Luigi Capuana e Spera di sole
Dedico questo spazio a Luigi Capuana (Mineo, 28 maggio 1839 – Catania, 29 novembre 1915) uno dei più grandi scrittori siciliani, molto spesso sacrificato all’ombra di Verga o di Pirandello, rispetto ai quali non ha nulla di meno. Si rimane stupiti dall’eccletticità del personaggio e dai suoi innumerevoli interessi, sempre curati con risultati eccellenti, dalla fotografia, della quale fu un grande cultore, alla politica, (aderì all’impresa Garibaldina in Sicilia e fu per due volte sindaco di Mineo, sua città natale. La sua vita è un susseguirsi di soggiorni nelle principali città italiane e di contatti con le figure emergenti del secondo Ottocento e del primo novecento europeo, con gli esponenti del naturalismo francese, a partire da Zola e Goncourt, e con i più importanti scrittori italiani, come Verga, Aleardi, Capponi, Pirandello, De Roberto, D’Annunzio, Carducci, sempre pronto a cogliere le novità letterarie e le scoperte scientifiche dell’epoca. E’ senz’altro il più grande teorico del Verismo italiano, ma è altrettanto dedito allo studio della psicologia, che gli consente di esplorare l’interiorità dei suoi personaggi, sempre in una prospettiva impersonale, alla critica letteraria, al teatro, alla musica, alla fantascienza, al mondo dell’esoterismo, e a quello delle fiabe e dei racconti fantastici, quasi sempre all’interno di quella identità siciliana che è l’humus della sua intera produzione. “Il marchese di Roccaverdina” è il suo romanzo più noto, ma tutta la sua opera presenta un alto livello letterario e una costante ricerca di superamento di schemi e di quegli “ismi” su cui scrisse un saggio.
Mi è balzato in mente il suo nome stamattina, allorchè il sole nascente ha attraversato la porta del balcone della stanza da letto adagiandosi sul pavimento; stavo cominciando con Baglioni di “Un po’ di più”, e con “un raggio di sole entrò nella stanza”, ma un’improvvisa sterzata mi ha proiettato, per incanto, una cantilena che non sentivo più da quando ero piccolo e mia madre mi raccontava la storiella di “Spera di sole”, una piccola fornaia brutta e sporca, che alla fine diventava regina: “Spera di sole, spera di sole, sarai regina se Dio lo vuole. Una breve ricerca mi ha condotto al suo autore, guarda un po’, l’amato Luigi Capuana. (Salvo Vitale)
Spera di sole
C’era una volta una fornaia, che aveva una figliuola nera come un tizzone e brutta più del peccato mortale. Campavan la vita infornando il pane della gente, e Tizzoncino, come la chiamavano, era attorno da mattina a sera: – Ehi, scaldate l’acqua! Ehi, impastate! – Poi, coll’asse sotto il braccio e la ciambellina sul capo, andava di qua e di là a prender le pagnotte e le stiacciate da infornare; poi, colla cesta sulle spalle, di nuovo di qua e di là per consegnar le pagnotte e le stiacciate bell’e cotte. Insomma non riposava un momento.
Tizzoncino era sempre di buon umore. Un mucchio di filiggine; i capelli arruffati, i piedi scalzi e intrisi di mota, in dosso due cenci che gli cascavano a pezzi; ma le sue risate risonavano da un capo all’altro della via.
– Tizzoncino fa l’uovo – dicevan le vicine.
All’Avemaria le fornaie si chiudevano in casa e non affacciavano più nemmeno la punta del naso. D’inverno, passava… Ma d’estate, quando tutto il vicinato si godeva il fresco e il lume di luna? O che eran matte, mamma e figliuola, a starsene tappate in casa con quel po’ di caldo?… Le vicine si stillavano il cervello.
– O fornaie, venite fuori al fresco, venite!
– Si sta più fresche in casa.
– O fornaie, guardate che bel lume di luna, guardate!
– C’è più bel lume in casa.
Eh, la cosa non era liscia! Le vicine si misero a spiare e a origliare dietro l’uscio. Dalle fessure si vedeva uno splendore che abbagliava, e di tanto in tanto si sentiva la mamma:
– Spera di sole, spera di sole, sarai Regina se Dio vuole!
E Tizzoncino che faceva l’uovo.
– Se lo dicevano che erano ammattite!
Ogni notte così, fino alla mezzanotte: – Spera di sole, spera di sole, sarai Regina se Dio vuole!
La cosa giunse all’orecchio del Re. Il Re montò sulle furie e mandò a chiamare le fornaie.
– Vecchia strega, se seguiti, ti faccio buttare in fondo a un carcere, te e il tuo Tizzoncino!
– Maestà, non è vero nulla. Le vicine sono bugiarde.
Tizzoncino rideva anche al cospetto del Re.
– Ah!… Tu ridi?
E le fece mettere in prigione tutte e due, mamma e figliuola.
Ma la notte, dalle fessure dell’uscio il custode vedeva in quella stanzaccia un grande splendore, uno splendore che abbagliava, e, di tanto in tanto, sentiva la vecchia:
– Spera di sole, spera di sole, sarai Regina se Dio vuole!
E Tizzoncino faceva l’uovo. Le sue risate risonavano per tutta la prigione.
Il custode andò dal Re e gli riferì ogni casa.
– Il Re montò sulle furie peggio di prima.
– La intendono in tal modo? Sian messe nel carcere criminale, quello sottoterra.
Era una stanzaccia senz’aria, senza luce, coll’umido che si aggrumava in ogni parte; non ci si viveva. Ma la notte, anche nel carcere criminale, ecco uno splendore che abbagliava, e la vecchia:
– Spera di sole, spera di sole, sarai Regina se Dio vuole!
Il custode tornò dal Re, e gli riferì ogni cosa.
Il Re, questa volta, rimase stupito. Radunò il Consiglio della Corona: e i consiglieri chi voleva che alle fornaie si tagliasse la testa, chi pensava che fosser matte e bisognasse metterle in libertà.
– Infine, che cosa diceva quella donna? Se Dio vuole. O che male c’era? Se Dio avesse voluto, neppure Sua Maestà sarebbe stato buono d’impedirlo.
– Già! Era proprio così.
Il Re ordinò di scarcerarle
Le fornaie ripresero il loro mestiere. Non avevan le pari nel cuocere il pane appuntino, e le vecchie avventore tornarono subito. Perfin la Regina volle infornare il pane da loro; il Tizzoncino così saliva spesso le scale del palazzo reale, coi piedi scalzi e intrisi di mota. La Regina le domandava:
– Tizzoncino, perché non ti lavi la faccia?
– Maestà, ho la pelle fina e l’acqua me la sciuperebbe.
– Tizzoncino, perché non ti pettini?
– Maestà, ho i capelli sottili, e il pettine me li strapperebbe.
– Tizzoncino, perché non ti compri un paio di scarpe?
– Maestà, ho i piedini delicati; mi farebbero i calli.
– Tizzoncino, perché la tua mamma ti chiama Spera di sole?
– Sarò Regina, se Dio vuole!
La Regina ci si divertiva; e Tizzoncino, andando via colla sua asse sulla testa e le pagnotte e le stiacciate di casa reale, rideva, rideva. Le vicine che la sentivan passare:
– Tizzoncino fa l’uovo!
Intanto ogni notte quella storia. Le vicine, dalla curiosità, si rodevano il fegato. E appena vedevano quello splendore che abbagliava e sentivano il ritornello della vecchia, via, tutte dietro l’uscio: non sapevano che inventare.
– Fornaie, fatemi la gentilezza di prestarmi lo staccio; nel mio c’è uno strappo.
Tizzoncino apriva l’uscio e porgeva lo staccio.
– Come! Siete allo scuro? Mentre picchiavo, c’era lume.
– Uh! Vi sarà parso.
La cosa era arrivata anche alle orecchie del Reuccio, che aveva già sedici anni. Il Reuccio era un gran superbo. Quando incontrava per le scale Tizzoncino, coll’asse sulla testa o colla cesta sulle spalle, si voltava in là per non vederla. Gli faceva schifo. E una volta le sputò addosso.
Tizzoncino quel giorno tornò a casa piangendo.
– Che cosa è stato, figliuola mia?
– Il Reuccio mi ha sputato addosso.
– Sia fatta la volontà di Dio! Il Reuccio è padrone.
Le vicine gongolavano:
– Il Reuccio gli aveva sputato addosso; le stava bene a Spera di sole !
Un altro giorno il Reuccio la incontrò sul pianerottolo. Gli parve che Tizzoncino lo avesse un po’ urtato con l’asse, e lui, stizzito, le tirò un calcio. Tizzoncino ruzzolò le scale.
Quelle pagnotte e stiacciate, tutte intrise di polvere, tutte sformate, chi avrebbe avuto il coraggio di riportarle alla Regina?
Tizzoncino tornò a casa piangendo e rammaricandosi.
– Che cosa è stato, figliuola mia?
– Il Reuccio mi ha tirato un calcio e mi ha rovesciato ogni cosa.
– Sia fatta la volontà di Dio: il Reuccio è padrone.
Le vicine non capivano nella pelle dall’allegrezza.
– Il Reuccio gli aveva menato un calcio: le stava bene a Spera di sole !
Il Reuccio pochi anni dopo pensò di prender moglie e mandò a domandare la figliuola del Re di Spagna. Ma l’ambasciatore arrivò troppo tardi: la figliuola del Re di Spagna s’era maritata il giorno avanti. Il Reuccio volea impiccato l’ambasciatore. Ma questi gli provò che avea spesa nel viaggio mezza giornata di meno degli altri. Allora il Reuccio lo mandò a domandare la figliuola del Re di Francia. Ma l’ambasciatore arrivò troppo tardi: la figliuola del Re di Francia s’era maritata il giorno avanti.
Il Reuccio volea ad ogni costo impiccato quel traditore che non arrivava mai in tempo: ma questi gli provò che avea spesa nel viaggio una giornata di meno degli altri. Allora il Reuccio lo mandava dal Gran Turco per la sua figliuola. Ma l’ambasciatore arrivò troppo tardi: la figliuola del Gran Turco s’era maritata il giorno avanti.
Il Reuccio non sapea darsi pace; piangeva. Il Re, la Regina, tutti i ministri gli stavano attorno:
– Mancavano principesse? c’era la figliuola del Re d’Inghilterra: si mandasse per lei.
Il povero ambasciatore partì come una saetta, camminando giorno e notte finché non arrivò in Inghilterra. Era una fatalità! Anche la figlia del Re d’Inghilterra s’era maritata il giorno avanti. Figuriamoci il Reuccio!
Un giorno, per distrarsi, se n’andò a caccia.
Smarritosi in un bosco, lontano dai compagni, errò tutta la giornata senza poter trovare la via. Finalmente, verso sera, scoprì un casolare in mezzo agli alberi. Dall’uscio aperto, vide dentro un vecchione, con una gran barba bianca, che, acceso un bel fuoco, si preparava la cena.
– Brav’uomo, sapreste indicarmi la via per uscire dal bosco?
– Ah, finalmente sei arrivato!
A quella voce grossa grossa, il Reuccio sentì accapponarsi la pelle.
– Brav’uomo, non vi conosco; io sono il Reuccio.
– Reuccio o non Reuccio, prendi quella scure e spaccami un po’ di legna.
Il Reuccio, per timore di peggio, gli spaccava la legna.
– Reuccio o non Reuccio, vai per l’acqua alla fontana.
Il Reuccio, per timore di peggio, prendeva l’orcio sulle spalle e andava alla fontana.
– Reuccio o non Reuccio, servimi a tavola.
E il Reuccio, per timore di peggio, lo servì a tavola. All’ultimo il vecchio gli diè quel che era avanzato.
– Buttati lì; è il tuo posto.
Il povero Reuccio si accovacciò su quel po’ di strame in un canto, ma non poté dormire.
Quel vecchio era il Mago, padrone del bosco. Quando andava via, stendeva attorno alla casa una rete incantata, e il Reuccio rimaneva in tal modo suo prigioniero e suo schiavo.
Intanto il Re e la Regina lo piangevano per morto e portavano il lutto. Ma un giorno, non si sa come, arrivò la notizia che il Reuccio era schiavo del Mago. Il Re spedì subito i suoi corrieri:
– Tutte le ricchezze del regno, se gli rilasciava il figliuolo!
– Sono più ricco di lui!
A questa risposta del Mago, la costernazione del Re fu grande. Spedì daccapo i corrieri:
– Che voleva? Parlasse: il Re avrebbe dato anche il sangue delle sue vene.
– Una pagnotta e una stiacciata, impastate, infornate di mano della Regina, e il Reuccio sarà libero.
– Oh, questo era nulla!
La Regina stacciò la farina, la impastò, fece la pagnotta e la stiacciata, scaldò il forno di sua mano e le infornò. Ma non era pratica; pagnotta e stiacciata furono abbruciacchiate.
Quando il Mago le vide, arricciò il naso:
– Buone pei cani.
E le buttò al suo mastino. La Regina stacciò di nuovo la farina, la impastò e ne fece un’altra pagnotta e un’altra stiacciata. Poi scaldò il forno di sua mano e le infornò. Ma non era pratica. La pagnotta e la stiacciata riusciron mal cotte. Quando il Mago le vide, arricciò il naso:
– Buone pei cani.
E le buttò al mastino.
La Regina provò, riprovò; ma il suo pane riusciva sempre o troppo o poco cotto; e intanto il povero Reuccio restava schiavo del Mago.
Il Re adunò Consiglio di Ministri.
– Sacra Maestà – disse uno dei Ministri – proviamo se il Mago è indovino. La Regina staccerà la farina, la impasterà, farà la pagnotta e la stiacciata; per scaldare il forno ed infornare chiameremo Tizzoncino!
– Bene! Benissimo!
E così fecero. Ma il Mago arricciò il naso:
– Pagnottaccia, stiacciataccia
Via, lavatevi la faccia!
E le buttò al cane. Aveva subito capito che ci avea messo le mani Tizzoncino.
– Allora – disse il ministro – non c’è che un rimedio.
– Quale? – domandò il Re.
– Sposare il Reuccio con Tizzoncino. Così il Mago avrà il pane stacciato, impastato, infornato dalle mani della Regina, e il Reuccio sarà liberato.
– È proprio la volontà di Dio – disse il Re.
– Spera di sole, spera di sole, sarai regina se Dio vuole!
E fece il decreto reale, che dichiarava il Reuccio e Tizzoncino marito e moglie. Il Mago ebbe la pagnotta e la stiacciata, stacciate, impastate e infornate dalle mani della Regina, e il Reuccio fu messo in libertà.
Veniamo intanto a lui, che di Tizzoncino non vuol saperne affatto:
– Quel mucchio di filiggine sua moglie? Quella bruttona di fornaia regina?
– Ma c’è un decreto reale…
– Sì? Il Re lo ha fatto, e il Re può disfarlo!
Tizzoncino, diventata Reginotta, era andata ad abitare nel palazzo reale. Ma non s’era voluta lavare, né pettinare, né mutarsi il vestito, né mettersi un paio di scarpe:
– Quando verrà il Reuccio, allora mi ripulirò.
Era possibile? E aspettava, chiusa nella sua camera, che il Reuccio andasse a trovarla. Ma non c’era verso di persuaderlo.
– Quella fornaia mi fa schifo! Meglio morto che sposar lei!
Tizzoncino, quando le riferivano queste parole, si metteva a ridere:
– Verrà, non dubitate; verrà.
– Verrò? Guarda come verrò!
Il Reuccio, perduto il lume degli occhi e colla sciabola in pugno, correva verso la camera di Tizzoncino: volea tagliarle la testa. L’uscio era chiuso. Il Reuccio guardò dal buco della serratura e la sciabola gli cadde di mano. Lì dentro c’era una bellezza non mai vista, una vera Spera di sole !
– Aprite, Reginotta mia! Aprite!
E Tizzoncino, dietro l’uscio, canzonandolo:
– Mucchio di filiggine!
– Apri, Reginotta dell’anima mia!
E Tizzoncino ridendo:
– Bruttona di fornaia!
– Apri, Tizzoncino mio!
Allora l’uscio s’aperse, e i due sposini s’abbracciarono.
Quella sera si fecero gli sponsali, e il Reuccio e Tizzoncino vissero a lungo, felici e contenti…
E a noi ci s’allegano i denti.