Di chi è la mia vita? (Salvo Vitale)
Riprendo, con qualche modifica, questa mia riflessione sul suicidio, sull’eutanasia e sulla libertà di scelta di vivere la propria vita tra nelle differenti visioni tra teocrazia e laicità, pubblicata per la prima volta Il 5.11.2014 su Antimafia Duemila.
Eluana Englaro, 17 anni di accanimento terapeutico, Kelby, che volle morire, ma cui furono negati i funerali, Mario Cal, amministratore del San Raffaele, la cui morte è stata invece definita “un suicidio da buon cristiano”, Lucio Magri, un addio senza clamore in una clinica svizzera dove i medici, se il paziente è lucido, gli chiedono di essere lui, con le sue mani, ad alzare il bicchiere e bere la pozione che procura “la morte dolce”. Più recentemente i casi del dj Fabo, e gli ultimi di Federico Carboni e di Antonio La Forgia. Aggiungo un nome sconosciuto, quello di Salvatore La Fata, un operaio di Catania che lavorava dall’età di 17 anni, aveva perso il lavoro, si era inventato un lavoro con una bancarella, ma i vigili urbani gli hanno sequestrato tutto. L’uomo non ha resistito davanti a questa ennesima sconfitta: la sua protesta è stata quella di darsi fuoco: è morto dopo 11 giorni d’agonia il 30 settembre e non ne ha parlato nessuno. Si potrebbero citare tanti casi di gente, “aiutata a morire”, come Fabiano Antonioni, Giovanni Nuvoli, Dominique Velati, Piorgiorgio Welby , il cui caso nel 2018 spinse la Corte Costituzionale a un invito al Parlamento a legiferare, ad oggi inascoltato, Per ultima Brittany, 29 anni, un glioblastoma di quarto livello, ovvero un cancro incurabile al cervello: morta con il sorriso, con la sua musica, con i suoi affetti attorno.
E sin qua parliamo di rinuncia alla vita per gravissime e irreversibili patologie fisiche, che rendono il vivere una sofferenza senza limiti e di ipocriti “difensori della vita” che, non avendo sperimentato questi livelli dello star male, possono permettersi di pontificare e pretendere di decidere sulla vita degli altri. Esistono poi patologie psicologiche, non meno pesanti , tipiche di chi già è arrivato alla conclusione del suo ciclo di vita. Ed esiste il suicidio come libera scelta ed è da lì che bisogna partire.
Come ogni volta che qualcuno sceglie di morire, si ripropone il problema di stabilire se ogni soggetto umano è padrone della propria vita: per i cristiani non c’è partita, non ci sono margini di discussione: padrone della vita è solo Dio, il quale è libero di darla o di toglierla a suo piacimento (più elegantemente, “secondo i suoi imperscrutabili disegni”), al di là della volontà del singolo o anche contro di essa. In tal senso Dio diventa colui che accende e spegne l’interruttore e, al momento della morte, ha lo stesso ruolo di Atropo, l’arpia che tagliava il filo della vita. Pertanto gli atti della morte e della nascita diventano prerogative di Dio, un’identificazione con la sua stessa figura di padrone della vita: in caso di morte violenta è difficile spiegare se Dio è all’interno della volontà di colui che spara la pallottola omicida o se è la causa prima di un incidente mortale: in ogni caso il dio che accende la scintilla della vita nell’universo, ma anche nell’utero, è lo stesso dio che la spegne. Nel caso del suicidio è ipotizzabile un intervento di Dio nella decisione del suicida, il che non dovrebbe comportarne la condanna: oppure il suicidio è l’unico caso in cui la scelta di essere padrone della propria vita, rivendicata dall’uomo, è l’ usurpazione umana di una prerogativa divina, cosa intollerabile, perché sarebbe una limitazione dell’onnipotenza divina. Deve essere per questo che i mafiosi uccidono con tanta facilità : si sentono padroni della vita degli altri, rivendicano la prerogativa di campare e far campare solo se loro sono d’accordo. Si sentono come Dio.
Anni fa il cardinale di Torino Poletto, in risposta al governatore del Piemonte Bresso, pose di rimando, un altro connesso problema, ovvero se in caso di discordanza tra la legge di Dio e quella degli uomini, si debba seguire la legge divina, anche a costo di andare contro le leggi umane. E qual’ è la legge divina? Mosè la scrisse sulle tavole di pietra sotto dettatura. E per quello che non c’è scritto? L’esistenza di una legge morale divina comporta un suo legislatore e interprete che il cattolico identifica nel papa, vicario di dio, con la prerogativa dell’infallibilità, enunciata come dogma solo nel 1854. E’ ovvio pertanto che tutto è connesso alla scelta di credere che Dio non esiste o che invece egli ci sia: il non credente risolve subito il problema e individua la risposta nella scelta di responsabilità affidata solo all’uomo e al rispetto delle leggi, a meno che queste non violino gli elementari principi della convivenza e siano imposte a vantaggio dei più forti. Sul lato del credente, si intravedono invece posizioni diverse:
Prima posizione: Dio mi ha dato la vita e io sono libero di farne ciò che voglio, anche di togliermela, perché ne sono il padrone o il depositario: se la vita è paragonabile al “talento” della parabola, che io ho l’obbligo di far fruttare, il tutto si sposta nell’etica calvinista, secondo cui la riuscita economica nella vita è la manifestazione della benevolenza di Dio nei miei confronti, ovvero che “il riuscito”, l’uomo diventato ricco è il predestinato alla salvezza. In tal senso si legge anche il problema del fallimento o dell’eventuale suicidio, la cui scelta personale è contestualizzata alla predestinazione divina, anche se è una scelta determinata da un apparente libero arbitrio. Quindi è teoricamente esclusa la condanna del suicidio o dell’eutanasia.
Seconda posizione: l’intimismo protestante luterano esclude l’apparato di mediazione tra Dio e l’uomo, ricoperto dall’istituzione ecclesiastica, e riconduce tale rapporto in una sfera personale nella quale l’individuazione dei principi etici comportamentali divini o presunti tali diventa una scelta soggettiva ispirata dall’intensità del rapporto con Dio, rispetto al quale il rapporto con l’istituzione civile, si coniuga con il compito di regolamentare la propria vita con la vita degli altri e con le scelte di chi detiene il potere. Anche in tal senso la legge umana è espressione della legge divina, e la scelta di padronanza della propria vita identifica la propria decisione con quella divina.
Terza posizione: il fatalismo è la versione islamica della predestinazione: tutto succede in quanto volontà di Allah che realizza se stesso e i suoi disegni attraverso di noi, tutto è scritto nel grande libro del destino e la volontà dell’uomo è una scintilla della stessa volontà divina alla quale è necessario abbandonarsi (islam) per ritrovare identità e dignità. In tal senso il sacrificio della propria vita come immolazione, (il kamikaze), con il fine di contribuire al trionfo di Allah e del Profeta e alla sconfitta degli infedeli, è la strada maestra per godere dei doni ultraterreni dell’Eden: il fanatismo si incrocia con disegni politici di cui sono esecutori i depositari della voce del Profeta, gli ayatollah, i sultani, gli sceicchi, gli imam, i talebani e il sistema di governo si configura come istituzione religiosa al limite del fanatismo. La considerazione della vita come dono divino di cui avere rispetto diventa trascurabile a davanti a una prospettiva al cui servizio e al cui trionfo ognuno di noi è pre-destinato.
Quarta posizione: i detentori del potere religioso, dagli sciamani ai preti cattolici, poiché Dio è padrone della vita e poiché loro si definiscono i depositari della volontà di Dio, ritengono di essere, per concessione divina, che essi stessi si attribuiscono, padroni della vita degli altri e di agitare il fantasma della legge divina, della quale ritengono di essere gli unici lettori, interpreti ed esecutori, come quello di unica legge possibile o in ogni caso prevalente, rispetto alla precarietà e all’arbitrarietà delle umane leggi, che di quella divina sono solo una contaminazione. Da ciò nascono tutte le condanne e gli anatemi nei confronti delle varie posizioni che riguardano la vita, la sua riproduzione attraverso l’istituzione del matrimonio e della famiglia, la sua gestione e gli strumenti per mantenerla o toglierla, come la pena di morte, il suicidio, l’aborto , l’eutanasia, l’omosessualità. La posizione non è priva di contraddizioni:
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a) se la morte è decisa da Dio, l’uomo non dovrebbe nemmeno curarsi, ma attendere rassegnato questa decisione: la cura, la terapia è già un andar contro la decisione divina. Se poi questa cura comprende in qualche caso l’ alimentazione forzata, la trasfusione o il mantenimento in vita attraverso sistemi artificiali, l’intervento umano è ancora più condannabile. Fermare le macchine dovrebbe voler dire affidare definitivamente a Dio la decisione se far vivere in modo vegetale un corpo umano o se accoglierlo là dove inizia un’altra vita certamente con meno dolore e più ricca di soddisfazioni;
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b) dovrebbe essere bandita dalla mente di ogni cristiano l’idea che l’uomo possa in alcun modo dare la morte, attraverso la condanna radicale della guerra, della pena di morte ecc.: in realtà, escludendo le messe dei cappellani militari prima, durante e dopo la guerra, anche nelle situazioni di maggior pacifismo, da San Tommaso a Woytila è stato riconosciuto che possono esistere “guerre giuste” e che l’uomo che subisce violenza ha diritto di difendersi. E Dio, in questo caso che fa? Sta a guardare o era distratto, come ad Auschwitz o, come, da parte opposta, a Gaza?; chi difende le vite dei vinti dalle prepotenze dei vincitori?
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c) se l’uso della tecnologia è accettato e giustificato come strumento per preservare e difendere la vita, perché viene bloccato o biasimato come strumento per diffonderla e migliorarla, attraverso la condanna delle ricerche della genetica moderna, specie quella sulle cellule staminali o sulla fecondazione artificiale?