Peppino Impastato, sul depistaggio una lotta che non si può fermare (Aaron Pettinari)
A 40 anni dal delitto restano troppi i buchi neri
di Aaron Pettinari
“La linea scelta nell’accertamento delle cause e degli autori dell’assassinio è il frutto di un atto positivo di volontà, di una precisa scelta. Non negligenza o inerzia, ma scelta consapevole di non vedere la sfida della mafia e lucida decisione di lasciare inesplorati il sistema e i poteri criminali di quel territorio”. Nero su bianco il depistaggio delle indagini sul delitto di Peppino Impastato è stato certificato con queste parole, il 6 dicembre 2000, nella relazione della Commissione Antimafia allora diretta da Russo Spena. Una verità che traspariva sin dall’immediatezza delle indagini avviate in quel nove maggio di quarant’anni fa. A lungo la madre di Peppino, Felicia, il fratello Giovanni, i compagni e il Centro Impastato si adoperarono per far luce su di esso, senza mai arrendersi a quelle false piste investigative che volevano dipingere l’Impastato come un terrorista ed un suicida.
“Giuseppe Impastato sfidò la mafia in un territorio in cui si era stabilito un sistema di relazioni tra segmenti degli apparati dello Stato e mafiosi molto potenti – è sempre scritto nella relazione della Commissione antimafia – un sistema di relazioni che, in quegli anni, può essere rinvenuto anche in altri territori, teso, spesso illusoriamente, alla cattura, per via confidenziale, di alcuni capimafia, all’apporto che queste relazioni potevano dare ad alcuni filoni di indagine o, comunque, ad una pacifica convivenza per un tranquillo controllo della zona”. “È anche del tutto probabile – si legge nel documento – che Badalamenti (il capomafia di Cinisi, ndr) abbia avuto dei rapporti confidenziali con i carabinieri in una zona alta, apicale, data la statura delinquenziale del capo mafia di Cinisi. È ancora tutto da scrivere il capitolo del rapporto tra mafiosi e forze dell’ordine. E quando lo si scriverà si potrà vedere che esso è popolato da notissimi capimafia i quali, agli occhi del popolo mafioso, vogliono apparire come i più fieri avversari della ‘sbirraglia’ ma in realtà con la ‘sbirraglia’ trattano, si accordano, fanno dei patti. Un doppio gioco. Per un lungo periodo storico la prassi dei rapporti confidenziali dei carabinieri e dei poliziotti con i mafiosi è stata un dato di fatto, anzi è stata il cuore di quelli che oggi vengono chiamati ‘colloqui investigativi’”. La verità processuale sulla morte di Peppino, dopo ben tre inchieste, arrivò pochi anni dopo; nel 2001 con la condanna a 30 anni di Vito Palazzolo, autore materiale del delitto; nel 2002 con l’ergastolo per il boss Gaetano Badalamenti, il mandante.
La nuova inchiesta
Così giustizia, almeno in un fronte è stata fatta, anche se oggi ne resta irrisolto il fronte del depistaggio. A riguardo sono indagati per favoreggiamento il generale Antonio Subranni (già condannato in primo grado al processo trattativa Stato-mafia) e per falso i sottufficiali che all’epoca condussero la perquisizione a casa Impastato: Carmelo Canale, Francesco De Bono e Francesco Abramo. Tra i quattro uomini dell’Arma solo Canale ha rinunciato alla prescrizione in quanto vuole essere assolto dal reato. In particolare ci si concentra su due relazioni stilate dai carabinieri all’epoca dei fatti e consegnate dal comando provinciale dei carabinieri di Palermo nel 2000. In questi documenti si fa chiaro riferimento “all’elenco del materiale informalmente sequestrato in occasione del decesso di Impastato Giuseppe, nella di lui abitazione”.
Un termine, quel “sequestro informale”, che non esiste in nessun manuale di diritto italiano e che viene descritto anche nella relazione della Commissione parlamentare antimafia.
In tal senso la Commissione Antimafia scrive: “È provato che, dopo i ‘sequestri informali’, cioè senza il rispetto delle formalità di legge, di materiale documentario di proprietà di Giuseppe Impastato, sono stati posti in essere ulteriori accertamenti di cui agli atti processuali non v’è alcun riscontro. La macroscopicità di questa violazione della legge processuale costituisce un’anomalia di intrinseca e indiscutibile gravità. Essa comporta la ideologica falsità degli atti descrittivi delle operazioni di perquisizione e sequestro nei domicili di Giuseppe Impastato, ove venne omesso qualsiasi riferimento a tale documentazione”.
Ed è da questo aspetto che la Procura di Palermo nel 2010 ha riaperto l’inchiesta con il sostituto procuratore Francesco Del Bene a cui si aggiunsero poi anche Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia.
Il foglio su cui i carabinieri avevano scritto del “sequestro informale” si affianca all’elenco di sei fogli del materiale formalmente acquisito. Tra questi lettere, volantini e scritti di ispirazione politica, compreso quello in cui Peppino aveva scritto “Voglio abbandonare la politica e la vita”. Un appunto utilizzato dagli inquirenti per indicare la pista del suicidio. Secondo il racconto di Giovanni Impastato, però, i militari portarono via anche altro materiale.
“Nella nostra casa portarono via diversi sacchi di documenti alcuni anche importanti – ha ricordato in più occasioni – Ricordo che mio fratello poco prima di morire si stava interessando attivamente alla strage della casermetta di Alcamo Marina, che nel 1976 costò la vita a due giovani carabinieri – ha ricordato in più occasioni – In seguito a quel fatto, gli uomini dell’Arma vennero a perquisire casa nostra dato che mio fratello era considerato un estremista. Da lì Peppino iniziò a raccogliere informazioni sulla questione, notizie che accumulava in una specie di dossier. Questi documenti non sono più rientrati, né sono stati verbalizzati”. Cosa aveva scoperto Peppino Impastato su quella strage? Per anni furono accusati ingiustamente di quella strage Giuseppe Gullotta, Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo. Poi nel 2012 furono assolti nel processo di revisione quando Renato Olino, brigadiere in pensione, raccontò agli investigatori che le loro confessioni erano state estorte con le torture. Ancora oggi, dunque, gli esecutori di quella strage sono senza volto.
Possibile che Peppino avesse scoperto qualcosa già allora? Di questo non si parla nelle indagini.
Anche Salvo Vitale, amico e compagno di lotta di Peppino Impastato ricorda benissimo i giorni successivi all’omicidio e più volte ha raccontato di come vennero gestite le indagini dai carabinieri. Interrogatori feroci in caserma e perquisizioni nelle case dei ‘compagni’ anche prive di mandati di perquisizione. Furono proprio i compagni di Peppino assieme al fratello Giovanni a raccogliere informazioni e prove che a distanza di anni dimostrarono il depistaggio messo in atto nelle prime indagini, a cominciare dalla pietra macchiata di sangue che gli investigatori fecero finta di non vedere.
I testimoni “scomparsi” e le accuse dei pentiti
“Non è stata la mafia”. Questo sembrava essere il messaggio che doveva passare. E così anche testimoni importanti non vennero sentiti, anche se di quel delitto potevano aver visto od udito molto. Un esempio lampante è quello di Provvidenza Vitale, la casellante di turno al passaggio a livello di Cinisi la notte tra l’8 e il 9 maggio 1978. Nessuno la cercò realmente, “si è trasferita negli Usa, è irreperibile”, scrissero i carabinieri. Tutto falso. La donna aveva sempre abitato a casa sua, a Terrasini, a pochi chilometri da Cinisi. Il pm Del Bene l’ha persino interrogata nel 2011. All’età di 88 anni, però, i ricordi su quanto avvenne sono più che mai sbiaditi. L’unica certezza è che Provvidenza Vitale non si è mai allontanata dalla Sicilia.
Ci sono poi le rivelazoni di collaboratori di giustizia come Francesco Di Carlo che tirano in ballo il generale Subranni in rapporto con Cosa nostra. “Gaetano Badalamenti – ha raccontato il collaboratore – spingeva Nino e Ignazio Salvo per parlare col colonnello. Dopo poco tempo mi ha detto: no, la cosa si è chiusa. Non spuntava più niente nei giornali per un periodo, era stata archiviata”.
Nonostante le accuse la Procura di Palermo, per due volte (l’ultima nel giugno 2016) ha chiesto l’archiviazione nei confronti dei militari in quanto sui reati contestati sono scaduti i termini per la prescrizione. Ad oggi, però, non vi è un gip che si sia espresso sulla richiesta. Certo è che la morte di Peppino Impastato, avvenuta nello stesso giorno in cui venne ritrovato il cadavere dell’onorevole Aldo Moro, rappresenta uno dei capitoli bui di questo nostro Paese. Un elenco lungo che attraversa la storia della nostra Repubblica e che va da Portella della Ginestra e arriva fino alle stragi del 1992 e del 1993, se non addirittura oltre.
Forse, per meglio comprendere il contesto in cui avvenne il delitto del 9 maggio 1978, vale la pena ricordare le parole di Franca Imbergamo, oggi sostituto procuratore nazionale antimafia, che istruì il processo contro i carnefici di Impastato: “Quello di Peppino Impastato non è un omicidio di mafia come tanti altri. In questa indagine non ci siamo imbattuti solo nelle cosiddette coppole, ma troviamo personaggi delle istituzioni. Istituzioni che non hanno il diritto di fregiarsi come tali, tra le forze dell’ordine e la magistratura, su questo omicidio hanno lavorato aI contrario per coprire le responsabilità di chi l’aveva commesso, ordinato, voluto, cercando di fare passare su Impastato la calunnia di essere un terrorista suicida che sceglie l’attentato alla linea ferroviaria. Il depistaggio serviva a tante cose. Serviva ad alimentare il mito del terrorismo, gestito in una certa maniera contro la libertà democratica del paese. Serviva a coprire le responsabilità non tanto del singolo mafioso, ma di gruppi di potere”. Chi c’era dunque dietro quel delitto? Quali interessi venivano salvaguardati? Possibile che fossero solo quelli di don Tano? A quarant’anni di distanza diventa fondamentale trovare una risposta a certi interrogativi. Perché solo così si potrà finalmente parlare di una giustizia completa.
Pubblicato: 09 Maggio 2018 su Antimafia Duemila