Due o tre cose su Guido Orlando (Marcello Faletra)
Un ricordo di Marcello Faletra su Guido Orlando, raffinato fotografo, amico e compagno di lotte nel nome di Peppino Impastato, del quale ricorre il quarto anniversario della morte
Sono le quattro del mattino. Mentre la notte inizia a sprofondare tra le prime luci dell’alba, andiamo al porto. Con noi c’è Norino poi emigrato e altri due amici…forse ci sono anche Giosuè e Faro, ma non ricordo bene adesso, dopo tanti anni. Se ricordo bene Guido è perché abbiamo parlato di fotografia, una comune passione. E’ un giorno di primavera del 1975, e la notte sembra abitata dagli Dei. La sera prima siamo stati in piazza dove abbiamo ascoltato un affabulatore che ha sciorinato una sequenza di storie da mille e una notte che iniziavano da cose reali per finire in mondi surreali. Sorie di fantasmi che ti espropriano il sonno. Storie notturne. Vere e false ad un tempo, ma affascinanti. Data l’ora decidiamo di andare al porto per vedere le barche arrivare col pesce appena pescato. Norino ci seduce con l’idea di mangiare sarde arrostite
e focacce di primo mattino. A volte, di rado, capita che i pescatori armano un fuoco e si danno da fare per arrostire. Per noi vogliosi di vita e di esperienze è una primizia che ha il sapore del mito. Ma ci piace pure ascoltare le loro storie nutrite dal mare, cariche di avventure, ci piace guardare in faccia i loro sentimenti fissati nelle rughe, farci sedurre dalle immagini che mettono in gioco, osservare come finisce la vita dei pesci che danno gli ultimi sussulti di vita.
Guido ha con se una Olimpus. Non se ne separa mai. E’ una specie di estensione del
suo corpo.
Fotografa tutto. Le mani. Gli occhi. Il pescato. La barca. Frammenti d’ogni specie…Anch’io ho una macchina fotografica. Norino con due pescatori accende il fuoco. Poi: olio, sale, limone e il
pane appena sfornato.
Le sarde sono pronte. Mangiamo come profughi. Non ricordo i nomi dei pescatori.
Una barca viene trainata. Per fortuna è vicina alla costa. Le prime luci dell’alba sono uguali a quelle del tramonto, poi il cielo d’un tratto si fa turchino. Guido compensa con un filtro. Si spengono le luci della notte. E’ giorno. Non parla molto Guido. Si limita all’essenziale, al semplice.
Ci avviamo verso casa con la sua Renault bianca un po’ malmessa. Abitiamo a pochi passi l’uno dall’altro…discutiamo di fotografia. Guido trae una considerazione dall’uso del suo occhio artificiale: il mondo non può essere ciò che semplicemente vedo, ma ciò che materializzo attraverso un’immagine. Perché in quell’immagine ci sono tutto dentro. Poi fa un’osservazione apparentemente strampalata, ma che invece coglie nel profondo lo stato delle cose della vita dei pescatori – grosso modo dopo tanti anni suona così: “i pescatori hanno sicuramente cominciato a pregare molto prima di saper parlare, perché come avrebbero potuto sopportare i problemi che il mare comporta senza imprecazioni e gemiti, segni anticipatori della preghiera”. Insomma i pescatori sono religiosi per necessità, prima ancora che appaia la religione come istituto universale di controllo delle coscienze.
Continuo a ricordare: “la fotografia – mi dice – guida le emozioni, stimola le sensazioni”. Per lui, la fotografia è un archivio del mondo che si coniuga sempre al presente cui tutti possono attingere e aggiungervi qualcosa o vedervi qualcos’altro.
Ci riconosciamo in quell’oggetto di metallo che cattura le cose del mondo. E’ un occhio magico che ci inizia alla vita dell’immagine. Partiamo dall’immateriale, dall’immagine, dal negativo per approdare al positivo, alla dimensione immaginifica delle cose. E tuttavia è una dimensione reale. E per noi, giovani, il mondo non è quello che ci siamo trovati addosso. Tutto è da rifare e da “diaframmare”, da rimettere sotto il fuoco della nostra esperienza. Nessuna immagine già fatta può essere adeguata al nostro desiderio di vivere e vedere. La fotografia, in fondo, accresce il nostro desiderio di scoperta. Sostituisce quello che fu il diario dei viaggiatori.
Per certi aspetti è come un atlante del mondo e delle persone. D’altra parte a Guido piace viaggiare e annotare con la fotografia. Annotare ciò che nello svolgimento temporale, libera il senso del viaggio e della scoperta che è un atto innocente, libero per ciò da ogni compromissione. La fotografia non negozia. Per questo essa ha un ruolo importante nella ricerca della libertà, ne fissa i passaggi decisivi, i punti di svolta. Mi dice pure che la fotografia per lui funziona come una macchina della memoria: fa prevalere nell’immensità del molteplice i punti di cristallizzazione dello sguardo che sommuove ciò che è stato appena ieri nel presente. Come quando un giorno andammo nel cantiere dell’autostrada in costruzione alle spalle di Terrasini appena sotto la montagna, e scoprimmo resti di elefanti nani. Sotto la massa dei millenni resti di vita animale riaffioravano tra le nostre mani e ci portavano ad immaginare quel posto senza anime popolato da creature d’ogni specie. Tutto questo mondo preistorico e fantastico ad un tempo è finito per sempre sotto le colate di cemento dell’autostrada. Vivono soltanto come ombre nei negativi di Guido.
Ci portammo qualche fossile come prova che lui aggiunse alla cospicua collezione di fossili che la sua famiglia possedeva.
La fotografia in soccorso della memoria della terra e del paesaggio. E Guido di paesaggi e di terre era un esteta incorreggibile. Fotografare era per lui entrare in labirinti geografici, perdersi nelle tracce della terra, avventurarsi nei suoi sedimenti e nelle sue spettacolari evidenze.
Un bravo fotografo deve essere in ogni caso anche un bravo viaggiatore.
E l’occhio fotografico è il dispositivo dove, più che in ogni altro luogo, si materializza, come lui diceva, nell’immagine di una persona o di una cosa, questo viaggio interiore, che è il movimento di ciò che altrove si dice “trasfigurazione”.
Marcello Faletra