Piccoli mafiosi crescono
Crescono tra le braccia e dentro le case di coloro che li hanno generati e, per questo, non possono che introiettare, fare propri, i modelli, le leggi spietate, le regole, il modo di pensare e di agire dell’ambiente nel quale hanno vissuto la loro infanzia. Mafiosi non si nasce, lo si diventa, ma chi nasce in una famiglia mafiosa ha tutte le probabilità di acquisire le identità di appartenenza e a sua volta di tramandarle.
Una delle caratteristiche di tutte le grandi “famiglie” mafiose è data dalla loro capacità di riprodursi e riprodurre nuovi rampolli, attraverso i quali perpetuare il proprio potere. Gli Spatola, i Gambino, gli Inzerillo, i Bontade, i Badalamenti, i Di Trapani, i Geraci, i Madonia, gli Impastato, i Lo Piccolo, i Riina, i Provenzano, i Bagarella, i Brusca, i Vitale, i Messina Denaro, sono gruppi familiari coesi che danno forza, attraverso i rapporti matrimoniali e attraverso la prole, alla potenza familiare, dove il termine “Famiglia” si riferisce non alla cosca mafiosa locale, ma a quella legata da vincoli di sangue.
Un sociologo americano Banfield, negli anni 50 scrisse un libro, “Le basi morali di una società arretrata”, in cui si sosteneva la teoria del “familismo amorale”: all’interno di una società mafiosa tutto quello che serve ad aumentare la potenza della famiglia, compreso il furto, il delitto, l’estorsione, è giustificato e che, rispetto alla forza della famiglia le azioni delittuose non possono essere frenate da alcun principio morale. La giustificazione del delitto diventa così lo strumento della sua perpetuazione e la famiglia è il centro propulsore di questa strategia.
Il terzogenito di Totò Reina, adesso diventato scrittore, è un esempio di come un uomo che ha già passato sette anni della sua vita in carcere già, a vent’anni se la spassava con “femmine di lusso”, vestiti griffati, orologi rolex al polso e macchinoni, cercando di ripristinare nel suo paese una leadership messa in crisi dopo l’arresto di suo padre e di suo zio Leoluca Bagarella. E del resto, mamma Ninetta è andato a rilevarlo, all’uscita dal carcere, con una Mercedes. Più o meno lo stesso modello di “bella vita” praticavano e praticano altri giovani eredi come Matteo Messina Denaro, Sandro Lo Piccolo, Vito Badalamenti ecc. Unico ostacolo è la latitanza, cioè la necessità di doversi nascondere per sfuggire agli arresti: ma questo non impedisce loro di circolare liberamente e di frequentare i posti in cui, con le tasche piene di soldi, ci si può divertire.
Da questa condizione sembra essere stato fuori solo Bernardo Provenzano, isolato nella sua sgangherata fattoria di Montagna dei Cavalli, a pane, ricotta, miele e cicoria. Pur avendo partecipato a qualche crociera nel Mediterraneo, egli ha voluto che i suoi figli non seguissero la sua strada, si è preoccupato che studiassero, come si può leggere nei pizzini che scriveva a Pino Lipari, invitandolo a controllarne la carriera scolastica e l’attività e a interessarsi anche per l’esenzione dalle tasse universitarie: il maggiore, Angelo ha optato per Scienze della Comunicazione, Francesco Paolo ha studiato Lingue. Ad Angelo è stato negato il permesso di aprire una lavanderia a Corleone, si è dovuto accomodare a fare la guida a quei turisti che hanno voglia di sentirsi raccontare qualcosa sulla vita del padre, mentre Francesco Paolo, dopo avere conseguito la laurea ha lavorato in una università tedesca come lettore di lingua italiana.
Sinora nessuna legge ha garantito e ha tutelato l’educazione dei figli dei mafiosi. Sono stati abbandonati a se stessi, a nutrirsi di violenza o ad essere oggetto di violenze, come nel caso di Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido per ritorsione contro il “pentimento” del padre, o del piccolo Salvatore Inzerillo, tagliato a pezzi, vivo, da Pino Greco Scarpuzzedda, o di Salvatore Badalamenti, figlio di Nino, ucciso a 17 anni dai killers di Riina, solo perché dei Badalamenti non doveva restare “neanche la semenza”.
Un esponente della cosca di Partinico ha portato suo figlio, appena quindicenne, ad assistere a un delitto, mentre altri ragazzi delle stesse famiglie locali hanno cominciato ad allenarsi strozzando gatti con il fil di ferro e appendendoli a una trave. Da Napoli a Milano a Palermo i bambini sono utilizzati come spacciatori: certi quartieri delle periferie urbane sono veri e propri centri di addestramento alla delinquenza e alla mafia. Molto spesso scatta il provvedimento di affidamento dei minori quando si tratta di bambini abbandonati, di figli di drogati, di piccoli delinquenti, di extra-comunitari che non possono dimostrare di sapere mantenere ed educare i loro figli. Tali affidamenti sono indirizzati a strutture di accoglienza finanziate dai comuni, e rappresentano un congruo affare, rispetto al quale non sempre corrispondono metodi educativi ed assistenziali adeguati. Quello della tutela dei figli dei mafiosi, rappresenta un “nervo scoperto” del sistema educativo dello stato italiano, ed il parlamento dovrebbe porsi il problema, al di là dei pannicelli caldi dell’assistenza psicologica e sociale offerta dai Comuni: se vogliamo evitare che i mafiosi si riproducano, i loro figli devono essere strappati al loro contesto familiare ed educati, da gente esperta, a diventare cittadini che costruiscano la propria vita nel rispetto delle regole comuni. I casi di Peppino Impastato, di Rita Atria e di qualche altro ragazzo che ultimamente ha preso le distanze dal padre mafioso, sono episodi sporadici di rottura familiare e comportano, in partenza, molto coraggio e grande capacità di rimettere in discussione tutto ciò cui si è stati abituati a credere e a ritenere come unico modello di vita possibile. Come dice Il Gattopardo, nel romanzo di Tomasi da Lampedusa: “bisogna farli partire quando sono molto, molto giovani: a vent’anni è già tardi, la crosta è già fatta”. Si può solo aggiungere che questa “crosta” è già fatta a dieci anni. E’ vero che strappare un bambino alla propria famiglia non è il modo ideale per farlo crescere privo di traumi e sofferenze affettive. La scelta è se lasciarlo crescere come mafioso o come cittadino. (S.V.)
A parte alcune integrazioni l’articolo è stato pubblicato su Antimafia Duemila nel 2013 e ripubblicato su questo sito il 1° luglio 2019