sciara, sbucarono da una siepe degli sconosciuti che esplosero le fucilate contro il sindacalista. Cinque i pallini mortali, di cui uno alla testa e uno alla bocca: il classico colpo di grazia

A Sciara, quel lunedì 16 maggio 1955, Salvatore Carnevale si era alzato molto presto. Non avendo né una bicicletta né un mulo, la strada per recarsi alla cava era costretto a farsela a piedi. E, se voleva arrivare in orario sul posto di lavoro, doveva partire ancora col buio. Subito dopo di lui, si era alzata la madre, Francesca Serio. Si avvicinò al figlio e, col volto spaventato, gli disse: «Turiddu, stanotte ho fatto un brutto sogno. Stai attento alla cava, tieni gli occhi aperti!». «Vossia perché pensa a ’ste cose? Non ci deve credere ai sogni, sono superstizioni queste», le rispose Salvatore, rassicurandola. Poi la salutò, si rinchiuse la porta di casa alle spalle e s’avviò con passo spedito al lavoro. Erano le 5,30. Superata la cappella di San Giuseppe, imboccò la trazzera che portava alla cava, in contrada «Cozze Secche», quando qualcuno lo chiamò per nome. Fece appena in tempo a voltarsi, che dalle spighe ormai alte, dove si erano nascosti, uscirono degli uomini armati di fucili. I primi due colpi ferirono Carnevale al fianco destro. Poi gli furono sparati altri quattro colpi, di cui uno alla testa e l’altro alla bocca: i colpi di grazia. «Cadde riverso, torcendosi col viso insanguinato», avrebbe scritto il giorno dopo Giovanni Cesario su «L’Unità della Sicilia». La notizia che sul ciglio della trazzera che portava alla cava Lambertini era stato assassinato Turiddu Carnevale, arrivò in paese intorno alle 8,00. A mamma Francesca dissero solamente che era stato ucciso un uomo, ma lei capì subito. Di corsa e col cuore in gola, si recò sul luogo del delitto, ma vi trovò già i carabinieri, che volevano impedirle di passare. «Signora, non è suo figlio!», le disse il brigadiere. Ma Francesca non si fermò: «Vigliacco, non è mio figlio, questi non sono i piedi di mio figlio? E quelle non sono le calzette che ci lavai ieri a mio figlio, che ha messo nei piedi?», urlava, facendosi strada a forza, fino ad abbracciare il cadavere del suo Turiddu. Piangeva, disperata, mamma Carnevale. Se l’aspettava che, un giorno o l’altro, questo figlio glielo avrebbero ammazzato. Con la voce rotta dal pianto, guardò in faccia il brigadiere e urlò: «Me l’hanno ammazzato perché difendeva tutti, il figlio mio, il sangue mio! Gli assassini vada a cercarli tra i suoi amici dipendenti della principessa Notarbartolo!».

tncop-carnevale- madre Un chiaro e coraggioso atto d’accusa contro la mafia di Sciara, capeggiata dall’amministratore  del feudo Giorgio Panzeca, dal soprastante Luigi Tardibuono, dal magazziniere Antonino Mangiafridda e dal campiere Giovanni Di Bella, che Francesca Serio avrebbe formalizzato, qualche giorno dopo, in un esposto alle autorità inquirenti. I quattro furono fermati e tradotti in carcere perché gli alibi di Panzeca, Mangiafridda e Di Bella non ressero alle verifiche, mentre un primo testimone – Filippo Rizzo – si lasciò scappare, pur tra contraddizioni, di aver visto Tardibuono sul luogo del delitto; e un secondo testimone – Salvatore Esposito – riferì di aver visto vicino alla trazzera sia il Tardibuono che il Panzeca.
Per legittima suspicione, il processo di primo grado si svolse a S. Maria Capua Vetere. Iniziò il 18 marzo 1960 e si concluse il 21 dicembre 1961, con la condanna all’ergastolo di tutti e quattro gli imputati. «Ora posso morire tranquilla, perché giustizia è stata fatta, non solo per il mio Turiddu, ma per tutti i caduti sotto i colpi della Mafia», dichiarò al giornale «L’Ora» del 23-24 dicembre 1961 Francesca Serio, che aveva presenziato a tutte le udienze del processo. Ma il processo d’Appello, svoltosi a Napoli dal 21 febbraio al 14 marzo 1963, e quello in  Cassazione avrebbe ribaltato la sentenza di primo grado, assolvendo tutti gli imputati per insufficienza di prove. E mamma Carnevale dichiarò: «Me l’hanno ammazzato una seconda volta!». A Napoli, in sostanza, prevalse il formalismo giuridico. Dai giudici «nessuno sforzo venne
fatto per tenere conto della specificità di un processo radicato in una realtà dove domina la mafia e dove le regole comportamentali non sono quelle che vengono osservate nel resto del Paese», commenta Umberto Ursetta, nel suo libro «Salvatore Carnevale, la mafia uccise un angelo senza ali», distribuito da «L’Unità».

 Articolo di La Sicilia del 18 Maggio 2008

 

Seguimi su Facebook