I cento passi di Giordana
Mi sono recato a Cinisi per la prima volta nell’inverno del 1999 insieme a Fabrizio Mosca, il produttore de I Cento passi, al tempo ancora in gestazione. Era stato lui a propormi la bella sceneggiatura di Claudio Fava e Monica Zapelli, insieme decidemmo di fare un primo sopralluogo per vedere i luoghi e soprattutto conoscere i famigliari e gli amici di Peppino Impastato. In cuor mio non avevo ancora deciso di fare il film, molti erano i dubbi che mi tormentavano. Non tanto per la figura esemplare e affascinante di Peppino quanto per tutto il resto che avrei dovuto mettergli intorno: la Sicilia e i siciliani, le case, i paesaggi, le parole, i silenzi. Sapevo troppo poco della Sicilia, giusto quello letto sui libri o visto al cinema. Ogni volta che c’ero stato avevo avuto sensazioni molto forti, come davanti a una personalità molto forte, ma erano state visite troppo brevi per trasformarsi in vera cognizione. Temevo perciò di cadere nei luoghi comuni, negli stereotipi coi quali l’isola viene spesso rappresentata. Ero un estraneo, uno straniero che non sa la lingua e deve farsi ripetere le frasi per cominciare a masticarle. Non avrei voluto deludere il mio giovane produttore, così entusiasta e coraggioso, ma nell’intimo meditavo di rinunciare. Aspettavo il momento buono per dirglielo. Poi accadde qualcosa che mi fece cambiare idea.
Felicia Impastato parlava svelta, di fretta, come a liberarsi subito dei convenevoli. Gli occhiali ingrandivano i suoi occhi attenti, curiosi, non ostili ma nemmeno ingenui. Si capiva che con lei bisognava essere diretti, dire pane al pane. Nessuno poteva prevedere gli sviluppi successivi, né immaginare che le nostre vite si sarebbero intrecciate in modo così decisivo, in quel momento non eravamo che gli ennesimi visitatori e chissà quante volte l’aveva già raccontata la storia di Peppino. Eppure appena Felicia cominciò a parlare non ci potemmo più scollare. Nessuna autocommiserazione nelle sue parole, mai una lamentela, una lacrima. Non inveiva, non recriminava. Esponeva i fatti con la semplicità e l’evidenza del testimone e al tempo stesso dello storico che ne sa tutta la portata, tutte le implicazioni. Perfino il modo di dire, la “recitazione” (dovete scusarmi ma il regista è sempre al lavoro, vede tutto attraverso l’occhio della macchina da presa), non utilizzava alcun artificio retorico. Nessun pathos indotto dalle dinamiche del volume o del ritmo, da pause o accelerazioni. Non parole per colpire un pubblico, non conferenza o comizio ma confessione privata, riepilogo per non perdere la memoria. E davvero senza quella memoria, conservata prima di tutti da Felicia, poi da Giovanni e via via da tutti i compagni di Peppino, oggi non ci sarebbero di lui che tracce sbiadite. Mi fecero molta impressione quelle parole e soprattutto il tono. Mi diedero una chiave per avvicinarmi al film. Mi fu chiaro che se l’avessi fatto avrei dovuto adottare quello stesso punto di vista, “interno” e distaccato al tempo stesso. Parlare di quei fatti senza sollecitare la mozione degli affetti, senza gonfiare il petto e ricattare l’interlocutore giocando sulla compassione. Al contrario avrei dovuto essere il più asciutto possibile, allineare gli elementi e mostrarli così com’erano. Gli spettatori ci avrebbero poi aggiunto i propri sentimenti, il proprio giudizio, ben sapendo che ciò che può fare un film è costruire il mythos, la leggenda, il romanzo attraverso cui far vivere le verità occultate (o distorte fino a renderle irriconoscibili), non certo sostituirsi alla legge o alla comunità delle persone che in tutti quegli anni aveva tenuto acceso il fuoco.
Il libro di Salvo Vitale parla proprio di loro, delle ragazze e dei ragazzi che all’indomani dell’omicidio si attivarono perché venisse identificato come tale e non rimanesse impunito. Un lavoro quotidiano, accurato, microscopico, per raccogliere dati, prove, testimonianze che smentissero l’idea assurda del suicidio che inseguivano gli investigatori. O dell’incidente sul lavoro dell’attentatore maldestro, come dissero dopo che la pista del suicidio divenne impraticabile. Tutti questi amici di Peppino, anzi i suoi compagni, quelli che avevano condiviso con lui l’esperienza delle lotte politiche, del circolo Musica e Cultura, di Radio Aut o anche soltanto un’amicizia senza tessera, hanno dovuto battersi per molto tempo contro i depistaggi e la malafede delle prime indagini prima di incontrare giudici e investigatori per bene. Senza l’incontro di tutte queste forze, senza il contributo di queste persone, la verità non sarebbe mai venuta in luce. Sarebbe rimasta nascosta fra i sassi della ferrovia, nelle ficaie d’India che limitano i campi, nei muri a secco, nell’omertà degli assassini che non ebbero nemmeno il coraggio di firmare, come vuole la tradizione mafiosa del castigo esemplare. Ma come firmare una condanna a morte motivata solo dal ridicolo che Peppino aveva riversato su di loro dai microfoni della radio? Come ammettere di esserne stati umiliati? Una silenziosa sotterranea battaglia iniziata nel momento stesso in cui Peppino è stato assassinato, le stagioni, gli alti e bassi, i momenti in cui i mafiosi sembravano averla vinta, le speranze accese da un giudice volonteroso. Anche nei momenti più disperati, quando sembra davvero che sia il male a prevalere – si sente sempre una forza d’animo, una volontà che s’impone anche a distanza di tanto tempo. Non fu solo l’amore per Peppino, il rimpianto e lo sdegno per la sua fine atroce. Fu soprattutto un atto di ribellione al sopruso e speranza nella giustizia. Fu rifiuto di considerare immutabili le cose e fiducia al contrario che prima o poi la verità viene a galla e diventa patrimonio comune, cultura, condivisione.
Sono passati molti anni da quell’autunno del 1999 in cui ho girato I Cento Passi e conosciuto Salvo e molte delle persone di cui parla il suo libro. Inevitabilmente la vita di un regista viene scandita dai suoi film, ognuno porta con sé un tempo lungo di lavorazione, di incontri, di persone che per un periodo ti sono indispensabili come l’aria che respiri. Poi tutto svanisce, cancellato o assorbito dal progetto successivo. La stagione de I Cento Passi invece per me non è mai finita. Dura ancora, la sua energia non si è spenta. Spesso mi invitano nelle scuole a parlare del film, tuttora mi giungono corrispondenze dai luoghi più lontani, gente che lo ha visto in televisione o in DVD o su Youtube e vuole saperne di più. Voglio dire che negli anni quest’avventura si è trasformata in qualcosa che non riguarda più solo la professione, ma invade il campo dell’amicizia e degli affetti più profondi. Mi fa un grande piacere ritrovare questi amici nelle pagine di Salvo, oltre ovviamente ritrovare lui. Appartengono a un periodo molto bello della mia vita, ricordano figure che mi scaldano il cuore. E’ bello vedere che nessuno di loro ha dimenticato, nessuno si è tirato indietro. Serve sapere che c’è gente così.
Marco Tullio Giordana
(Introduzione al libro di Salvo Vitale”Cento passi ancora” – Rubbettino 014)