5 Gennaio, nasce Peppino Impastato, uccidono Pippo Fava
Fiore di campo nasce
dal grembo della terra nera
Fiore di campo cresce
odoroso di fresca rugiada
Fiore di campo muore
sciogliendo sulla terra gli umori segreti.
Peppino Impastato
5 gennaio 1948: nasce Peppino Impastato. Oggi avrebbe 71 anni. Molti si chiedono cosa farebbe oggi, quale strada avrebbe percorso, con chi si sarebbe schierato. Cercare di dare risposte è solo un’esercitazione della fantasia. Peppino era ed è rimasto quello che è, quello che fu, un contestatore del sistema di potere che ci soffoca, un comunicatore, uno che aveva un progetto politico ben chiaro, ovvero la realizzazione di una società senza ingiustizie e senza differenze di ricchezza, una società di uguali, in cui non solo la legge è uguale per tutti, ma anche tutto ciò che offre la vita. E se uguaglianza non significa banalità, conformismo, assuefazione ma, al contrario, possibilità di sviluppare le proprie capacità, di sapersi autogestire, di organizzarsi con gli altri in comunità, allora questo è comunismo. È inutile nascondersi dietro il dito, dire che Peppino era uno che lottava contro la mafia e basta, pregare per lui o farne un santino cui esprimere devozione e ammirazione. Tanti hanno la brutta abitudine di dire: “Io sono Saviano”, “Io sono Charlie”, “Io sono ….: mi sembra sia tutto fumo, perché ognuno è quello che è e dovrebbe restare tale. Se c’è qualcuno che se la sente, dica pure: “Io sono Peppino Impastato”, purché abbia poi il coraggio di aggiungere “Io sono comunista”, come lo era e pensava di esserlo Peppino, purchè sappia rompere con suo padre, se è amico dei mafiosi e dei potenti, purchè sappia organizzare momenti di lotta contro il sistema. Dopo di che, fare gli auguri a una persona morta nel 1978 ha solo senso se la sentiamo ancora vicina, se ancora ci trasmette il suo flusso di energia e se riteniamo che le sue idee rivoluzionarie siano una base di lotta per ribaltare le perversioni in cui la struttura capitalistica della società stritola l’essenza di ognuno di noi. Ma questo lo dice anche il papa. E a volte è forte la tentazione di èpensare che sia lui l’ultimo comunista rimasto
5 gennaio 1984: per una di quelle coincidenze strane, oggi ricorre anche il 35° anniversario della morte di Giuseppe Fava, il più grande giornalista siciliano, ucciso, anche lui come Peppino, perchè “parlava troppo”.
Si noti che il numero “48”, data di nascita di Peppino , capovolto, diventa il numero “84”, data della morte di Fava e che si chiamano entrambi Giuseppe. Peppino parlava, Pippo scriveva “troppo” direttamente sul suo splendido giornale “I Siciliani”. Ebbe la fortuna di trovare un gruppo di collaboratori, giornalisti nati, che sapevano fare le inchieste, che avevano cominciato a leggere lucidamente i meccanismi perversi di questa società e sapevano illustrarli e denunciarli. Sia Peppino che Pippo Fava sono stati gli antesignani del modo di fare giornalismo libero, senza padroni e senza censure: farlo in Sicilia non è facile. Qua vige, da secoli, per volontà della mafia, e, più in generale per decisione dei cosiddetti “padroni del vapore”, la legge del silenzio, “mutu cu sapi u iocu”, l’omertà, “nun sacciu, nun vitti, nun ntisi”: chi dice in faccia come stanno le cose diventa un nemico del sistema di potere che controlla tutte le informazioni e decide quali far circolare, grazie ai suoi giornalisti lecchini. Fava ha dato il suo grande messaggio, che ognuno di noi dovrebbe scrivere all’ingresso della sua porta, sul frontone della stanza da letto, sullo specchio del bagno, dentro il portafogli o direttamente sulla sua testa: “A che serve vivere, se non si ha il coraggio di lottare?”.
Qualche giorno dopo la morte di Pippo Fava, ho scritto questa poesia:
Per Giuseppe Fava
Dai cadaveri viventi
il solito “Cu ci u faceva fari?”,
e continueremo a morire,
a vederci rubare
i momenti migliori della nostra vita
perché non abbiamo accettato
le regole della sopraffazione,
perché abbiamo voluto
salvare la dignità per gli altri.
Continueremo in solitudine
la nostra fragile lotta
contro i corvi del potere
senza rinunciare
alla certezza del giusto:
sulla resa di pochi
è la sconfitta di tutti.
Possiamo ancora farcela:
se questo venir fuori,
candidarsi a bersaglio,
servisse come seme
per la ribellione dei vinti,
moriremmo con meno angoscia .
(il testo originale è pubblicato in Salvo Vitale: “Era di passaggio”, Navarra editore)