Addio a Pina Maisano Grassi. L’Espresso ripropone un’intervista del 2011 (Lirio Abbate)
INTERVISTA
E’ scomparsa la vedova dell’imprenditore Libero, ucciso per essersi opposto al pizzo, di cui ha portato avanti la battaglia contro l’omertà. Riproniamo qui la nostra intervista realizzata nel 2011, venti anni dopo la morte del marito
DI LIRIO ABBATE
08 giugno 2016
Addio Pina Maisano Grassi, simbolo della lotta alla mafia. Noi lasciati soli contro i boss
Pina Grassi
Pina Maisano Grassi è stata una donna forte e coraggiosa. Il suo grande esempio ha portato a cambiare faccia a decine di imprenditori palermitani facendoli smettere di essere favoreggiatori di Cosa nostra e denunciando i mafiosi. E stata la “nonna” dei volontari di AddioPizzo, l’associazione nata a Palermo per sostenere le vittime del racket ed è andata avanti, Pina, ricordando sempre la figura di imprenditore onesto quale è stato Libero Grassi, il marito di Pina. Lui è stato ucciso dalla mafia perché pubblicamente aveva detto no al pizzo. Aveva spiegato che non si piegava alle pressioni dei mafiosi e non avrebbe mai pagato il pizzo. Pina ha portato avanti il coraggio di suo marito, ed è diventata, suo malgrado, una donna simbolo di ribellione e coraggio.
Adesso lei non c’è più. Aveva 87 anni ed è stata presente fino all’ultimo ad ogni iniziativa contro le estorsioni e per la legalità. A tutti è rimasta impressa la sua lezione di vita e di esempio. Per questo non sarà mai dimenticata. Un ricordo felice per i suoi “nipotini”, ma una spina nel fianco per i mafiosi.
«Lui era una persona perbene, un uomo che ha sempre basato la sua vita sul lavoro. Ripeteva spesso che lavorando in modo corretto e onesto, senza avere scheletri negli armadi non si poteva diventare schiavi di questi mascalzoni».
Ci sono gesti che segnano una svolta, stabiliscono un confine tra due stagioni. Spesso non lo si comprende subito, perché certe rivoluzioni richiedono tempo, ma venti anni fa l’uccisione di Libero Grassi è stato un segnale che ha determinato un punto di non ritorno. In una Palermo dove il problema principale era “il traffico”, come ripeteva la graffiante parodia del Johnny Stecchino di Roberto Benigni uscito in quei giorni nei cinema, lui aveva mostrato un coraggio senza precedenti. E mentre il governo guidato da Giulio Andreotti di fatto aboliva il Commissariato per la lotta alla mafia, questo piccolo imprenditore dimostrava con il suo sacrificio quanto fosse forte Cosa nostra.
Libero Grassi aveva fatto un gesto normale in Europa e sovversivo in Sicilia: aveva detto no al racket, si era rifiutato di pagare il pizzo che tutta l’isola versava agli esattori di Totò Riina. E non era rimasto in silenzio: il 10 gennaio 1991 aveva scritto una lettera «al caro estortore» pubblicata in prima pagina sul “Giornale di Sicilia”, raccontando la richiesta e il suo no. Per otto mesi è stato lasciato solo, mentre il clan Madonia organizzava l’esecuzione del ribelle: isolato dai colleghi, criticato dalla Confindustria palermitana. Lo contestò persino da un magistrato catanese, pronto a sostenere che se gli altri imprenditori si fossero comportati come lui si sarebbero distrutte tutte le industrie siciliane. Grassi gli rispose a muso duro, nella diretta tv di Samarcanda: «No, così distruggeremmo gli estorsori».
Salvino Madonia, il figlio del padrino, lo uccise la mattina del 29 agosto di venti anni fa su un marciapiede a pochi passi dalla sua abitazione. A far capire agli italiani quanto fosse importante quello che era accaduto a Palermo fu un altro evento senza precedenti: una trasmissione tv a reti unificate, Rai e Fininvest insieme, voluta da Michele Santoro e Maurizio Costanzo per onorare Libero Grassi. Sul palco Giovanni Falcone mentre da Palermo un giovane politico sconosciuto alzò le voci per difendere «la Sicilia denigrata dal programma»: era Totò Cuffaro, oggi in cella per favoreggiamento alla mafia. E i corleonesi decisero di punire anche Costanzo, ordinando l’autobomba fatta esplodere ai Parioli: era l’inizio dell’attacco frontale allo Stato.
Pina Grassi ha condiviso il coraggio del marito e ancora oggi a 82 anni non perde occasione per testimoniarlo. È sempre stata presente a ogni manifestazione, a ogni convegno contro il pizzo con una dignità e un orgoglio di altri tempi. Ora per i ragazzi di Addiopizzo lei è una nonna, che li sostiene e conforta nella loro rivolta civile dal basso, senza ispiratori politici, che da sette anni continua a diffondersi in tutta l’isola sotto la guida di Tano Grasso, il primo leader dei commercianti messinesi che si sono opposti alle estorsioni.
«Nella lotta al racket non siamo ad un punto di arrivo, ma a quello di partenza. Addiopizzo è una delle azioni più belle e intelligenti fatte dopo la morte di Libero. Perché la presenza di questi giovani ha determinato una rivoluzione. Senza bisogno di avere alcuna delega, Addiopizzo ha preso in mano la situazione della città ed ha contrastato nei fatti i mafiosi. Lo ha fatto andando in giro per i negozi, aiutando i commercianti vittime delle estorsioni, e poi creando “Libero futuro”, la prima associazione antiracket di Palermo».
Ci sono voluti 16 anni dalla morte di suo marito per creare questa associazione a Palermo.«Si. Tutto è nato dagli adesivi con i quali è stata tappezzata Palermo in cui si diceva “un popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. All’epoca gli autori di questa iniziativa li indicai subito come miei “nipoti”, perché riflettevano il mio pensiero. E questi ragazzi mi vennero a conoscere. Nacque Addiopizzo e da allora non hanno mai mollato, portando dopo alcuni anni gli imprenditori, grazie anche a Tano Grasso, alla creazione di “Libero Futuro”, dedicato proprio a mio marito».
Lei non ha dimenticato la solitudine in cui Palermo lasciò morire Libero Grassi. E anche oggi distingue tra le istituzioni e la politica, tra lo Stato e i parlamentari. «Ho fiducia nel presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nelle forze dell’ordine, nel prefetto. In queste istituzioni ho sempre fiducia. Non ce l’ho nei confronti dei rappresentati del governo e di molti componenti del parlamento».
Certo, a guardare il parlamento regionale siciliano non sembra che le cose siano cambiate: il governatore Raffaele Lombardo e molti altri componenti sono sotto indagine con l’ipotesi di rapporti mafiosi, ma anche per corruzione e concussione. «Vero è che Lombardo è inquisito e soprattutto lo è suo fratello (Angelo Lombardo, deputato Mpa indagato come il governatore a Catania per concorso esterno in associazione mafiosa ndr). Però se si riflette sugli assessori, e ne conosco personalmente più della metà, sono persone perbene. Si può mai pensare che questa brava gente possa restare in un governo il cui capo è un mafioso? Certo, se io fossi ad esempio nelle condizioni dell’assessore Caterina Chinnici, la figlia del magistrato assassinato a Palermo, e fossi consapevole che il presidente è un mafioso mi dimetterei».
Ma sono stati proprio i suoi “nipoti” di Addiopizzo a invocare le dimissioni del Lombardo. «In questo caso l’alternativa quale sarebbe? Gianfranco Micciché? Grazie, no. Non mi pare che ci sia una alternativa. Come presidente della Regione non saprei chi individuare al posto di Lombardo. Come futuro sindaco di Palermo invece ho già designato il mio: Nadia Spallitta. È consigliere di opposizione con delega all’urbanistica, una donna sempre presente, si interessa dei problemi dei cittadini, ed è capace. La propongo come primo cittadino».
La politica però tace, o meglio passa dall’elogio di Addiopizzo al silenzio quando l’associazione non si limita a protestare contro la mafia, ma lo fa anche contro i politici condannati candidati ed eletti in parlamento, come se tra i due fatti non vi fosse una stretta connessione. «Ieri c’erano i democristiani della Dc, oggi quei politici sono nascosti in altri partiti. Sono contraria a quelli che prima erano democristiani e adesso non si sa cosa sono. È tutto collegato al vile denaro, perché la collusione nel nostro Paese è forte. Per fare pulizia non solo nella politica ma anche nelle attività cittadine è stato chiesto alla Camera di Commercio di Palermo, che ha accolto l’idea, di non seguire le pratiche delle persone che hanno avuto connivenze con i mafiosi. Hanno detto che lo faranno, ma non so se questa regola è già attuata».
Lei continua a vivere a Palermo: quanto è profonda la collusione nei professionisti e nella borghesia siciliana? «Mi vengono in mente gli avvocati, dove vi sono parecchi corrotti. Ritengo che essere conniventi con i mafiosi è altro rispetto alla difesa di un delinquente che è, e deve rimanere, sacrosanta. La borghesia? Gran parte continua ad essere succube della mafia. Ma oggi in tanti hanno cominciato a denunciare le richieste del pizzo, anche se lo fanno in maniera anonima, per paura di ritorsioni. Pochi si rivolgono alle forze dell’ordine, anche se chi lo fa viene protetto, risarcito. Con queste condizioni vantaggiose, se esistono ancora oggi commercianti che preferiscono non denunciare, evidentemente all’origine c’è qualcosa che non va. O forse non sono loro i veri padroni dell’attività. E dunque se molti non hanno usufruito di queste possibilità che lo Stato mette a disposizione, sarà soltanto perché sono dall’altra parte della barricata. Dalla parte dei mafiosi».
Il problema, a Palermo e non solo, oggi è proprio capire il confine tra imprenditoria onesta e imprenditoria mafiosa. Le indagini svelano che le cosche investono in attività legali, gestite da prestanome incensurati. «Buona parte degli esercizi commerciali di Palermo sono di facciata, molti fanno riciclaggio di denaro sporco. Sono convinta, ad esempio, che tutti i supermercati, salvo la Coop che ha una storia diversa, nascono dal riciclaggio».
Tutto come venti anni fa, quindi?
«No, oggi gli imprenditori che si ribellano ci sono. Per noi una presenza molto importante è quella di Ivan Lo Bello, il presidente di Confindustria Sicilia, persona fantastica, che alla presentazione dell’associazione Libero Futuro chiese scusa pubblicamente, a nome dell’associazione, per quello che era accaduto a Libero, lasciato solo dai suoi colleghi».
Nel 1991 l’allora presidente degli industriali di Palermo, Salvatore Cozzo, criticò Libero Grassi per essersi ribellato ai mafiosi. E dopo l’uccisione scrisse in una lettera che agli imprenditori spettava «il compito di restare al proprio posto» non «di reprimere la criminalità». Gli industriali che all’epoca sedevano insieme a Cozzo ai vertici dell’associazione le hanno mai chiesto scusa?
La signora Pina scuote la testa in silenzio, con un gesto che incarna modi d’altri tempi, e fa segno di no. Poi prende fiato e rivive quel dolore: «Mai nessuno di loro mi ha chiesto scusa. Forse erano collusi, forse avevano un livello culturale basso da non comprendere bene quello che avevano fatto. Forse è da addebitare al fatto che non hanno ricevuto una buona istruzione scolastica. E penso che proprio su questo punto ci si dovrebbe battere ancora oggi, per difendere l’istruzione, soprattutto quella pubblica, per evitare che la nuova classe dirigente possa prestare il fianco ai boss».
Cita una frase dello scrittore Gesualdo Bufalino: per «sconfiggere la mafia è necessario un esercito di maestri elementari». E anche su questo resta fedele alle linea del marito: non vuole compromessi. «Occorre sostenere la scuola pubblica con fatti concreti. Con Maria Falcone, la sorella del magistrato ucciso, siamo affiatate: lei per l’anniversario della strage di Capaci fa cose meravigliose facendo attraccare a Palermo due navi cariche di studenti provenienti da tutta Italia. Ma quest’anno nell’aula bunker ho visto parlare il ministro Gelmini, e ci sono rimasta male. Mi chiedo perché Maria Falcone invita la Gelmini, che è un ministro che fa delle azioni contrarie all’etica del Paese, a cominciare dalla riforma della scuola che ha portato avanti».
L’eredità più grande che ha lasciato suo marito è proprio la fine del silenzio: «L’omicidio di Libero ha portato a far parlare di questo fenomeno. Prima non se ne faceva parole su giornali e tv. La parola è una cosa preziosa. Comunicare e parlare delle estorsioni è importante, tanto che oggi se ne discute anche al Nord. Perché anche li c’è il controllo delle attività, legato a un’altra piaga: l’usura. Però il fatto che se ne parla, rispetto a vent’anni fa, è una grande conquista».