I depistatori

78 Cartellone

In questi giorni sono state chiuse le indagini per accertare le responsabilità di coloro che hanno depistato le indagini sulla morte di Peppino Impastato. Sono stati individuati solo tre nomi, mentre non si è fatto alcun riferimento  a tutti gli altri, molti dei quali ormai sono scomparsi. In queste pagine si  tenta di tracciare una retrospettiva sul caso,  individuando una serie di personaggi, certamente artefici, difficile dire quanto  intenzionalmente o preterintenzionalmente, di elementi fuorvianti e/o depistanti nel contesto dell’indagine.

Tra la magistratura si distinguono:

1) il pretore di Carini Giancarlo Trizzino che ordinò l’immediato ripristino della linea ferrata, dopo la scoperta del fatto, facendo cancellare elementi probatori che avrebbero potuto rivelarsi importanti; interrogato dalla Commissione antimafia13 egli nega di aver visto il casolare davanti al quale era ferma la macchina dell’Impastato, ma, nel verbale di ricognizione aveva scritto: «Nello spiazzale antistante una casa rurale abbandonata nei pressi della strada ferrata si rinviene un’autovettura targata Palermo 142453 Fiat 850». Quindi non colse l’importanza del vicino casolare, non ne ordinò l’ispezione, non provvide ad adeguati rilievi tecnici e ad un’accurata documentazione fotografica dei luoghi, malgrado queste attività fossero incluse tra i suoi compiti; a sua scusante ha solo la sua inesperienza dovuta al fatto che ricopriva, per la prima volta, quella carica da appena tre mesi

2) il sostituto procuratore Domenico Signorino, che diresse la prima fase delle indagini: sosteneva, durante gli interrogatori dei compagni di Peppino, che nessuno poteva permettersi di indicare come assassino Ba¬da¬lamenti se non aveva le prove. Anche lui, accorso sul posto, non si curò di ispezionare il casolare. L’esclusione ingiustificata dell’ipotesi di omicidio e della pista mafiosa, secondo la Commissione Antimafia precedette anche il ritrovamento della lettera con il proposito suicida: «Ai titolari dell’indagine peraltro gli amici e i familiari della vittima illustrarono immediatamente le ragioni dell’infondatezza dell’ipotesi del suicidio. Fu detto, tra gli altri motivi, che quel manoscritto di Impastato era stato vergato diversi mesi prima del fatto e la circostanza poteva essere immediatamente verificata, grazie ai riferimenti temporali ivi contenuti. Le condizioni psicologiche di Peppino, la sua attività, la programmazione di impegni per i giorni successivi, lo stato d’animo positivo e battagliero che caratterizzava il suo impegno in quella primavera del ’78 e i fatti che lo comprovavano furono adeguatamente rappresentati e documentati anche nel corso dell’istruzione sommaria condotta dal dott. Domenico Signorino. Ma tutto ciò non fu sufficiente neppure a far sorgere dubbi nel magistrato». Signorino si suicidò nel novembre del ‘92, dando luogo a una ridda di ipotesi. Il pentito Gaspare Mutolo ha descritto accuratamente la sua casa.

3) il procuratore Scozzari, (secondo Chinnici “servo immondo della mafia”) che il 13-5-78 , su pressante richiesta dei compagni di Impastato e del prof. Ideale Del Carpio dell’istituto di medicina legale, cui essi si erano rivolti, effettuò un sopralluogo sul casolare in cui erano state individuate macchie di sangue e raccolse, presso la Stazione dei Carabinieri di Cinisi le deposizioni dei testi prof. Del Carpio, La Fata Piero e Lo Duca Vito, non prestandovi, forse, la dovuta evidenza. A proposito di tali pietre ci si chiede invano che fine abbia la pietra che il necroforo comunale Li¬borio Giuseppe afferma essere stata trovata sporca di sangue, sin dal mat¬tino del 9 maggio nel casolare e consegnata ai carabinieri (12) e perché non si tenne in considerazione la scoperta dell’appuntato Pichilli il quale, già la mattina dopo il delitto aveva individuato, nel casolare, le macchie di sangue. Alquanto singolare è poi la dichiarazione, non sappiamo a chi attribuibile, riportata dal “Giornale di Sicilia”, che il sangue rinvenuto sulle pietre era di tipo mestruale

4) Il procuratore generale Giovanni Pizzillo, il quale sosteneva che le posizioni dei compagni di Peppino erano «speculazioni politiche di comunisti» (13);

5) Il procuratore aggiunto Gaetano Martorana che, il nove maggio, senza recarsi sul posto, ma fermandosi solo alla Caserma dei Carabinieri di Cinisi in un fonogramma spedito a Pizzillo scriveva: «Verso le 0,30 del 9 maggio 1978 persona identificabile in tale Impastato Giuseppe si recava a bordo della propria autovettura Fiat 850 all’altezza del km 80+180 della strada ferrata TP-PA per ivi collocare un ordigno dinamitardo che esplodendo dilaniava lo stesso. Di conseguenza le indagini vengono espletate tenendo presente sia l’ipotesi del suicidio, sia quella dell’attentato dinamitardo».

Tra le forze dell’ordine. ai limiti del patetico appaiono alcuni tentativi di volere scagionare Badalamenti e/o la mafia:

1) un posto di rilievo merita il già tenente dei carabinieri della Digos di Palermo Antonino Subranni, poi promosso colonnello, generale e ca¬po dei ROS, assertore convinto dell’attentato, come risulta dalle sue deposizioni ; basti pensare che lo stesso scrive, non si sa quanto in buona fede, «Nel momento in cui ho redatto il mio rapporto, non erano state rinvenute macchie di sangue nel casolare». I rapporti di Subranni sono del 10-5 e del 30-5. Lo stesso, affermando di essere “il più rappresentativo degli investigatori in quel momento”, continuerà imperterrito a sostenere la correttezza del suo operato anche davanti alla Commissione Antimafia, senza però rispondere direttamente a nessuno dei rilievi postigli e limitandosi a vantare attestati di stima dei magistrati e dei militari al suo intero operato. Troverà da ridire anche sull’intervento del prof. Del Carpio, (da tempo morto), sostenendo di non averlo voluto accusare di falsa testimonianza, solo per magnanimità. Da notare come, erroneamente o furbescamente, egli inserisce i “due mesi e mezzo di menate sul personale” scritti nella lettera di Peppino, in aggiunta ai “nove mesi” in cui egli “medita di abbandonare la politica e la vita” e non compresi tra di essi: in tal modo il periodo si allunga ad undici mesi e mezzo (febbraio-marzo) e diventa più vicino alla data della morte, rendendo più plausibile l’ipotesi del suicidio.

2) accanto a funzionari corretti, come l’artificiere Longhitano, che individuò subito il tipo d’esplosivo (“dinitrotoluene, del tipo usato nelle cave”), troviamo altri, come il Maresciallo dei carabinieri di Cinisi Alfonso Travali il quale, nel rapporto del 30-5, scrive testualmente: «anche se si volesse insistere su un’ipotesi delittuosa, bisognerebbe comunque escludere che Giuseppe Impastato sia stato ucciso dalla mafia» : l’utilità di questa precisazione, del tutto inutile e non richiesta , può avere un senso se si tiene conto delle dichiarazioni del pentito Francesco Di Carlo, il quale testualmente afferma che «la stazione dei carabinieri di Cinisi non li disturbava (si riferisce ai mafiosi), facevano finta di niente perché ci avevano fatto parlare il colonnello Russo. Al colonnello Russo ci avevano parlato i Salvo e Tanino Badalamenti e si comportavano bene». Anche il pentito Francesco Onorato, in una sua dichiarazione del 31 maggio 1997 afferma che «era risaputo che il Badalamenti avesse nelle mani i Carabinieri del territorio di sua pertinenza» .

 3) Un cenno va fatto per il brigadiere Carmelo Canale, allora in servizio, come ausiliario, alla stazione di Partinico, il quale subirà successivamente alcune vicende giudiziarie, per presunti rapporti con la mafia. Fu lui a scoprire, nel corso della perquisizione presso l’abitazione in cui dormiva Peppino, la lettera dalla quale si evincevano intenzioni suicide. Il verbale di tale perquisizione non porta la firma della proprietaria dell’immobile, Bartolotta Fara, zia di Peppino. Gli atti processuali parlano di “sequestro informale”. In tal senso la Commissione Antimafia scrive: «È provato che, dopo i “sequestri informali”, cioè senza il rispetto delle formalità di legge, di materiale documentario di proprietà di Giuseppe Impastato, sono stati posti in essere ulteriori accertamenti di cui agli atti processuali non v’è alcun riscontro. La macroscopicità di questa violazione della legge processuale costituisce un’anomalia di intrinseca e indiscutibile gravità. Essa comporta la ideologica falsità degli atti descrittivi delle operazioni di perquisizione e sequestro nei domicili di Giuseppe Impastato, ove venne omesso qualsiasi riferimento a tale documentazione». E tuttavia la cosa più grave è data dalla pubblicazione di ampi stralci della lettera rinvenuta da Canale sul “Giornale di Sicilia” del 16 maggio ’78. Personalmente ritengo ugualmente strano il mancato sequestro degli appunti autobiografici e della “seconda” lettera di Peppino, che pure, a suo tempo, ho trovato facilmente, nello stesso posto in cui era stata sequestrata la prima .

4) Una nota particolare merita anche il maggiore Tito Baldo Honorati, comandante pro-tempore del nucleo operativo dei cc. di Palermo il quale in una sua nota del 20 giugno 1984, indirizzata al comando del gruppo di Palermo scrive: «Le indagini molto articolate e complesse svolte all’epoca da questo nucleo operativo hanno condotto al convincimento che l’Impastato Giuseppe abbia trovato la morte nell’atto di predisporre un attentato di natura terroristica. L’ipotesi di omicidio attribuito all’organizzazione mafiosa facente capo a Gaetano Badalamenti operante nella zona di Cinisi è stata avanzata e strumentalizzata da movimenti politici di estrema sinistra ma non ha trovato alcun riscontro investigativo, ancorché sposata dal Consigliere istruttore del Tribunale di Palermo dr. Rocco Chinnici a sua volta, è opinione di chi scrive, solo per attirarsi le simpatie di una certa parte dell’opinione pubblica conseguentemente a certe sue aspirazioni elettorali, come peraltro è noto, anche se non ufficialmente ai nostri atti, alla scala gerarchica. Lo stesso magistrato peraltro, nell’ambito dell’istruttoria formale condotta con molto interessamento, non è riuscito a conseguire alcun elemento a carico di esponenti della mafia di Cinisi, tanto da concludere con un decreto di archiviazione per delitto ad opera di ignoti. A parte il complesso di elementi a suo tempo forniti da questo Nucleo a sostegno della tesi prospettata dall’arma, si vuole fare osservare, e ciò è di immediata intuizione per chi conosca, anche superficialmente questioni di mafia, come una cosca potente, e all’epoca dominante, come quella facente capo al Badalamenti, non sarebbe mai ricorsa, per l’eliminazione di un elemento fastidioso, ad una simulazione di un fatto così complesso nelle sue componenti di natura ideologica, ma avrebbe organizzato, o la soppressione eclatante ad esempio e monito di altri eventuali fiancheggiatori dell’Impastato, o la più sbrigativa e semplice eliminazione con il sistema della lupara bianca che ben difficilmente avrebbe comportato particolari ripercussioni» .

Il “baldo” maggiore vuole, dimostrare di essere un “esperto” in psicologia: crede infatti di conoscere il pensiero di Gaetano Badalamenti, quello dei “fiancheggiatori” di Peppino Impastato e persino quello del giudice Chinnici: infatti pretende di sapere che la mafia di Cinisi non avrebbe avuto motivo di inscenare un simile delitto, sa che i compagni-fiancheggiatori di Peppino sono di estrema sinistra e quindi, sillogisticamente, “strumentalizzatori”, sa che Peppino aveva deciso il suicidio e che quindi doveva per forza suicidarsi, sa infine, e la cosa risulta nuova a noi, ma non, a suo dire, ai suoi compagni dell’Arma, che Chinnici aveva ambizioni elettorali e avrebbe agito per procacciarsi le simpatie di qualche parte politica. Il brano si commenta da sé e dimostra sino a quale punto, anche tra le alte sfere delle forze dell’ordine, ci sia gente che non esita a ricorrere a certe inqualificabili scorrettezze, soprattutto quando si tratta di infierire su persone morte e politicamente non gradite: non c’è dubbio che , dalla presenza di tipi del genere alcuni carabinieri non ne escono Honorati, ma dishonorati. Nella relazione dell’Antimafia si legge: «La nota Honorati è del giugno 1984. Il magistrato era stato ucciso dalla mafia il 23 luglio 1983. Ed è proprio questo particolare a rendere oltremodo stigmatizzabile lo stile adoperato e la spiegazione data delle iniziative intraprese dal giudice Chinnici» .

Dal libro di Salvo Vitale  “Peppino Impastato, una vita contro la mafia” edizioni  Rubbettino, 

 

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