Auguri a Francesco Guccini
Francesco Guccini: ma se avesse previsto tutto questo…
(…) io, Francesco Guccini, eterno studente
perché la materia di studio sarebbe infinita
e soprattutto perché so di non sapere niente,
io, chierico vagante, bandito di strada,
io, non artista, solo piccolo baccelliere
Perché, per colpa d’altri, vada come vada
a volte mi vergogno di fare il mio mestiere (…)Francesco Guccini – Addio
Settantasei volte 14 giugno, alle spalle quarant’anni di «umore nero, accuse d’arrivismo e dubbi di qualunquismo»: poi il callo da suonatore ormai perso, la chitarra che diventa un po’ troppo pesante e quella “penna e foglio” abbandonati nello studio lì, a Pavana.
Quello di Francesco Guccini non è stato solo un punto ai concerti, alle case discografiche, agli album, ma una lunga pausa dalla musica. Strano, per uno che di musica ha vissuto. O forse proprio perché il mestiere di cantautore s’è ritrovato a farlo quasi per caso, che l’ultima Thule ha deciso di salpare via, portando con sé solo il ricordo di un repertorio musicale fatto di «pane, vino e sudore».
Ora è il tempo dei sogni, quelli rimasti a metà per troppo tempo: «Da piccolo quando mi chiedevo cosa volevo fare da grande, mi rispondevo “lo scrittore”. Sono sempre stato un grande lettore, mi è parso naturale».
Le canzoni, ammette, gli sono sempre andate un po’ strette: devono essere sintetiche, devono avere un certo ritmo per cui le parole devono cozzare e addensarsi in una manciata di strofe. La pagina bianca invece abbraccia un’infinità di lettere nere, ha il pregio di interi righi vuoti.
Eppure, quando si pensa al Maestrone, la mente corre automaticamente presso i luoghi cantati tra quelle «sette note essenziali e quattro accordi cuciti in croce», corre in via Paolo Fabbri 43, «fra krapfen e boiate», sotto i «i portici cosce di mamma Bologna», corre su quelle montagne intrise d’infantile ostalgia, a quel “bastardo posto” abbandonato troppo presto.
Quando si pensa al vate di Pavana, si pensa automaticamente ai concerti gremiti di gente in cui generazioni distinte, si ritrovavano accomunate da una Locomotiva che ha attraversato quasi mezzo secolo o da un Eskimo “innocente”, si pensa all’eco di Nietzsche in quel Dio «che se muore è per tre giorni e poi risorge», si pensa al vento cantato in una delle canzoni simbolo più importanti dei nostri tempi: Auschwitz.
E poi, per chi, come chi scrive questo articolo, di pane e suoi versi è cresciuto, è difficile non pensare a quei testi certamente meno conosciuti ma forse più belli: a volte spunta un sorriso nostalgico, altre un ghigno di amara consapevolezza mentre la sua voce, inconfondibile, racconta di vite «che si dipanano lungo la scacchiera» e che «dietro al vetro di bar impersonale», prendono consapevolezza dei «giorni che goccioleranno come rubinetti nel buio”.
È difficile, per chi ama le sue rime incondizionatamente, togliere dalla testa quell’accento modenese, quella “erre moscia” quasi venerata e che sembra parlare proprio di te e di quel mondo che «là fuori t’aspetta e tu quasi ti arrendi capendo che a battito a battito è l’età che s’invola».
Ventitré album, numerosi collaborazioni: una discografia di tutto rispetto quella di Guccini, senza contare gli anni trascorsi come scrittore anonimo per l’Equipe 84 e i Nomadi.
Ma si sa, il Maestrone è un omone abbastanza riservato, uno che non ha mai scritto per «quattro soldi» o una «gloria da stronzi»: per chi, dentro sé, ha quel morboso tarlo, scrivere diventa un fatto di necessità non professionale, ma creativa ed esistenziale.
La canzone finisce per essere il luogo più vero. O meglio, nella canzone puoi nascondere quel che senti più sinceramente dietro metafore in un certo senso più vere della realtà.
Ed è così che oltre alla protesta e alla rabbia composta, oltre alla vena malinconica trasversale in ogni sua canzone. Oltre al distacco e all’ironia del suo stile, in quelle strofe si nasconde qualcosa che abbiamo ogni giorno sotto mano: il vivere. Ed è una sorta di conforto, sapere che i dubbi e le incertezze. Gli errori, le piccole gioie e più in generale i racconti di persone vissute (nella realtà o anche nella sola immaginazione), risuonino familiari in noi e nel nostro quotidiano.
In un epoca in cui a causa della paura e dell’incertezza si cede al conformismo dei tempi, a standard musicali ben cadenzati ( una precisa durata, un preciso numero di parole), la canzone d’autore testimonia la fine di un ciclo, di un’epoca ben definita, di un segno preciso e un modo d’essere che poco ha a che vedere con la moda del momento.
E a settantasei anni, Francesco Guccini rimane uno degli ultimi testimoni di un tempo ormai in estinzione: una sorta di eroe romantico si potrebbe dire, un “burattinaio di parole” che, invece di piegarsi sotto il peso dei nuovi tempi, ha pensato bene di uscire di scena con maestria ed eleganza, mantenendo fino alla fine quell’onestà e quella coerenza che l’ha sempre contraddistinto.
Credo che prima o poi questa parabola creativa si chiuderà, e sono fermamente convinto che continuerò a lavorare nella canzone a condizione che vivacità e interesse non vengano meno. Non lo faccio per soldi, credo di aver già la possibilità di mettermi in pensione.
E allora non ci rimane che omaggiarlo e ringrazialo, non con inutili convenevoli e parole sdolcinate. Basterebbe mandare in dono in quel di Pavana, una bottiglia di vino (una di quelle con una bella etichetta e un bel colore) e in allegato poche e sincere parole:
Consolati e pensa che il tuo compleanno
ritorna fra poco, soltanto fra un anno.Francesco Guccini – Il Compleanno
Eleonora Vergine per MIfacciodiCultura