Canzoni in forma di Rosa (Dario Consoli)
Ho scattato questa foto a Rosa Balistreri nel 1989: mi venne a trovare nella mia casa a Partinico, vicino alla Torre Abraciara, assieme a Giuseppe Casarrubea, con il quale aveva un bel rapporto di conoscenza. Era assieme ai suoi due inseparabili cagnolini: un bel pomeriggio in cui ci divertimmo a cantare e ad accompagnarci reciprocamente con la chitarra. Ho il piacere di pubblicare questa nota di Dario Consoli , scritta in occasione dell’uscita del libro “Una Rosa di venti”, ovvero 20 ricordanze in omaggio di Rosa Balistreri, in occasione del trentennale della sua morte. (Salvo Vitale)
Omaggio a Rosa
Nel 1973 una donna piccola e non più giovane, già ortolana al mercato fiorentino di San Lorenzo, rischiò di vincere a Sanremo con una canzone che parlava della Sicilia, terra che aveva lasciato: “Terra ca nun teni / chi voli partiri / e nenti cci duni / pi falli turnari.” Nel 1989, alla vigilia della morte, cantava: “Cantu e cuntu, / cuntu e cantu / ppi nun perdiri lu cuntu.”
Donna capace di un amore dolente, Rosa Balistreri, cantava e cuntava, con amore e rabbia, per seppellire traumi e fantasmi, per ritrovare gioie e libertà a lei negate ma riguadagnate, per spaccare i cieli pur di far piovere amore; come da ragazza le era capitato di nutrirsi, dopo le bombe americane piovute dal cielo, dei doni di un soldato di Patton nell’estate 1943: estate che spazzò il mondo feudale siciliano de “lu Voscienza”, quel mondo che non contemplava una donna che, in pubblico, cantasse: “Tempi d’abbusi, di fami e di guerra; Criscivu mmenzu di li malannati.”
Una donna che era ancora bambina e, conservando la psicologia dell’infanzia (privilegio d’artista?), rifiutava il lei da tutti, e cercava autori di canti, e di una biografia da scrivere. E che già da bambina, come la Piaf, aveva solo potuto affidare alla voce un immenso desiderio di vita.
Era anche madre, Rosa, ma figlia tradita della sua terra si era sentita. Aveva una “voce che ti prendeva come un artiglio” (Leo Gullotta). Fu fatta conoscere in tutta Italia da Dario Fo, nel 1960.
Donna addolorata, Rosa Balistreri lancia strali di balestra con le sue canzoni (il nome è destino), intrise di lacrime silenziose. Figlia di un povero sediaro, che la mandava al catechismo per potervi mangiare pane e mortadella, ma l’ammoniva di non cantare nei campi perché “i fimmini nun cantunu, cantunu sulu i buttani!” E quella voce si faceva più tragica e dolce.
Una voce di dolore e di libertà, di perdita e di conquista, di dignità femminile affidata a una chitarra dalle corde di ferro.
Trent’anni dopo la morte, un omaggio ha forma di ‘rosa’ come un richiamo a Sciascia (“Una rosa per Matteo Lo Vecchio”): scrittura che dà voce a chi è sembrato precipitare nel pozzo secco della memoria.
A questa cantautrice, che ha mostrato “tenacia e genio di una Sicilia che lei ha interpretato“ con le sue strofe e il timbro straordinario di voce, è dedicato un libro curato da Mario Grasso il quale, ormai vicino a completare il nono decennio di vita, novera ben quarant’anni di lavoro speso per dare ragionato spazio e riconoscimento alle tante voci della Sicilia. Ultima arriva questa rosa di ben venti petali: Aa. Vv., “Una rosa di venti”, ovvero 20 ricordanze in omaggio a Rosa Balistreri nel trentennale della morte, a c. di M. Grasso, Catania: Prova d’Autore, 2020; con i contributi di: S. Aglieco, M. Argento, S. Bommarito, M. Cairone, G. Cellura, A. Centonze, V. Di Prima, F. Foti, A. Gerbino, M. Giammarresi, R. Governali, M. Liseo, A. Lombardo, R.P. Maiolo, F. Marsana, C. Nicosia, S. Poidomani, L. Rizzo, G. Sciortino, G.L. Sottile. Libro utilissimo per ricostruire la vita, conoscere l’opera, proporre interpretazioni della prima cantautrice popolare italiana, nata a Licata nel 1927.
Curiosamente, nota Grasso, manca un romanzo sulle prime vicende di una donna esemplare della condizione femminile di allora, quasi misteri di un laico rosario o capitoli di romanzo inglese o scene di un cunto come quelli di Busacca che la bambina riteneva a memoria: bambina vivandiera nelle miniere; operaia di salagione delle acciughe; uxoricida mancata, costituita e carcerata; mamma e sorella badante; venditrice ambulante; alfabeta attempata; domestica ingravidata dal signorino contino; ladra per amore reincarcerata; puerpera abbandonata per strada; sacrista dal parroco molestata; poi transfuga e compagna del pittore Lombardi; cantautrice che sboccia; orba tragicamente di sorella e padre, la sua voce si tramuta in quella della Sicilia offesa, fino alla beffarda fine per implacabile ictus che la spense nel 1990, ancora in scena. E pur ci giova, la ricordanza.
Dario Consoli