4 gennaio 1947: RICORDO DI ACCURSIO MIRAGLIA
Il 1947 è un anno micidiale per la sopravvivenza della democrazia in Sicilia. C’è in gioco uno scontro all’ultimo sangue tra i siciliani che hanno “fame di terra” e lottano per l’applicazione dei decreti Gullo, (che prevedono la concessione delle terre incolte o malcoltivate) e la mafia che difende con le armi il latifondo e i suoi privilegi, non esitando a servirsi degli americani, decisi a combattere qualsiasi orientamento politico di sinistra, delle canaglie fasciste, sempre pronte a riciclarsi, e persino del banditismo. A parte i morti della strage di Portella della Ginestra ( 1 maggio), sono 46 i sindacalisti uccisi in questa orribile mattanza, per fermare l’avanzata del movimento contadino. La rottura dell’unità antifascista, che aveva caratterizzato il primo governo di unità nazionale, spinge i socialcomunisti all’opposizione e rende alcuni suoi leaders vittime sacrificali della violenza dei mafiosi, armati e pagati dai grandi proprietari terrieri.
Accursio Miraglia, segretario della Camera del Lavoro di Sciacca, è il primo a cadere, il 4 gennaio.
Era nato a Sciacca il 2 gennaio 1896. Al suo paese aveva dedicato tutta la sua vita, aprendo un’industria del pesce conservato e ricoprendo poi diverse cariche, compresa quella di presidente dell’ospedale. Dopo una prima militanza nelle file dell’anarchismo, era transitato nel Partito Comunista, ma aveva rifiutato di far carriera politica per non allontanarsi da Sciacca. Era anche un bravo pittore ed amava la musica.
Gli assassini vengono subito individuati: si tratta di un terzetto che già aveva più volte minacciato Accursio, composto da Enrico Rossi, proprietario terriero, e da Carmelo Di Stefano e Carmelo Curreri, esecutori, che subito confessano. La Corte d’appello di Palermo, per uno di quei misteri che mai si chiariranno, toglie il caso alla questura d’Agrigento, e assolve, nel corso dell’istruttoria, quindi senza processo, i due esecutori che affermano di avere confessato perché sottoposti a tortura.
I poliziotti finiscono sotto inchiesta, ma vengono prosciolti, qualche anno dopo, perché “il fatto non sussiste”. Se i poliziotti non hanno torturato, è chiaro che gli assassini hanno mentito, ma nessuno si preoccuperà più di incolparli o di mettere sotto accusa i magistrati che avevano messo in libertà gli uccisori di Accursio con una scusa-accusa non provata. Storia vecchia, in Sicilia: stesso copione che si ripeterà nel tempo per Placido Rizzotto, per Turiddu Carnevale, e persino per Peppino Impastato.
Ci piace ricordare Accursio Miraglia con una frase detta, alla compagna della sua vita Tatiana Klimenco, una nobildonna di origine russe e riportata da Gabriella Ebano nel libro “Felicia e le sue sorelle”:“Possono uccidere me, non le mie idee, e, per fare migliorare le condizioni del popolo siciliano, è bene che queste idee vadano avanti”.
Un’altra frase, riportata nello stesso libro, venne detta nel corso del suo ultimo comizio:
“Capisco che è difficile per la gente pensare che uno è disposto a morire per gli altri, ma in realtà c’è chi per migliorare il mondo è capace anche di dare la propria vita”.
Quadro di Gaetano Porcasi