Peppino Impastato e il gioco delle utopie possibili (Giuseppe Casarrubbea)
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Casolari della morte e ville dei misteri
Il lunedì precedente le elezioni amministrative del 1978, fu un giorno singolare, a Cinisi. Radio Aut, l’emittente radiofonica che Peppino Impastato aveva fondato a Terrasini, e che da quasi un anno costituiva l’unica credibile fonte di informazione in quella zona nella quale da sempre avevano comandato uomini tanto potenti quanto feroci, sonnecchiava tra le poltrone bisunte e vuote e gli spifferi carichi di vento furioso e di salsedine, che si infiltravano tra le persiane devastate dal tempo, percorrendo le stanze umide, quasi cadenti, al primo piano del corso Vittorio Emanuele III, n. 108. In compenso la strada si apriva sul mare e lasciava quasi sperare, proprio per questa sua caratteristica, in un bel tempo che, invece, non c’era. Era una settimana piovosa, grigia, e tra quelle quattro pareti disadorne, il cuore si stringeva come preso dallo smarrimento, dalla solitudine, da un’aria plumbea, quaresimale. Ci si vedeva, quel giorno, per scambiare qualche battuta; per ascoltare, trasmessa da “Radio Terrasini Centrale”, l’intervista, censurata, che Peppino aveva concesso in quella campagna elettorale che andava a chiudersi la domenica successiva, 14 maggio; ma anche per assicurare un minimo di presenza alla radio, di compagnia al gruppo redazionale.
Giosuè e Peppino stavano ancora a discutere sulla mostra “Mafia e territorio”, esposta nella piazza del paese il giorno prima, quando la conversazione dei due fu interrotta dall’arrivo di Giovanni, un compagno di Peppino che lavorava a Palermo. Era visibilmente preoccupato, teso in viso. Giosuè si avvicinò al balcone e Giovanni gli comunicò che suo cugino Giuseppe Amenta, che era anche suo datore di lavoro, lo aveva avvertito di non tornare a Cinisi perché «in quei due giorni sarebbe successo qualcosa di grosso».
La prima sensazione è che Peppino sia in pericolo. Giovanni vuole dirglielo, chiamarlo in disparte, buttarglisi addosso, bloccarlo lì, tra quelle pareti umide, in quella poltrona dove il suo compagno era solito sprofondare, per conversare, o per meditare. E invece no. C’è qualche screzio tra i due – dai tempi dell’occupazione della radio, una vicenda che aveva creato dei dissapori – che non gli consente di farlo subito. Parla allora con Giosuè, va al bar con lui a prendere un caffè, gli racconta più in dettaglio quello che gli è successo. Al ritorno Peppino è lì, per qualche minuto ancora. Poi dice che va a cenare a casa, che sarà di ritorno alle ventuno, per la prevista riunione elettorale. Giovanni guarda Giosuè, gli chiede con gli occhi che deve fare. Seguirlo con la macchina, accompagnarlo? Peppino, si dicono i due, sarebbe tornato da lì a poco; e poi, quante altre volte erano arrivate minacce di quel genere?
Sono le venti e quindici. Da questo momento gli attimi, le parole, i silenzi, le attese, le azioni dei compagni di Peppino sembrano collocarsi in un’atmosfera del tutto nuova, quasi surreale, fuori dalla vita quotidiana. Invece è questa la vita quotidiana, autentica, grave e profonda, che rompe il ritmo ordinario, e pulsa a un tempo di morte e di vita, di tragedia e di speranza. È la Sicilia secolare. Quante altre volte era successo prima? Giosuè e Giovanni pensano: – quello che deve succedere, se è vero, succederà nei prossimi due giorni, non proprio adesso.
Tutto si svolge come visto alla moviola: Salvo alle venti e quindici circa scende pure lui le scale, sale in macchina con Peppino, che lo lascia davanti casa sua, cento metri più sotto. «– Ciao, vado a salutare i miei parenti americani a Cinisi, ci vediamo alle nove». Lo vede scomparire alla traversa del municipio, e, mentre apre la porta di casa, vede passare e girare una macchina nera di grossa cilindrata.
È da tempo che Peppino non vive giorni così intensi. È carico e la campagna elettorale va, tutto sommato, bene: con le denunce di Radio Aut, adesso meno attiva per via di un impegno propagandistico porta a porta, la mostra sulla devastazione del territorio in piazza, le riunioni senza troppe chiacchere e fumo, ma operative, i comizi. L’ultimo, nella sua agenda, è segnato all’11 di quel mese, giorno di chiusura della campagna elettorale.
Quella sera, però, alle ventuno Peppino non torna. I suoi compagni si mettono subito in agitazione. Che si stesse avverando quello che si temeva? Alle ventuno e trenta Giosuè, Giovanni e Benedetto vanno a Cinisi, incontrano Vito e Matteo che passeggiano a piedi nel corso. Neanche loro lo hanno visto. Continuano a passeggiare in macchina. Più tardi incontrano Carlo che, con Matteo, si mette pure lui alla ricerca, mentre Vito inizia a fare la spola, frenetica, da un capo all’altro del corso.
Qualcuno lo segue insistentemente. È Salvatore Pizzo, un muratore. Un illustre sconosciuto fino a questo momento. Ma Vito ricorda di avere notato, nella campagna elettorale del ’76, che questi aveva chiamato in disparte Peppino e aveva conversato con lui per alcuni minuti; analoga cosa aveva fatto un’altra volta al circolo “Musica e cultura”. Dopo la morte di Peppino la sua macchina è stata vista posteggiata vicino alla casa di don Tano Badalamenti, il capo indiscusso della cupola mafiosa, fino ai primi mesi di quell’anno, quando i corleonesi decidono di “posarlo”.
Sono le ventidue e trenta, le ventitrè. Una sensazione curiosa è data dalla particolare animazione dei bar del corso, dovuta alla inconsueta presenza di mezze figure di mafiosi. Forse molti sapevano, tra quelli che stavano dall’altra parte, volevano guardarsi la scena, osservare con soddisfazione quel gruppo sparuto di animali inseguiti, mentre il loro capo veniva portato al patibolo. Ma tutti, vittime e carnefici, sono su una strana ribalta, dove la gente, oltre che dai bar, è abituata a guardare dai soppalchi, dalle persiane semichiuse, da quelle case basse e quasi tutte uguali, schiacciate dal terrore e dall’omertà.
C’è una grande voglia di ritrovare Peppino, di sapere che gli è successo, dove si trova; se possibile anche per difenderlo. Partono quattro o cinque macchine; in una ci sono Giovanni, Giosuè e Benedetto. Si dirigono a casa di Nino Lupo, un amico dal quale Peppino era solito recarsi. Nino non ha dubbi. Esclama: «nni ficiru minnitta!» (lo hanno maciullato). In un’altra macchina ci sono Carlo e Faro, in un’altra Vito e Matteo. Percorrono la via litoranea che Peppino era solito fare quando, uscito da Radio Aut, andava da Terrasini a Cinisi; setacciano le trazzere, dalla spiaggia di Magaggiari alle Quattro vanelle. Percorsi stretti, dai quali bisogna ritornare a marcia indietro. In una di queste strade, la penultima, Faro e Carlo notano, due villini, a sinistra, con le luci accese. Che i proprietari abbiano deciso di anticipare la villeggiatura di due mesi? La squadra di Giovanni si organizza in modo analogo e setaccia tutte le stradine che costeggiano le vie principali che collegano Terrasini a Cinisi. È l’una e mezza.
Nella strada che si snoda lungo l’aeroporto ci sono tre trazzere, sulla destra, vanno a finire alla ferrovia, sotto l’autostrada. Sono corte, per ispezionarle è sufficiente guardare dall’imbocco. Chi ha ucciso Peppino le conosce talmente bene che sa che una di queste, in fondo, ha uno spiazzo sulla sinistra, quanto basta per nascondere delle macchine, quelle degli assassini, e di Peppino. Ma Faro e Carlo non sanno di questo particolare, vedono la trazzera libera, un casolare nella penombra, tornano indietro.
Tutti tornano indietro. Al bar Munacò sono ancora svegli molti ragazzi del PCI. C’è il solito fermento che nei paesi caratterizza gli ultimi giorni di campagna elettorale. Anche loro danno una mano, si uniscono agli altri, anche se è notte fonda. Anche Giampiero si mette alla ricerca del suo compagno. Ricorda quando fecero l’ultimo tentativo di andare a cercare Peppino da sua zia, alla stazione. Ritornando in paese, dopo una estenuante ricerca, ebbe l’impressione che qualcosa si fosse spezzato in lui. Il paesaggio notturno e le luci della strada gli avevano scavato dentro un vuoto incolmabile. Forse per lo sgomento della solitudine, per l’assenza dello Stato, o per la sua inaffidabilità, per l’allucinazione della morte addosso, o per la lucida consapevolezza di essere soli nel quartiere generale di una delle più pericolose e agguerrite famiglie mafiose della Sicilia. Non era solo un addio a Peppino. Quando poi seppe che era saltato in aria, continuò ad essere attivo per qualche tempo, dopo si chiuse in casa rifiutandosi di uscire, per più di dieci anni. Aveva ragione; nessuno poteva difenderlo. Nell’ ’81, quando fu ammazzato Nino Badalamenti, il cugino e successore di don Tano, si scoprì uno dei luoghi in cui le famiglie mafiose locali prendevano le loro decisioni di morte. Era un vecchio villino tra Cinisi e Villagrazia di Carini, completamente vuoto, tranne una stanza arredata con un tavolo rettangolare e otto sedie, sei normali e due con spalliere più alte e soffici cuscini. Tutte le porte erano blindate, le luci blu, molto tenui, abbastanza curiose. Qui, dissero i carabinieri, si sono seduti temibili boss, si sono insediati i tribunali di morte, si sono fatti affari colossali. Per Peppino nessun altro tribunale ha funzionato. Né tanto meno quelli della giustizia.
Tritolo e mafia
L’esplosione dovette verificarsi dopo il passaggio dell’ultimo treno della linea Palermo-Trapani. Alle ore 1,40 del 9 maggio ’78, il macchinista della ferrovia che transita con la propria locomotiva in località feudo di Cinisi, avverte un forte sobbalzo e, impressionato, si ferma. Scende e constata che un tratto del binario è tranciato. Atterrito informa il dirigente della stazione ferroviaria, un certo Giuseppe Puleo, che, a sua volta, due ore dopo, alle 3,45 avvisa i carabinieri del luogo che accorrono prontamente. Essi constatano che la rotaia è, in effetti, divelta e che brandelli di resti umani e di indumenti sono sparsi nel raggio di 300 metri. Notano anche che a circa venti metri dal punto di esplosione si trova la 850 di Fara Bartolotta, la zia da cui Peppino aveva avuto la macchina in prestito. La presenza della vettura e il riconoscimento degli indumenti depongono per l’identificazione della persona deceduta con Giuseppe Impastato. A questo punto la vicenda politica e umana di Peppino sembra concludersi. I carabinieri seguono immediatamente la pista del suicidio/ attentato terroristico e chiudono il rapporto in questo senso. Così, mentre a Roma le brigate rosse fanno trovare, proprio quel 9 maggio, il corpo esanime di Moro, a Cinisi, a un brigatista – dicono – è andata male. Nessun dubbio li sfiora: né il fatto che il dirigente di Democrazia Proletaria avesse ricevuto delle lettere minatorie, né che lo stesso fosse impegnato in prima persona nella lotta contro una delle principali famiglie mafiose della Sicilia, né che il giorno prima una mostra fotografica avesse denunciato, con nomi e cognomi, coloro che egli indicava come i responsabili dello scempio del territorio, quali erano i fratelli Giuseppe e Manuele Finazzo che quella domenica, 7 maggio, non senza tracotanza, avevano pure visitato quella mostra che li accusava, non lasciandoli certo indifferenti. Quel che è peggio è che le indagini, partite col piede sbagliato, non terranno conto, sin dall’inizio, di molti particolari, con grave compromissione di tutta l’impostazione processuale.
La strana e pregiudiziale convinzione che ci si trovi di fronte a un atto terroristico, accomuna le valutazioni di carabinieri e mafiosi. I primi collocano le indagini su una pista sbagliata; i secondi fanno da cassa di risonanza dell’opinione che un esaltato stesse provocando una strage, non raggiungendo lo scopo e rimanendo vittima del suo stesso progetto.
Ma vediamo più da vicino alcuni di questi dettagli.
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La sera del delitto Peppino percorre, come era solito fare, la litoranea che collega Terrasini a Cinisi. Sono pochi chilometri, pochi minuti; solo uno come lui – che non guidava, che non aveva mai voluto la patente, forse per un suo particolare rapporto con la macchina, o con lo spazio o col movimento – poteva avventurarsi, di sera, per quella strada, che, oltrepassata Magaggiari, dopo la trattoria “Andrea”, diventa cupa, folta di canneti, senza anima viva, intessuta di trazzere e vecchie case di campagna. Ad un certo punto, il rettilineo incrocia una trasversale che, a destra, sale diritta verso Cinisi, per il corso principale. Peppino avrebbe dovuto seguire questa strada, girando a destra. Invece, quella sera, la sua macchina prosegue diritto, ancora un pò più avanti, per occultarsi sul fondo di una di quelle trazzere, e precisamente quella che serviva un appezzamento di terra con rustico di proprietà del farmacista Venuti, pure lui di Cinisi. È molto probabile che Peppino sia stato bloccato prima di giungere all’incrocio, con un pretesto qualsiasi e, stordito, magari con un colpo in testa, sia stato condotto sul posto del delitto. Non ci sono tracce di sangue nella macchina, né questa presenta segni di urto o di un’avvenuta colluttazione. Ma tutto lascia pensare che, proprio a partire da questo punto, gli assassini abbiano messo in opera la loro trappola mortale. Altrimenti si dovrebbe dar credito a quanto asserito dalla proprietaria del bar Munacò di Cinisi, Anna Maniaci, la quale, nove giorni dopo il delitto, dichiarava ai carabinieri che la sera dell’8 maggio, Giuseppe Impastato, tra le 20,30 e le 20,45 era entrato nel suo bar per bere un “whisky 69”. Cosa che appariva improbabile sia perché chi conosceva Peppino non gli aveva mai visto bere quel tipo di alcolico, sia perché quella sera egli, a quell’ora, non era stato visto da nessuno nel suo paese, dove, per altro, proprio a quell’ora, era atteso dalla madre e dalla cugina alla quale abbiamo accennato. E, tuttavia, supposta per vera l’affermazione della Maniaci, si deve ritenere che, avendo essa affermato che Impastato appariva “normale”, doveva essere lì ad attendere qualcuno che, avendolo incontrato mentre saliva in macchina dal corso, lo aveva pregato di aspettarlo al bar con un pretesto qualsiasi. Anche in questo caso la tesi iniziale avrebbe dovuto essere quella dell’omicidio. Ma c’è da chiedersi: quale assassino avrebbe scelto questa soluzione piuttosto che quella di bloccare la sua vittima in un luogo assolutamente isolato e buio?
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Sul luogo del delitto Peppino è stato condotto in stato di incoscienza. A guidare la sua macchina c’era il suo assassino o un suo complice. E difatti, scrive il giudice Caponnetto, l’ipotesi dell’omicidio è suffragata da una serie di dati, non ultimo «il rinvenimento di tre chiavi vicino alla macchina di Impastato e precisamente accanto alla portiera destra, cioè accanto al posto guida di chi si trova vicino al guidatore, l’una vicino all’altra, mentre una quarta chiave (“un chiavino del tipo Yale”) venne ritrovata perfettamente pulita, ossia senza alcuna traccia della tremenda esplosione, a circa cinque metri dal punto dell’ esplosione stessa, nei pressi di un cespuglio, tra la parte sterrata e la massicciata».
Non si sono mai saputi i nomi dei proprietari di queste chiavi, né quali impronte digitali avessero lasciato su di esse o sulla macchina. I nomi dei possibili indiziati li aveva fatti Peppino nella sua campagna elettorale. E se le chiavi fossero appartenute a lui, non era altrettanto evidente che qualcuno, nel tirarlo fuori dalla macchina, dal lato destro, le aveva fatto cadere, inconsapevole della loro esistenza? È, comunque, curioso che la mattina del 9 maggio i carabinieri entrarono nella sede di Radio Aut, senza avere forzato la porta. Di quali chiavi erano forniti?
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Di buon mattino avevano già terminato tutti i loro rilevamenti. Saranno alcuni volontari, l’11 maggio, a tentare di individuare ogni elemento possibile da consegnare all’attenzione di chi avrebbe potuto prestare fede a una versione diversa da quella fornita da carabinieri e mafiosi. Operazione difficilissima, ma che fu resa possibile grazie alla disponibilità del prof. Ideale Del Carpio, libero docente dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Palermo, di un gruppo di studenti del collettivo politico della facoltà di medicina, dei compagni di Peppino. In questo senso, quello stesso giorno, partiva un esposto per la Procura della Repubblica firmato da Francesco Carlotta, Giuseppe Barbera e Paola Bonsangue, mentre ci si dava da fare per rinvenire tracce utili alle ricerche. Lo sforzo fu produttivo perché i compagni di Peppino raccolsero dei resti umani che conservarono in un sacchetto di cellophane. Andrea e Ferdinando Bartolotta, Vito Lo Duca e Pino Manzella notarono cinque macchie di sangue all’interno del casolare, tra la parte superiore più esterna di un sedile, che i cinisensi in dialetto chiamano “ricchiena”, e la soglia della porta, e prelevarono “da un locale a nord della casa rurale” una pietra contenente altre macchie di sangue. Data l’ora tarda, quei miseri resti, quel giorno, furono custoditi in una casa di campagna di proprietà di un compagno di Peppino, Pino Manzella e l’indomani furono consegnati all’Istituto di medicina legale. E sarà a seguito di una ispezione giudiziaria che i periti presenti al sopralluogo noteranno, anche loro, su una grossa pietra infissa nel terreno del caseggiato rurale di cui si è parlato, una macchia di sangue. I successivi accertamenti ematologici consentiranno di stabilire che si trattava di sangue umano del gruppo “O-CD”, lo stesso di quello di Peppino, e di cui, al momento del rinvenimento, era macchiata la sua camicia.
Dunque, secondo un calcolo assai probabile della dinamica del delitto, Peppino fu bloccato sulla litoranea Terrasini-Cinisi, presumibilmente da due-tre persone; fu stordito (nel modo in cui si è detto o, forse, con un tampone di cloroformio, o altra analoga sostanza anestetizzante) e fatto passare accanto al posto guida nel tratto che va dal rettilineo che precede l’incrocio della litoranea con la strada per Cinisi, all’incrocio stesso. Quindi fu condotto, con la sua stessa autovettura, fino al caseggiato rurale del Venuti. Erano presumibilmente le 20,30. Qui venne sottoposto ad atroci torture, finché il suo corpo, sanguinante, fu adagiato a terra con la testa poggiata sul lato più stretto del sedile al quale abbiamo accennato. Proprio su questo lato furono fotografate altre macchie di sangue che visibilmente qualcuno aveva cercato di cancellare. Nelle condizioni in cui Peppino si trova, tutto lascia pensare a un’aggressione violenta. Ma se lo avessero lasciato così lo scopo di quel barbaro assassinio sarebbe fallito. I suoi carnefici vogliono ucciderlo due volte. Per mettere in opera la seconda parte del loro macabro piano non devono fare altro che attendere, perché l’ultimo treno passa dodici minuti dopo la mezzanotte. Quando lo distendono sulla rotaia con quattro chili di tritolo attaccato al petto, Peppino è forse ancora vivo. Forse nell’agonia sente i suoi carnefici, e sa che quell’esplosivo di cui essi parlano è quel DNT – dinitrotoluene – dicono gli accertamenti tecnici – usato “anche nelle cave”. Ma mai nessuna indagine fu fatta per accertarne la provenienza da una di quelle numerose cave che erano state oggetto delle sue denunce. Ad esempio, da quella di Parrineddu alias Percialino, come lo chiamava Peppino. In compenso gli assassini ebbero tempo e modo di far pesare la loro persecuzione silenziosa sui vari membri del gruppo di Peppino, perché si andassero a rintanare, o si sentissero sotto tiro.
La notte del 12 – racconta Pino Manzella – la mia casa di campagna, dove la notte precedente si erano custoditi i resti di Peppino, fu “visitata” da ignoti che scassarono la porta e misero tutto sottosopra. Evidentemente gli assassini avevano seguito tutte le nostre mosse. Denunciai il fatto ai carabinieri – continua – perché ero sicuro che, essendo in corso delle perquisizioni, qualcuno avrebbe potuto occultare delle armi per confermare le tesi dei mafiosi locali. Ma può darsi che volessero semplicemente ammonirmi o sapere cosa avevamo trovato. Tutto il gruppo fu tenuto sotto controllo dalla mafia, per qualche tempo – conclude –. Ricordo che una macchina targata Modena (si diceva che don Tano avesse delle fabbriche di ceramica in provincia di Modena) attraversava la strada al momento in cui andavo a chiudere la mia macchina nel garage. Oppure ricevevamo delle telefonate, non rispondeva nessuno. Volevano accertare se eravamo dentro e darci la sensazione che ci controllavano.
«Lo dissi a Caponnetto e a Borsellino – dice Felicia –. Ad uccidere mio figlio sono stati i sicari di Tano Badalamenti. E chi suggerì l’omicidio fu un politico. A lui si deve attribuire la messinscena dell’attentato terroristico. Un politico locale che rimase tre giorni senza venire a Cinisi». Il delitto, in effetti, è costruito politicamente, è una montatura che per il modo in cui viene concepita lo rende abbastanza inconsueto nello stile e nella simbologia mafiosa. I mafiosi, solitamente, ammazzano una volta. Anche Sciascia allora ebbe a definire il delitto come atipico. «La mia casa – dice Felicia – si riempì di sbirri, cercavano il terrorista. Anche il paese era pieno zeppo di sbirri, e camionette». Si doveva dare l’impressione che a Cinisi ci fosse un nucleo armato delle brigate rosse. Di buon mattino, quando i compagni di Peppino arrivano sul luogo del delitto, vengono bloccati come sospetti, e indicati dai presenti come appestati. Quella mattina Rosa Battagghia, sorella di don Tano, che aveva un negozio di generi alimentari, disse a Stefano Venuti che si era recato a fare la spesa: «Sai che il tuo amico è saltato in aria mentre stava facendo un attentato?». Insomma, la parola d’ordine che i mafiosi avevano diffuso era che Peppino fosse un terrorista che aveva fatto la fine che meritava, come Feltrinelli. Alle otto del mattino i carabinieri, avevano già setacciato i locali di Radio Aut, e subito dopo si erano recati in giro per le ulteriori perquisizioni. Ma non in casa dei mafiosi, ma degli amici di Peppino, già convocati in caserma. Sequestrarono: a casa di Giampiero un numero di Panorama del maggio del ’75, con la stella a cinque punte delle brigate rosse, in copertina; una domanda di pensione di suo padre, fotografie di una scampagnata fatta con amici, e un libro, Anatomia della distruttività umana, il cui autore, Erich Fromm, i carabinieri dovettero scambiare per un teorico del terrorismo, a giudicare dal titolo; a casa di Giovanni un opuscolo sull’energia nucleare (poteva essere stato utile per la costruzione della bomba?!), una paletta da vigile urbano che era servita alla scuola elementare per una lezione di educazione civica, qualche libro; Vito, invece, si vide portare via un giravite, un saldatore, una morsetta, del filo e altro materiale che solitamente si tiene in casa per qualche riparazione. Quelli di Terrasini, come Andrea e Faro, fecero in tempo a recarsi a casa per stracciare i numeri di Lotta continua; Giosuè distrusse il Testamento di Sartre, non si sa mai, mentre salvò Lotta continua perché mescolata col Secolo di cui il padre era abituale lettore. Anche la casa di Giovanni, fratello di Peppino, fu perquisita. Erano le cinque del mattino. I carabinieri lo buttarono a terra dal letto, si portarono via una montagna di libri, lo spedirono in caserma. Tre ore di interrogatorio. Alla fine gli comunicarono che suo fratello poteva considerarsi un caduto sul lavoro perché – dissero – era morto mentre faceva il suo mestiere, quello del terrorista.
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La ricerca del gruppo e il gioco delle utopie possibili