MORTE DI MARAT E ALTRI RACCONTI (S.V.)

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  Jean Paul Marat, medico Amie du peuple, è stato definito o identificato come il più radicale dei rivoluzionari francesi. Proprio a causa di questo sacro fuoco rivoluzionario  la venticinquenne  girondina Charlotte Corday lo ritenne un pericolo per la rivoluzione stessa e un fomentatore di una guerra civile. La ragazza riuscì a farsi ricevere da Marat, immerso nella sua vasca da bagno per curare un’avanzata dermatite seborroica che gli procurava attacchi di prurito in ogni parte del corpo, e lo uccise recidendogli la carotide col suo coltello. Il quadro di David ne offre una caravaggesca rappresentazione paragonabile  a quella del martirio di Cristo, mentre quello di Munch ne ripropone una immagine possente,  insanguinata e ormai impotente,  accanto alla figura nuda di Charlotte, quasi eterea, indifferente  e lontana dal suo stesso gesto.  Una versione o un significato più marcatamente “femminista” sembra offrire il quadro di Paul Jacques Aimè Baudry: la donna in piedi sembra richiamare la superiorità dell’eterno femminino, nelle sue varie manifestazioni di determinazione, di violenza, di lucida preparazione di un piano, di audacia e mancanza di scrupoli, rispetto al maschio che soccombe ed è vinto dalla sua stessa sicurezza autodifensiva, nella quale ha fatto troppo affidamento.

Nel mio lungo canto, ricco di richiami autobiografici, Marat il Rivoluzionario,  nel quale alla fine mi identifico, soccombe per sua volontà, ben sapendo di essere ucciso e lascia alla donna l’illusione di una vittoria da lui stesso prevista e decisa.

 

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Arrampicato sul pomeriggio del pavimento.

Enteroclismi di sapone e di nuvole

fiancheggiano giochi sparsi su una meteora

di arcangeli cornificati dal classismo

nella melma verdastra dell’abbeveratoio.

 

Andavo senza ramoscelli nei cunicoli mafiosi

per versare il mio piscio su palloni di elio,

una sera, spazzolando un inchino

con  esagerata devozione,

mi tolsi i vestiti per ricoprirmi di dollari.

 

“Tu sei un maschio dei pochi”. Divisioni.

Egli sapeva dell’idropsia di Leopardi,

del tenia di Seneca, del Prufrock di Eliot

e ignorava che il male maggiore

è togliersi dal numero dei vivi prima di morire.

 

Riunioni all’oratorio: le parvenze sociologiche

mi procuravano crampi all’intestino retto.

Tenera colpa, indifferente consenso,

contemporanei l’estro e il comignolo.

Colava, con maestria, grasso sul costato

del gatto strangolato dalla vecchia strega.

 

Anche il cadetto, più in là, non si accorse

che sopra il manichino rivestito dei suoi stracci

si disegnava un cranio col suo puzzo d’ostriche

d’allevamento fognario.

Finita la guerra ha deciso di restare sul posto.

 

Non c’ero. Non ai funerali di Piazza Fontana,

sì a piangere sulla tomba di Faro Gaglio

e più tardi su quella di Peppino.

No a ridere sulla spiaggia di Bosa

piena di cosce grasse e sabbia nera.

 

Una notte decisi la traversata col canotto:

acqua calda, sciabordi, copula con l’infinito,

sensuali carezze delle onde tra i riccioli.

 

Aggirato da salumi imbragati in problemi

di ricerche metafisiche ed altre minchiate,

a stento sono riuscito a salvarmi.

 

Inseguimento della capra sugli scogli,

coda che si dimena, la pecora è prena.

Morirono. Morì anche lui, il grande padre,

nel suo letto d’ombra, mentre il prete-sciacallo

cercava di estorcergli il ravvedimento.

Ora il gelso è rimosso. Non divaga più

il mitomane tra le saie d’irrigazione.

 

Che la chiave restasse sulla porta divelta

era un pallino fatuo cui non ho rinunciato.

Apri. Aprite tutti, sono proletario,

non frequento né teatri né pergamene,

mi accontento di bettole,

e adesso neanche di quelle.

 

330px-Charlotte_Corday.jpg Paul Jacques Aimè Baudrymarat-coltelloPiena di teorie e di campi di smistamento,

eri tu, con la borsa rapinatoria in potenza,

con la tua collezione di ciondoli e souvenir,

nella stagnola invernale del ritorno,

forse in fuga, forse in dirittura d’arrivo

cercavi sul muro la scritta liberatoria.

 

Gli amici comunisti chiedevano relazioni,

sì, va bene, e fuggivo con la bicicletta

per posare la faccia sull’erba. Costante:

fossi tu con me. Non c’è stata mai

nessuna lei al momento del finish.

 

Talora passava qualche vecchia: vai, vai.

Il tubo in mezzo alla strada resistette per mesi.

Talora sognavo di raggiungere la Casbah,

altre notti bevevo la luna sul mare in ansito.

 

Fossi stato Francesco poverello

avrei potuto parlare ai pesci. O agli uccelli?

Non passavano sere senza suoni di chitarra,

la-minore, mi-minore, a rotazione,

mi guardavano ammirati,

cosa deve avere quello dentro!

C’eri tu e ci sei rimasta.

 

Come a dieci anni nel collegio:

mentre mi masturbavo sotto la coperta,

il pretonzolo mi rese di ghiaccio: “Cosa fai?”.

 

Come a quindici: ucciso dalla timidezza:

per un anno rimasi a guardarti

senza dirtelo, e sapevo che mi volevi.

 

Come a ventidue, diventai Orfeo,

attraversai il regno dei morti per prenderti

ma non mi girai sulla porta dell’Ade.

 

Come dopo, per altre lune: tu eri  paesaggio

e precisa concrezione, un po’ mistica a volte,

fissazione allucinatoria dilagante su tutto,

trasfigurazione metafisica del reale distorto.

 

Come adesso che, invece, rotta l’icona,

ritorni ad essere esistenza aleatoria,

drammatizzando la lunga e oculata

predisposizione all’alienazione.

 

Sono fregato, lo so.

Poteva persistere il velo dell’all-pervading,

ed è rimasto, salvaguardando la sua continuità.

 

L’alternanza del vissuto contribuisce di più

a vivisezionarmi. La vita est un sueno.

Il sogno finisce all’alba e riprende nel pomeriggio.

Adesso sogno?

Dovrei dirti che sei la fine del sogno?

 

Reparto donne: entrai,

con una lezione di psicanalisi

stuzzicai la fica delle ragazze stupite:

tu non ne avevi, e nemmeno seni, perché?

 

Tutti i riscontri dicono che è finita un’epoca.

La vacanza non si può chiudere così.

Io non mi suicido perché voglio stare con te.

 

Al manicomio mi accolsero con salamelecchi,

andai da mia zia, diceva di star bene:

anche noi siamo stati responsabili della sua fine.

 

Eri tu là, vecchia e giovane, con le bimbe

del tuo amante marito tra le nuvole,

cosparsa di petali di mandorlo

 

Come il vecchio di Lercara:

lo chiusero in prigione senza processo,

lo trovammo  morto in un lago di piscio.

 

“Chi è quel ragazzo?”, chiese Lucy,

aspettando che la invitassi a ballare.

Con me non c’era nessuno. Neanche tu

che mi accompagni da trent’anni,

sei mai stata mia.

 

La zitella aberrata vagava in camicia da notte,

povera Demetra arrapata,

cercando anche un cane,

non ci andai.

 

Solo sguardi, e, come Edipo,

di questi occhi farò un resoconto,

Poi non potrò più fare la recita

per  raccogliere qualche applauso.

 

Lische di pesce si offrono all’imbalsamazione,

toh, conserva.

Le mie poesie non le leggi, e fai bene,

per paura di cadere nella mia sfera,

solo così ti salvi.

 

Segno del leone, istinto del comando.

Comanderò che tutti mi portino

la dichiarazione, non quella d’amore,

ma d’esistenza in vita del ricordo.

 

Ti ricorderai, laggiù nella tua stanza da letto,

davanti al fallo d’un efebo stronzetto

che la tua immaginazione aveva nobilitato?

 

Lì, nella stanza squallida d’uno pseudo-anarchico

che vorrà convincerti di fruire l’assoluto?

Masticherai delusioni e non potrò più aiutarti.

 

Mi ricorderai, rientrando sulla macchina rossa,

o sulle riviste al brandy, sfogliate per consolare

la tua vecchiaia cittadina?

 

Ricorderai come fare,

nella carenza dei tuoi progetti armati,

sul video-colore che continuerà a ubriacare

i bimbi per ridurli a burattini?

Anche se non miei,

mandameli a scuola, posso rimediare.

 

Lo farei ancora un figlio con te, ma lascia.

Puoi passare il tempo che ti divide dalla fine

a grattugiare carote su un lenzuolo di bietole

o ad infornare limoni infarinati nel caffè.

 

Per preparare una molotov ci vuole poco,

poi ti insegno, anzi mai, perché sento

che stai per dirmi di chiudere il capitolo.

 

Pensaci, ti prego, ti prego.

Forse chiudo io che non volevo chiudere.

Non sogno cose eterne,

il tempo non me lo consente.

 

Adesso sei nuda sul fondo della stanza

e, mi sembra, hai un po’ di vergogna.

In cima al ciliegio il pomeriggio è scomparso

dentro l’ala dei passeri.

 

Nuova storia:

vieni fuori dal tempo, sesta dimensione,

canaletta 2002, non siamo più quelli,

ci stiamo a dondolare su un’amaca rotta

e mangiamo fiori di glicine bagnati di rugiada.

 

Tu stai. Nei tuoi occhi naviga una vela,

ci salgo sopra e mi metto al timone.

Sulla spiaggia Kant gioca al pallone

con un nugolo di ragazzini.

 

Metti e togli due volte una vestaglia vaporosa.

Comincia il giorno nell’agosto di latte,

ci rotoliamo felici sotto la pioggia

che buca, come acido solforico, le nostre carni.

 

Fu  sotto l’ulivo parlante o dentro una grotta?

Ci curiamo con foglie d’acanto e unguenti

quando un gruppo di aquile

ci prende per il petto e ci porta sull’Himalaya.

 

Riesco a darti un bacio.

Semel. Ci portano le sciabole per il duello:

tu hai il vestito alzato fino ai fianchi.

 

Riusciamo a farci a pezzi, come volevano,

ma il Dalai Lama sapientemente ci ricompone

per proporci come sacerdoti immortali.

Io rifiuto. Voglio restare uomo.

Davanti un libro con formule false.

Tu invece quasi ci stavi.

 

Fuga sulla neve e caduta

su un grande letto con un lavandino

che cola inchiostro dolce, quaranta gradi,

ne vuoi? Viene la guerra. Muro di morti.

 

Riusciamo a tenerci appena per le dita.

Malati di peste. Fuggiamo dal lazzaretto.

Prato inglese: adesso possiamo cavalcare.

 

Decidi di prendermi sul baldacchino di Cromwell,

anche lui grande rivoluzionario:

preferisco nel bagno, dove, durante il coito,

ti offro il pugnale di Charlotte.

 

Lascia, prima di uccidermi, che suoni la chitarra.

Rifiuti, perché conosci il trabocchetto.

Mentre muoio riesco ancora ad ubriacarmi

della tua veste bianca tempestata di occhi

carichi d’uragano. Va bene.

 

1977-79

 

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