Falcone-Di Matteo: il passato che non passa (Saverio Lodato)

Falcone-Di Matteo: il passato che non passa

falcone dimatteo lodatodi Saverio Lodato
L’isolamento di Giovanni Falcone, da parte dei suoi stessi colleghi. Le ripetute sconfitte di Giovanni Falcone che fu bocciato per la guida dell’ufficio istruzione di Palermo, per la sua nomina nel Consiglio superiore della magistratura, per la direzione della Procura nazionale antimafia. Le calunnie nei suoi confronti, per il suo stile di lavoro, per il suo impianto teorico innovativo nel fronteggiare Cosa Nostra, per aver contribuito, insieme ai colleghi del pool antimafia di Palermo, all’istruzione del primo storico maxi processo alle cosche mafiose.
E le insinuazioni – persino – sul mancato agguato dinamitardo nella sua villa dell’Addaura, quasi fosse stato lui stesso a mettersi i candelotti di dinamite per farsi pubblicità.
“E’ la storia di un eterno perdente, quella di Giovanni Falcone”, osserva Nino Di Matteo. La sua strada fu eternamente in salita. Dovette fronteggiare innanzitutto i “nemici interni”, quelli dell’ufficio accanto. Poi i “nemici esterni”, a cominciare da Cosa Nostra. Infine, a macabro coronamento della sua intera esistenza umana e professionale, quelle “menti raffinatissime” la cui presenza tangibile Falcone riuscì ad individuare proprio dietro il fallito attentato dell’Addaura ai suoi danni.
Perché dovette pagare un prezzo talmente alto e sotto ogni profilo? Non poteva essere diversamente. E non lo diciamo con il senno di poi. Ma già con il senno di allora.
Se è vero, come è vero, che nel 1980 un nutrito gruppo di sostituti procuratori palermitani scrisse e sottoscrisse un documento per lamentare che si stava assistendo a una eccessiva “mitizzazione della mafia”.
A 23 anni dall’uccisione di Falcone per mezzo della strage di Capaci, i magistrati del distretto, sono tornati a interrogarsi sulle ragioni che determinarono quell’isolamento. Molti sono magistrati giovani. Molti indossarono per la prima volta la toga proprio all’indomani della strage di Capaci. Qualcuno, che risale a quei tempi, c’è ancora.
E si deve a Nino Di Matteo, che con lucidità e freddezza ha ripercorso quelle vicende, l’aver ricordato l’esistenza di quel documento, datato 1980, e che rappresenta un prezioso “apriti sesamo” se si vuol capire ciò che accadde e perché accadde.
Lo abbiamo ascoltato ieri pomeriggio nella Aula magna di quel Palazzo di Giustizia dove per anni volteggiarono i “corvi” e i “Giuda” che non digerirono mai il cosiddetto “protagonismo” di Falcone.
E, mentre parlava, ci veniva di pensare che sin quando la magistratura palermitana non troverà il coraggio di un radicale “mea culpa”, qualsiasi ricostruzione a posteriori risulterà inevitabilmente sforzo accademico, magari anche lodevole, ma pur sempre disancorato dalla temperie che segnò la storia di quegli anni.
E che il mancato “mea culpa” sta partorendo gli ennesimi “mostri” con i quali proprio Di Matteo oggi è chiamato a confrontarsi.
Quanto assomigliano alle “sconfitte” di Falcone in magistratura le sconfitte odierne, sempre in magistratura, di Nino Di Matteo.
Quanto assomiglia alla pesante entrata in campo di Francesco Cossiga, allora capo dello Stato, contro Falcone e Borsellino, la recente condotta del penultimo capo dello Stato, Giorgio Napolitano, contro il processo di Palermo sulla Trattativa Stato-Mafia, in cui Nino Di Matteo, insieme ai colleghi Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene, rappresentano la pubblica accusa.
Quanto si assomigliano le calunnie su Falcone per l’Addaura e il silenzio tombale, di magistratura e istituzioni ai massimi livelli, sulla vicenda del tritolo acquistato e destinato dalle cosche a far saltare in aria Di Matteo e gli uomini della sua scorta.
Intendiamo dire che il “passato” di allora, per molti versi, non è mai passato.
Andrebbe infatti riconosciuto che molti magistrati dell’epoca convivevano allegramente con il fenomeno mafioso.
Andrebbe detto che molti magistrati non ritenevano affatto che fosse obbligo della magistratura “essere contro la mafia”.
Andrebbe ricordato, a esempio, che il primo vero pentito di mafia, Leonardo Vitale, a inizio anni ’70, fu spedito, per decisione di magistrati e poliziotti, nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto, ritardando così, sino all’avvento di Tommaso Buscetta, la scoperta di cose che non si volevano assolutamente scoprire.
O andrebbe studiata e spiegata l’incredibile assoluzione in primo grado del terzetto mafioso, Puccio, Madonia e Bonanno arrestati con la pistola fumante in seguito all’uccisione del capitano dei carabinieri, Emanuele Basile, che così ebbero tutto il tempo per scappare. O lo stillicidio di una mezza dozzina di processi per l’uccisione del giudice Rocco Chinnici. E potremmo continuare.
E una volta affondato il bisturi sul “passato” di allora, bisognerebbe avere la forza intellettuale di tirare le somme sulla tremenda attualità alla quale stiamo assistendo in questi anni.
Riusciranno a farlo i giovani magistrati di oggi? Va detto che da loro, in quell’aula magna del palazzo di Giustizia di Palermo, sono venuti applausi scroscianti alle parole di Nino Di Matteo. E si sa che le buone idee, per farsi largo fra tanta gramigna, hanno bisogno di tempo. Speriamo solo che le buone idee non si realizzino fuori tempo massimo.

saverio.lodato@virgilio.it

Antimafia Duemila

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