Dario Fo, la bocca spalancata di un sileno (Marcello Faletra)
Dario Fo ha preso parte a tutte le battaglie politiche dell’ultimo mezzo secolo. Ha fatto del teatro il luogo della verità politica e sociale. In questo c’è una linea di continuità con Brecht. Il teatro come specchio delle contraddizioni storiche e sociali, in altro modo e con altre forme. Ma, anche, il teatro come profanazione della cultura “alta”.
Censurato. Spiato. Avversato dall’informazione genuflessa al potere. Temuto per le sue idee (gli Stati Uniti per anni vietarono il suo ingresso e la Rai per lunghi anni face ossequiosamente altrettanto). Ciononostante è sopravvissuto agli ostracismi, alle censure, alle esclusioni mediatiche, fino all’impensabile premio Nobel che tanto ha fatto girare lo stomaco ad intellettuali embedded. Chi era dalla sua parte – dalla parte della libertà di pensiero, dalla parte degli umili e degli oppressi, dalla parte della verità – ora ne porta il lutto.
Ha imparato guardando, osservando. Corpo, gestualità, improvvisazione, pantomima… tutte condizioni che pongono all’attore di preferire al gesto fictionale, quello espressivo del corpo, così come tu ce l’hai.
La smisuratezza della sua gestualità era direttamente proporzionale alla smisuratezza dell’impostura del potere. Il grottesco che spesso faceva capolino nel suo teatro, in fondo, era lo specchio del potere.
Le sue esagerazioni del negativo, erano sempre riferite a ciò che non dovrebbe esserci: l’impostura, l’arbitrio del potere, la violenza, l’ingiustizia sociale, la falsificazione delle verità, come quelle del ribelle Francesco.
Vale la pena riportare qualche passo delle note del suo testo teatrale “Morte accidentale di un anarchico” del 1970 a cura della “Comune”, che in modo traslato tocca i punti oscuri del “suicidio” dell’anarchico Pinelli dalla questura di Milano: “Alla base del testo, della serie scatenata di invenzioni comico-grottesche in cui si articola – come penosamente grotteschi sono i risvolti delle vicende cui il testo fa riferimento -, c’è la riflessione leninista della teoria dello stato e delle sue funzioni. La magistratura e la polizia che lo spettacolo mette sotto accusa non sono istituzioni da criticare o da correggere, sulle quali far pressione per evitarne le disfunzioni: sono le espressioni più dirette dello stato borghese, del nemico di classe da abbattere”. Queste parole sono state scritte nel 1970, mentre contestualmente Michel Foucault analizzava le dinamiche e la violenza del potere disciplinare di cui ampi apparati dello stato contribuiscono a conservarne l’egemonia.
E quando nel 1997 gli verrà dato il Nobel, la motivazione legittima l’operato della “Comune”, quando mette in ridicolo l’arbitrio del potere di fronte alla nuda verità degli umili.
Ma la grandezza di Dario Fo è stata la parodia. Nessuno meglio di lui ha incarnato questo grimaldello che ha rovesciato la percezione delle idee ufficiali, del credo conformista. Come un Pantagruele dei nostri giorni, la potenza espressiva della sua gestualità affondava come una lama di coltello la certezza imperscrutabile del potere e dei suoi avvocati giornalisti, chierici, intellettuali, “opinionisti”, artisti quando era il caso.
Gli idealisti, come gran parte degli uomini di “cultura”, spesso hanno un cattivo rapporto col corpo. Per loro è solo una funzione. Non possono identificarsi con la gestualità.
Imbalsamati nelle pieghe delle “idee” e, soprattutto degli interessi, restano chierichetti di funzioni ideologiche. Confermando le analisi di Gramsci sull’egemonia culturale.
Non si sporcano le mani e al modo di un comico come Benigni, oggi, ossequiano il potere. Ma si sa, le idee, per alcuni sono come l’atmosfera. Mutano col vento.
La loro universalità è quella dell’astrazione di un pensiero come quello che già Kant descrisse nel suo straordinario “schematismo”, quando legittimò l’a-priori dell’intuizione sull’esperienza. L’irriverenza di una flautolenza per Kant era qualcosa di non ascrivibile al suo concetto di intuizione. Ecco, è qui che Dario Fo, ma prima di lui Rabelais, ha messo in teatro un riscatto della ragion parodica, che affianca il rimosso della critica della ragion pura di Kant: il corpo inghiotte il mondo come la bocca spalancata di un sileno. Nietzsche ne seppe qualcosa con la sua Nascita della tragedia.
Dario Fo ha fatto paura. Era temuto per la sua sterminata cultura che metteva a disposizione di tutti. Non parlava da cattedre. La sua voce parlava della strada che tutti patiscono e vivono ogni giorno, dove nessuno è escluso. Parlava delle vicissitudini che ieri, come Joan Padan con la “Discoverta dell’America”, ad oggi, non smette di ossessionare la vita di una moltitudine che non ha più terra.
Marcello Faletra