La Corte ha deciso: Il suicidio assistito qualche volta non è punibile
La decisione della Corte Costituzionale sul suicidio assistito chiude per il momento la delicata questione sulla scelta di decidere sulla propria vita quando questa è diventata insopportabile, rimarcando che chi agevola tale decisione o si presta a porla in atto non è equiparabile a chi istiga al suicidio.: “E’ non punibile”, a “determinate condizioni”, chi “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Su invito della Corte il Parlamento ha avuto un anno di tempo per legiferare, ma non l’ha fatto, e non ci vuole molto a capire perché: si tratta di uno di quei temi che, pur interessando un esiguo numero di persone, spaccano i fronti politici a causa dei pregiudizi ideologici e dell’eterna pretesa da parte chi ha una sua barriera di moralità, credenze e certezze, di volere decidere, sulla base di queste, sulla vita e sulle scelte degli altri. L’aborto e il divorzio in passato hanno segnato il solco di queste divisioni, particolarmente presenti in un’Italia in cui da sempre l’ha fatta da padrone la morale “religiosa” , spesso ipocrita. Ma in quel caso erano campagne di massa che interessavano milioni di persone, nel nostro caso si tratta di poche vite di malati terminali che possono servire a essere strumentalizzate a fini politici o a sollevare campagne per distogliere l’attenzione da altre cose più importanti. Ed è in base a questa morale che, da tempo vescovi, cardinali e preti si sono pronunciati sostenendo che non esiste un diritto a morire, ovvero che nessuno è padrone della propria vita, ma solo dio ne può disporre. Si tratta di una forzatura logica che attribuisce a un’ipotetica divinità, la cui volontà è rappresentata sulla terra da alcuni uomini, il potere di disporre della vita di ognuno, presupponendo che questa vita sia stata data sempre dalla stessa divinità, la quale avrebbe il potere di darla e di toglierla. Sicuramente il Parlamento ha accantonato la questione perché le rappresentanze cattoliche, comprese quelle col crocifisso in mano, presenti in ogni componente politica, avrebbero potuto far quadrato e spaccare i partiti provocando sul nulla guerre di religione, referendum, scomuniche e accuse di omicidio. Sono le stesse persone che possono arrogarsi questo diritto, non avendo mai conosciuto cosa vuol dire essere chiusi nella gabbia di un corpo in cui ci sono solo sofferenze indicibili che non si riescono più a sopportare. Già i 4000 iscritti dell’associazione medici anestesisti cattolici, ha dichiarato in anticipo che si appellerà all’obiezione di coscienza, rifiutandosi di seguire le indicazioni di chi non ce la fa più. Così, tanto per non aumentare il peso del proprio lavoro.
Ripropongo un mio breve saggio sull’argomento, scritto nel 2009, pubblicato su Antimafia Duemila nel 2014, ma sempre attuale
Di chi è la mia vita?
Suicidio, eutanasia e altro tra teocrazia e laicità
L’amaro caso di Eluana Englaro, così come quello di Kelby e quello di Fabo ripropone il problema di stabilire se ogni soggetto umano è padrone della propria vita: l’alternativa è quella secondo cui padrone della vita è solo Dio, il quale è libero di darla o di toglierla a suo piacimento (più elegantemente, “secondo i suoi imperscrutabili disegni”), al di là della volontà del singolo o anche contro di essa. In tal senso Dio diventa colui che accende e spegne l’interruttore e, al momento della morte, ha lo stesso ruolo di Atropo, l’arpia che tagliava il filo della vita. Pertanto gli atti della morte e della nascita diventano prerogative di Dio, un’identificazione con la sua stessa figura di padrone della vita: in caso di morte violenta è difficile spiegare se Dio è all’interno della volontà di colui che spara la pallottola omicida o se è la causa prima di un incidente mortale: in ogni caso il dio che accende la scintilla della vita nell’universo, ma anche nell’utero, è lo stesso dio che la spegne. Nel caso del suicidio è ipotizzabile un intervento di Dio nella decisione del suicida, il che non dovrebbe comportarne la condanna: oppure il suicidio è l’unico caso in cui la scelta di essere padrone della propria vita, rivendicata dall’uomo, è l’ usurpazione umana di una prerogativa divina.
Altro connesso problema: se, in caso di discordanza tra la legge di Dio e quella degli uomini, si debba seguire la legge divina, anche a costo di andare contro le leggi umane. E qual è la legge divina? Mosè la scrisse sulle tavole di pietra sotto dettatura. E per quello che non c’è scritto? L’esistenza di una legge morale divina è affidata a un suo legislatore e interprete che il cattolico identifica nel papa, vicario di dio, con la prerogativa dell’infallibilità, enunciata come dogma solo nel 1854. E’ ovvio pertanto che tutto è connesso alla scelta di credere che Dio non esiste o che invece egli ci sia: il non credente risolve subito il problema e individua la risposta nella scelta di responsabilità affidata solo all’uomo e al rispetto delle leggi, a meno che queste non violino gli elementari principi della convivenza e siano imposte a vantaggio dei più forti. Sul lato del credente, si intravedono invece posizioni diverse:
– Prima posizione: Dio mi ha dato la vita e io sono libero di farne ciò che voglio, anche di togliermela, perché ne sono il padrone o il depositario: se la vita è paragonabile al “talento” della parabola, che io ho l’obbligo di far fruttare, il tutto si sposta nell’etica calvinista, secondo la quale la riuscita economica nella vita è la manifestazione della benevolenza di Dio nei miei confronti, ovvero che “il riuscito”, l’uomo diventato ricco è il predestinato alla salvezza. In tal senso si legge anche il problema del fallimento o dell’eventuale suicidio, la cui scelta personale è contestualizzata alla predestinazione divina, anche se è una scelta determinata da un apparente libero arbitrio. Quindi è teoricamente esclusa la condanna del suicidio o dell’eutanasia.
– Seconda posizione: l’intimismo protestante luterano esclude l’immenso apparato di mediazione tra Dio e l’uomo, ricoperto dall’istituzione ecclesiastica, e riconduce tale rapporto in una sfera personale nella quale l’individuazione dei principi etici comportamentali divini o presunti tali diventa , una scelta soggettiva ispirata dall’intensità del rapporto con Dio, rispetto al quale il rapporto con l’istituzione civile, si coniuga con il compito di regolamentare la propria vita con la vita degli altri e con le scelte di chi detiene il potere. Anche in tal senso la legge umana è espressione della legge divina, e la scelta di padronanza della propria vita identifica la propria decisione con quella divina.
– Terza posizione: il fatalismo è la versione islamica della predestinazione: tutto succede in quanto volontà di Allah che realizza se stesso e i suoi disegni attraverso di noi, tutto è scritto nel grande libro del destino e la volontà dell’uomo è una scintilla della stessa volontà divina alla quale è necessario abbandonarsi (islam) per ritrovare identità e dignità. In tal senso il sacrificio della propria vita come immolazione, (il kamikaze), con il fine di contribuire al trionfo di Allah e del Profeta e alla sconfitta degli infedeli, è la strada maestra per godere dei doni ultraterreni dell’Eden: il fanatismo si incrocia con disegni politici di cui sono esecutori i depositari della voce del Profeta, gli ayatollah, i sultani, gli sceicchi, gli imam, i talebani e il sistema di governo si configura come istituzione religiosa al limite del fanatismo. La considerazione della vita come dono divino di cui avere rispetto diventa trascurabile a davanti a una prospettiva al cui servizio e al cui trionfo ognuno di noi è destinato.
– Quarta posizione: i detentori del potere religioso, dagli sciamani ai preti cattolici, poiché Dio è padrone della vita e poiché loro si definiscono i depositari della volontà di Dio, ritengono di essere, per concessione divina, che essi stessi si attribuiscono, padroni della vita degli altri e di agitare il fantasma della legge divina, della quale ritengono di essere gli unici lettori, interpreti ed esecutori, come quello di unica legge possibile o in ogni caso prevalente, rispetto alla precarietà e all’arbitrarietà delle umane leggi, che di quella divina sono solo una contaminazione. Da ciò nascono tutte le condanne e gli anatemi nei confronti delle varie posizioni che riguardano la vita, la sua riproduzione attraverso l’istituzione del matrimonio e della famiglia, la sua gestione e gli strumenti per mantenerla o toglierla, come la pena di morte, il suicidio, l’aborto o l’eutanasia. La posizione non è priva di contraddizioni:
- a) se la morte è decisa da Dio, l’uomo non dovrebbe nemmeno curarsi, ma attendere rassegnato questa decisione: la cura, la terapia è già un andar contro la decisione divina. Se poi questa cura comprende in qualche caso l’ alimentazione forzata, la trasfusione o il mantenimento in vita attraverso sistemi artificiali, l’intervento umano è ancora più condannabile. Fermare le macchine dovrebbe voler dire affidare definitivamente a Dio la decisione se far vivere in modo vegetale un corpo umano o se accoglierlo là dove inizia un’altra vita certamente più ricca di soddisfazioni;
- b) dovrebbe essere bandita dalla mente di ogni cristiano l’idea che l’uomo possa in alcun modo dare la morte, attraverso la condanna radicale della guerra, della pena di morte ecc.: in realtà, escludendo le messe dei cappellani militari prima, durante e dopo la guerra, anche nelle situazioni di maggior pacifismo, da San Tommaso a Woytila è stato riconosciuto che possono esistere “guerre giuste” e che l’uomo che subisce violenza ha diritto di difendersi. E Dio, in questo caso che fa? Sta a guardare o era distratto, come ad Auschwitz o, come, da parte opposta, a Gaza?; chi difende le vite dei vinti dalle prepotenze dei vincitori?
- c) se l’uso della tecnologia è accettato e giustificato come strumento per preservare e difendere la vita, perché viene bloccato o biasimato come strumento per diffonderla e migliorarla, attraverso la condanna delle ricerche della genetica moderna, specie quella sulle cellule staminali o sulla fecondazione artificiale?
Insomma, urge chiarire se c’è un Dio che interviene quando lo dicono i preti e gli integralisti religiosi, a costo di costringere ad accettare incredibili sofferenze per sé e per le persone vicine, situazioni che non riescono a essere immaginate da chi non le vive, e un altro Dio che concede agli uomini di intervenire per rimediare ai danni nei quali, per volontà dello stesso Dio essi sono caduti. In realtà il problema si avvita nella contraddizione irrisolta del Cristianesimo, che è quella del libero o del servo arbitrio, in rapporto all’onniscienza divina, alla sua onnipotenza o alla provvidenzialità del suo disegno: se l’uomo è libero nella sua azione, è dalle sue scelte che è possibile la sua eventuale salvezza e condanna: sulla bontà di tali scelte dovrebbe, in sede di giudizio finale, essere giudice solo Dio. Se non è libero, perché il suo destino è già deciso e conosciuto da Dio onnisciente e onnipotente, l’eticità della sua azione diventa un problema che va oltre i giudizi umani e le umane condanne: né più né meno che il problema di Giuda che dice a Dio: se avevi stabilito dall’inizio che io ti tradissi, che dovessi avere questo ruolo, che colpa ne ho io? E poi, è possibile che Dio onnipotente e onnisciente possa cambiare ciò che egli già sa e che ha deciso? Se no, com’è logico, egli non è onnipotente, c’è qualcosa che non può fare e la preghiera come richiesta è un atto inutile.
Ci si potrebbe fermare davanti a queste elementari riflessioni, per mandare a quel paese gli eserciti di benpensanti sapientoni che pretendono di stabilire, dall’alto della loro presunzione, di essere “voce di dio”, di decidere e pontificare sulla vita degli altri: e invece bisogna prendere atto che l’Italia è rimasto uno dei paesi più integralisti del pianeta, con pletore di organizzazioni che, attraverso la loro potenza economica e la loro capacità di produrre consenso politico, riescono a pilotare le scelte dei governi senza che nessuno, per ovvi motivi elettorali, osi contrapporsi o fermarli. Certi passaggi sull’ aborto, siul divorzio, sui matrimoni gay, sulle unioni di fatto, sul crocifisso nelle aule, in Italia suscitano e hanno suscitato levate di scudi e fanatiche crociate strumentalizzate da forti connotazioni politiche. E così c’è stato, qualche anno fa, anche l’annuncio che il Vaticano non riconosceva più le leggi dello stato italiano, alcune delle quali definite immorali, mentre, da parte del governo italiano, nessuno ha obiettato che il Concordato è una legge dello stato italiano e che se il Vaticano non la riconosce va abolito. Così come è successo che un ministro ha diffidato la clinica di Udine disposta a staccare la spina a Eluana, minacciandola e ricattandola, ed estendendo il ricatto su tutto il territorio nazionale, in difformità con quanto deciso, e in via definitiva, dalla Magistratura, che aveva riconosciuto legittimo il diritto di morire in santa pace quando non c’è più nulla da fare.
Il dopo-morte è gestito con molta elasticità, in rapporto ai ceti sociali di appartenenza: se una volta ai suicidi era negata la messa in chiesa e il seppellimento “in terra consacrata”, oggi si sorvola su questi divieti. Anche la legge italiana, che prima disponeva l’iscrizione, sul cartellino penale, del tentativo di suicidio, in quanto reato contro la persona, oggi non pare più interessarsi di tali casi. Rimane aperta la questione dell’eutanasia, che si cerca di mascherare con nomi e posizioni diverse, come testamento biologico , come “morte dolce”, ma soprattutto come gesto che ha bisogno dell’esplicito consenso dell’interessato, enunciato nella pienezza dei suoi mezzi mentali: ognuno dovrebbe far testamento per tempo, inserendovi anche la sua decisione di scelta della morte quando vivere diventa insostenibile o inutile, ma comprende l’accanimento terapeutico. Non esiste, nel fanatico difensore della vita altrui, un elemento fondamentale che appartiene alla divinità, cioè la misericordia: nessuna pietà per la pena, le sofferenze proprie e dei propri cari, il dramma angoscioso di chi decide di chiudere con la vita: devi vivere, Dio lo vuole. Sul corpo di Fabi un politico italiano s’è messo a urlare la sua contrarietà a una legge che regoli la questione, parlando di “suicidio di stato”, come se, chi decide di morire, deve chiedere il certificato allo stato. La terribile frase scritta da Cesare Pavese qualche giorno prima del suo suicidio, “Dio, come vorrei che tu ci fossi, per poterti pregare!!”, non apre al rispetto, o alla com-passione verso il dramma e il dolore attraversato da chi decide, come atto estremo d’angoscia, di chiudere con la vita: c’è solo un’ottusa condanna . La stessa per chi vive il rapporto coniugale come un inferno: non ti puoi separare, Dio non vuole; la stessa per chi rimane incinta dopo una violenza, come chi non sa come nutrire e far vivere un figlio non voluto ancora in grembo, come per chi sa di partorire un essere deforme o destinato a una vita disgraziata: devi accettare la prole, che è comunque un dono di dio: la definizione della vita come “dono di Dio” ha un limite nel fatto che un dono appartiene a chi lo riceve e colui che lo fa non può chiedere di averlo restituito. Chi sostiene che Dio ci riempie di disgrazie per mettere alla prova la nostra capacità di sapere guadagnarci il paradiso, lascia il sospetto di un Dio sadico, lo stesso di quello che ordina ad Abramo di sacrificare suo figlio per provarne l’obbedienza. Oppure sono sadici quelli che si servono di Dio per mascherare come sua la propria volontà di dominio su chi decide di scegliere liberamente come gestire il proprio destino. Quelli che si autodefiniscono pastori davanti a greggi consenzienti di pecore.