ll capo e il leader
Appena eletto Zingaretti ha detto di non volere essere “capo” ma leader. Poche settimane dopo Di Maio ha invece ribadito che, malgrado la sconfitta elettorale, egli è e rimarrà “capo” dei Cinquestelle, per altri quattro anni, come da mandato ricevuto dai suoi elettori on-line. Qual è la differenza?
La parola “capo” è tornata in auge, da qualche tempo, nel periodo di Berlusconi, ed è diventata normale per indicare chiunque occupi un posto di comando.
Mussolini aveva sostituito nominalmente la carica di Presidente del Consiglio dei ministri con quella di “Capo del governo”. Con la nascita della Repubblica, proprio per sostituire alle regole della dittatura quelle della democrazia, si tornò a indicare, con il nome della carica ricoperta, il posto di responsabilità alla guida, dal Presidente della Repubblica a quello del Consiglio, al segretario di un partito politico o di un sindacato, al preside. Adesso sono emerse e riemersi i termini di capo dello stato, capo del governo, capo del partito, il capo d’istituto, capo della Squadra Mobile, capo della Protezione Civile, capostazione ecc. Solo per i militari non ci sono capi, a parte il capo-rale, ma cariche, dal sergente al generale.
Il “capo” è la testa, la parte più importante del corpo, che pensa, dirige, decide, organizza. E’ l’uomo cui si delegano i poteri e che non divide con nessuno, o solo con gente da lui scelta, la delega conquistata. Anche nella famiglia cristiana vale quanto scritto da Paolo nella lettera agli Efesini: “Il marito è capo della moglie, come anche Cristo è capo della chiesa, lui, che è il Salvatore del corpo. Ora come la chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli devono essere sottomesse ai loro mariti in ogni cosa”.
Il leader presenta sfumature diverse, anche se si tende a identificarlo come “capo”. Il termine deriva dall’inglese to lead, dirigere, guidare. È possibile distinguere, sempre in lingua inglese, la leadership, ovvero la capacità di sapere influenzare, dalla headship, cioè la capacità di saper essere a capo, essere guida, “duce” rispetto alla volontà in cui si riconosce il gruppo. Il leader guida i suoi seguaci non in uno stato di subordinazione, ma di collaborazione, per portare avanti un comune progetto. Il concetto di leaderismo è estendibile a vari aspetti e attività, dal management, alla politica, alla cultura, all’arte, allo sport, e naturalmente alla politica. Teoricamente ogni leader è tale nel suo campo e non esiste un leader globale. Al di là delle sue specifiche mansioni il leader scompare e torna ad essere uomo, magari per riconoscere la leadership di altri più esperti di lui in altri campi. E tuttavia nelle strutture che hanno “un uomo solo al comando”, costui tende ad appropriarsi del titolo di leader, magari simbolico, anche per campi in cui non ha specifiche competenze, si pensi al “presidente operaio”, al ministronzo che mette il casco da minatore, la giubba gialla, la felpa dell’uomo comune, la divisa di poliziotto ecc., non tanto per dire “io sono, io mi metto alla vostra altezza”, bensì “io sono il vostro capo, colui che vi rappresenta, conosco i vostri bisogni, mi riconosco in essi, mi faccio carico di portare avanti le vostre ragioni”. Almeno a parole.
Quando si accenna alla differenza tra capo e leader si cita l’esempio di chi si ritrova a comandare a seguito di casuali circostanze, come nel caso di un giocatore che diventa capitano per l’espulsione del compagno, rispetto a chi ha conquistato il suo ruolo sul campo. In ogni caso il capo è colui che comanda, chi dirige i propri “dipendenti” e fa loro accettare o condividere decisioni che provengono da lui. Il capoufficio non è il leader, il quale, invece, si caratterizza per la fiducia nelle proprie capacità, ha doti di comunicazione, affidabilità, credibilità, coerenza nel seguire le regole e conseguimento di risultati e obiettivi desiderati dai seguaci, da parte dei quali gode di stima e apprezzamento. Naturalmente un presupposto indispensabile è l’esperienza e la competenza, doti che non sono innate, ma si conquistano attraverso la pratica e lo studio, la capacità di sapere risolvere le contraddizioni, soprattutto in mancanza dell’omogeneità del gruppo. In altri termini il capo è chi comanda, il leader chi guida, il capo può fare a meno del parere e del consenso, specie dei dissidenti, può permettersi di smentire se stesso, essendo anche questa una sua prerogativa, il leader è tale se sa coinvolgere gli altri, riesce a farli partecipi, sia nella condivisione che nella gestione per il perseguimento di fini comuni.
Ci sono poi le esibizioni apparenti di potenza fisica,
o di competenza tecnologica, tipo la traversata a nuoto, il messaggino giornaliero su facebook, la guida del trattore o dell’aereo, la partita di calcio ecc. che servono a dare una visione globale del “capo” vicino alle esigenze di tutti, “uno di noi”, a cui ci possiamo affidare, da cui ci sentiamo rappresentati. In tutto questo Salvini, richiamandosi alle farse di Mussolini lavoratore, aviatore e condottiero, ha surclassato Di Maio ed è riuscito a fare breccia in intere categorie prima mai prese in considerazione, grazie a sofisticate tecniche di diffusione del messaggio e di aggressione contro chi osa fare rilievi critici. Egli sicuramente ha il piglio del capo, perché non aspetta di condividere le sue decisioni con nessuno, ma anche quello del leader, come unica espressione e figura di riferimento di un partito che è riuscito a prendere in mano e a trasformare da entità politica locale a movimento nazionale. Grillo ha surclassato Mussolini nuotatore, con la sua traversata dello Stretto, che comunque, nel suo caso aveva una forte valenza simbolica, ma rispetto a Di Maio non è capo, ma leader, e forse non solo questo, poiché è rivestito da una sorta di sacralità derivante dal prestigio e non da deleghe. In questi casi è facile scivolare verso pericolose forme di culto della personalità. E tuttavia neanche Di Maio è capo.
Se, volendo fare riferimento alla “Fattoria degli animali” di Orwell il riferimento di Napoleone con Salvini è facile, data la sua mancanza di scrupoli morali, il suo opportunismo e l’indubbia capacità di persuadere gli animali meno intelligenti con l’eloquenza, grazie alla quale supplisce a una certa mancanza di intelligenza. E’ probabilmente questo elemento che ha indotto Andrea Camilleri a dire che Salvini sarebbe stato uno splendido gerarca di Mussolini, ma non un leader completo.
Di Maio ha invece una certa attinenza con Clarinetto, (Squealer) con il ruolo o compito che si è costruito su misura, di essere il propagandista di se stesso, ma anche di Napoleone, alternando verità a bugie, illusioni che aiutano i sottomessi all’accettazione della propria condizione, confortata e rafforzata dalla rancorosità contro il “sistema” dei corrotti, responsabile della perversione del potere di cui tutti sono vittime e di cui egli si atteggia a portavoce. E, come Squealer minaccia il «ritorno di Jones» (il fattore), facendo leva sul sentimento anti-umano degli altri animali, egli, dopo avere alimentato l’allarme del ritorno del PD, responsabile di tutti i mali, ai quali è stato chiamato a dare rimedio, adesso minaccia il ritorno di Salvini e in ciò diventa vittima e strumento egli stesso della strategia di Napoleone. E se prima era “quattro gambe buono, due gambe cattivo”, per alimentare l’odio degli animali verso gli uomini, quando i maiali cominciano a reggersi sulle zampe posteriori come gli uomini, Clarinetto prende da parte le pecore e modifica lo slogan in “quattro gambe buono, due gambe meglio”. Vedasi il voto per l’impunità a Salvini, che ha ribaltato una regola intoccabile, o quello sull’allargamento del vincolo dei due mandati, tanto per citare le ultime cose copntraddittorie con la linea passata.
Cinquecento anni fa Oliver Cromwell aveva individuato le distanze che dividono Di Maio da Salvini: “Preferisco un capitano malvestito ma che conosca e senta i motivi per cui combattere, piuttosto di uno di quelli che voi chiamate “gentiluomini” e che non sanno esser altro che un gentiluomo”
Si pensi alle modalità d’elezione: “un certo Di Maio”, come lo ha chiamato Grillo, è diventato capo dei Cinquestelle con 30.000 voti on line su una discutibile piattaforma su cui non esistono garanzie e controlli, mentre Zingaretti è stato votato da quasi due milioni di persone. Di Maio rimane un candidato “virtuale”, affidato a una scelta che non è quella sensibile di una scheda alla quale è apposto un segno, ma espressione di una minoranza mediatica che si atteggia a volontà popolare e rischia per contro di identificarsi in una forma di settarismo. Dietro la scelta della sua persona non ci sono “meriti” se non quelli di essere diventato, punto di riferimento, grazie al ruolo burocratico di deputato e a quello “istituzionale” di vicepresidente della Camera, in una legislatura in cui si è trovato come “nemico” da combattere un individuo come Renzi, nei confronti del quale era facile vincere, insieme a una serie di “colleghi” anche loro alle prime acque, ovvero espressione di un movimento che, tolto il suo fondatore è, ad oggi ancora acefalo e privo di soggetti con una forte identità, capaci di imprimere una linea politica netta e decisa.
Altro discorso per Salvini, che proviene da una lunga militanza politica, iniziata addirittura nell’extra-parlamentarismo di sinistra e continuata prima all’ombra di Bossi e Maroni, all’interno del Parlamento Italiano e di quello europeo in una regione in cui ruotano gli uomini, le strutture e gli interessi più consistenti del capitalismo italiano. Salvini ha costruito attorno alla sua proposta politica un’identità di destra legata alla paura dello straniero, al bisogno di sicurezza, all’efficienza apparente delle strutture produttive, al conservatorismo più becero di alcuni valori come la famiglia, l’identità nazionale, mentre Di Maio è un convinto assertore del trans-ideologismo, ovvero del superamento delle idee di destra e sinistra, dietro cui tuttavia non c’è nessuna alternativa ideologica né un progetto politico.
Su Zingaretti è ancora presto per valutare se è un leader, come promesso, dopo l’esperienza del “capo” Renzi e dopo l’inter-regno inconcludente di Martina. Il partito è passato a leccarsi le ferite delle sconfitte elettorali, senza un minimo d’analisi sulle cause che l’hanno determinato e senza alcun tentativo di ritrovare “l’identità” perduta. A occhio e croce egli sembra un uomo d’apparato, con una buona conoscenza delle regole per un buon governo, come già Gentiloni, ma ancora privo, sia degli strumenti per condurre il ruolo d’opposizione, dimenticati dopo gli anni di governo, sia di un progetto politico che si diversifichi dalle passate e poco felici esperienze amministrative.
A parte alcune recenti modifiche, l’articolo di Salvo Vitale è stato pubblicato su Antimafia Duemila il 06 Marzo 2019