Perdono? No, grazie! (S.V.)
La quarta di copertina del mio nuovo libro “Cento passi avanti e qualche passo indietro (IOD editore) ” ripropone una lettura meno ipocrita e ampiamente creitica del concetto di perdono, quale strumento di pacifica convivenza
La domanda d’obbligo del giornalista scemo a chi ha subito un torto o un lutto a causa di un criminale spesso è questa: “Lei lo perdona?”. E il più delle volte la risposta è positiva, sia pure con molto imbarazzo, perché non si ha il coraggio di dire il contrario. Una delle poche che ha avuto la forza di rispondere con un secco NO , è stata Felicia Impastato, imbarazzando l’intervistatore con una controdomanda: “Se le uccidessero suo figlio, lei perdonerebbe?”. Esistono numerose affermazioni, aforismi, consigli che suggeriscono, se si vuol trovare una serenità interiore, di non reagire nei confronti di chi ti ha fatto o vuol farti del male. L’a-patia dello stoico, ovvero l’assenza di dolore è un principio che invita a gettare su tutto un colpo di spugna, a scegliere l’indifferenza , la non violenza come risposta a chi ti fa violenza, l’oblio rispetto all’offesa. A mio parere si tratta di riedizioni, in punti di vista diversi e sotto altri segnali, della logica del perdono tipica del cristianesimo, almeno di quello vero. A chi ti dà uno schiaffo porgi l’altra guancia, rimettiamo i debiti ai nostri debitori, chi è senza peccato scagli la prima pietra, perdonate e vi sarà perdonato ecc. Il perdono è una scelta, ma non è la scelta. Ci sono in mezzo tante altre componenti, anche se non tutte, che rendono la logica del perdono l’atteggiamento di chi non ha il coraggio o la forza di dare la giusta risposta, e quindi una comoda nicchia in cui nascondersi. Una parte della cultura siciliana si muove su un altro binario: “Pi un curnutu, un curnutu a menzu”, “a cu ti leva u pani levacci la vita”, ovvero moltiplicare l’intensità della risposta in rapporto all’offesa di partenza. L’atteggiamento tende a distogliere colui che ha fatto del male, dal poter continuare a farlo. Questa logica “pagana” , quella dell’”occhio per occhio, dente per dente” (che poi non so perché proprio gli occhi o i denti sono da considerare parti offese) ha una sua aperta giustificazione:_non si può darla vinta ai mestatori, ai truffaldini, agli sciacalli, ai mafiosi, ai bugiardi, altrimenti il mondo non cambierà mai. Si potrebbe scegliere non di aumentare la violenza della risposta, ma di calibrarla in rapporto alla violenza usata nei tuoi confronti. Lo stesso principio ispira il detto napoletano: “ccà nisciuno è fesso”. Naturalmente spuntano obiezioni del tipo: “Non ti puoi mettere alla stregua di chi ti fa male, o usare i suoi metodi, perché tu sei diverso, sei migliore”, una considerazione che vale se l’essere migliore non vuol dire soccombere, subire arrendersi: in tal caso si rasenterebbe la vigliaccheria. Qualche dubbio viene anche dall’aforisma di Oscar Wilde: “Perdona sempre i tuoi nemici. Nulla li fa arrabbiare di più.” E’ tutto da dimostrare che il perdono fa incazzare il nemico, anzi a mio parere lo riempie di orgoglio perché sa di avercela fatta, di avere vinto e di potere sopraffare il soggetto a cui ha usato violenza. Anche l’affermazione di J.L.Borges si inquadra in questa chiave di lettura che porta direttamente ai principi cristiani del perdonismo: “Io non parlo di vendette né di perdoni; la dimenticanza è l’unica vendetta e l’unico perdono.” Siamo sempre lì,anche con Fabrizio De Andrè: “Fra la rivoluzione di Gesù e quella di certi casinisti nostrani c’è una bella differenza: lui combatteva per una realtà integrale piena di perdono, altri combattevano e combattono per imporre il loro potere.” Si potrebbe continuare su questa linea che non si sottrae al residuale sospetto dell’ipocrisia o della interiore debolezza: in fondo il perdono fa sempre comodo a chi ha portato avanti l’offesa, così come l’accettazione del presente, inteso come volontà di Dio, nella prospettiva di un futuro in cui ci sarà giustizia per tutti , da sempre ha fatto comodo alle classi dominanti ed è stata il suo principale argomento per tutelare i propri vantaggi. Nel vangelo tutto ciò è proposto come il “comandamento nuovo”, ciò che segna lo spartiacque tra l’antico e il nuovo testamento che vuol sostituire alla logica della forza quella dell’amore. Il dio del vecchio testamento non perdona Lucifero, non perdona Eva, Non perdona gli uomini, mandando loro il diluvio universale, non perdona il faraone, mandando a lui e al suo popolo innocente le sette piaghe, non perdona gli ebrei nel deserto, che lo preferiscono a un vitello non perdona Oloferne, servendosi della mano di Giuditta, non perdona Sara che si gira e viene trasformata ti statua di sale, ecc. Nel nuovo testamento qualcosa nel comportamento divino cambia, ma non cambia nei rapporti tra gli uomini neanche per la chiesa nell’arco dei secoli: è normale riconoscere nella parte offesa un risentimento interiore, una sofferenza che non si estingue con le posizioni di chi non vuole prendere in considerazione la scelta di un riscatto attraverso le proprie forze: è quello che cancella il dolore dell’offesa e che dà la forza di sentirsi alla pari. Non è il caso di arrivare al delitto, ma di ritenere il perdono solo come un primo momento dal quale emanciparsi se l’offensore continua, così come espresso in un detto romagnolo: “La prema la s’ pardona, la sgonda la s’ bastona, la terza la s’ culaza, la querta la s’ ammaza.”
Dopo di ciò mi rendo conto di provocare un’alzata di scudi piena di ipocrisia, schiava del suo “fate come vi dico io, ma non fate come dico io”, perché la logica del perdono fa comodo a tutti, alla parte offesa, che si sente giustificata, così come alla parte che offende, che si sente appagata. Io sono favorevolissimo a perdonare, nel caso che lo facciano tutti e nel caso di non rendermi succube delle altrui violenze. Ed anche in ciò, sia chiaro, non è che mi armo e sparo, ma, ove i miei mezzi non sono giustificabili, mi rivolgo a chi può darmi giustizia e soddisfazione, cioè magistratura e forze dell’ordine, anche se non è detto che la mia sofferenza possa essere appagata dall’entità della condanna in rapporto all’offesa.