Fenomenologia  del Totuccio

Ficarra

    Il termine “totuccio” è nato a Terrasini, un paese marinaro a 30 km da Palermo, che, particolarmente nel periodo estivo, vede quadruplicarsi il numero degli abitanti a causa dell’invasione di palermitani di varia estrazione sociale, dai proprietari di seconda casa agli affittuari, ai nomadi che sciamano per le coste con visite giornaliere mordi e fuggi, portandosi dietro tutto il necessario per la sosta e, lasciando ai nativi, cumuli con i miseri resti delle loro abbuffate.L’origine del toponimo è Salvatore, da cui  Turi, Turiddu, Turidduzzu, Turiddazzu, Turinu, Totò, Toti, Totino, Totuccio, Tuccio, Totuccino, Salvo, Saibbo, Salvino, Salvuccio, Salvatureddu ecc.

 Va subito chiarito che il “totuccio” non è il palermitano, ma un certo tipo di palermitano con precise caratteristiche biologiche, antropologiche ed etniche, un prototipo ed insieme una specie, una categoria genericamente individuabile, ma singolarmente contraddistinta dalla propria irripetibilità, in rapporto alla quale esiste il simile, ma non l’uguale. Nell’ambito di tale genere bisogna individuare la provenienza di classe, per cui esistono tre specie di questo esemplare, il totuccio proletario, il totuccio borghese, il totuccio bène.

 

Il totuccio proletario

 

-Località di provenienza: Ballarò, u Capu, a Vucciria,, con consistenti diramazioni allo Zen, alla Kalsa, a Malaspina, a Borgonuovo e a u Papiritu.

– Caratteristiche fisiche: altezza media 1,64, circonferenza del cranio cm. 68, circonferenza della panza da m. 1,50 in poi.

-Abbigliamento: berretto a forma di casco, possibilmente bianco, o berrettino pubblicitario con pampera, zoccoli di legno, pantaloncini misura 44, che mettono in evidenza le forme posteriori e si abbottonano all’inguine, in modo da lasciare in bella esposizione l’enorme volume della panza. E’ d’obbligo una collana d’oro a maglie molto larghe, con un crocifisso o una croce al centro del villoso petto.

-Stato di famiglia: la moglie si chiama Marèa, porta un costume monopezzo elasticizzato che fa meglio risaltare la panza, di dimensioni sempre più prominenti rispetto a quella del marito, cosce prosciuttine, natiche gelatinose, unto di rossetto sulle labbra, seni felliniani (tipo Amarcord), capelli lisci e untuosi. La suocera è Rusulèa, cosce arrappate e bianchissime, fazzoletto in testa, sottana bianca-avorio o rosa, silenziosa matriarca che tiene tutti sotto controllo. Figli da quattro a dieci, tutti sotto i 13 anni.

-Mezzo di locomozione più diffuso la LAPA, cioè la lambretta a tre ruote, dove prendono posto i vari parenti, sino a un massimo di 15 persone.

-Musica preferita: Mario Merola, Pino Marchese e, per i più moderni, Nino D’Angelo e Gigi D’Alessio.

-Hobby: gioco delle carte, solitamente a briscola, meglio se briscola a cinque: meno praticate la scopa o lo scopone scientifico.

-Linguaggio: irripetibile: solo il totuccio possiede certe connessioni di fonemi e digrammi, certe aperture di vocali apparentemente sguaiate, ma linguisticamente interessanti. In particolare la erre tende ad annullarsi e ad essere raddoppiata dalla consonante che la segue e frequentemente preceduta dalla “i” (morto= muoittu, cornuto= couinnutu, porta= poitta), mentre la “e” grave tende a sostituire la “i” o ad associarsi ad essa (cretino= cretenu, beddu= bieddu, Palermo= Palieimmu), ma la si usa pure come sostitutivo della “a” (pane= pene, faccia= fecci). E’ d’obbligo fare precedere la “!c” iniziale, seguita dalla “e” o dalla “i”, dalla esse (certo= sciettu, cipolla= scipudda).

-Alimentazione: prima colazione: pane e panelle;  pranzo: primo: pasta cu i sardi o pasta al forno con ambio corredo di melenzane fritte; secondo: sarduzzi a beccaficu e/o babbaluceddi cu l’ammogghiu; frutta: muluna, per  tirarsi addosso le bucce, o scuoicci; dolci: cannoli; merenda: pani cu a meusa, stigghioli, frittula, carcagnolu o altre parti di scarto dell’animale, come le interiora (quarume); cena: preferibilmente sfincione. E comunque, raschiamento a zero di tutto quanto è rimasto o che si riesce ad arraffare nelle campagne vicine; bibite: vino o birra allungati con gazzosa.

-Caratteristiche etniche: il totuccio è padrone di tutto il mondo: egli si attiene scrupolosamente all’indicazione del filosofo Proudhon, secondo cui “la proprietà è un furto”, ovviamente quando sia quella degli altri. Ovunque scorga un albero, uno spiazzo, un fazzoletto di sabbia o un rudere abbandonato, egli piazza i suoi complicatissimi tendaggi, il tavolinetto e le sedie chiudevoli e comincia a dilatarsi in tuta la sua capacità di espansione, simile al riccio che disse: “cu si senti punciri nesci fora”. Non c’è ortaggio, filo d’erba a portata della sua mano, che possa resistergli: pomodori, cetrioli, zucchine, lattughe e frutta varia, pazientemente curati dai contadini indigeni per mesi,  spariscono, quasi smaterializzati, nella sua smisurata pancia, per lasciare posto a una marea di rifiuti che egli diffonde dappertutto, forse come fertilizzante: la sera, quando il totuccio leva le tende, la spiaggia o il terreno dove si è piazzato, sembrano campi di battaglia dove galleggiano pezzi di carta, sacchetti, piatti e bicchieri di plastica, lattine di bibite varie, cocci di bottiglia, scorze di mellone, escrementi, carcasse di babbaluceddi ed altri residui.

 

Il totuccio borghese

 

Biologicamente ci sono poche differenze con il prototipo proletario: generalmente è più giovane, ma ha già ben delineate le deformazioni fisiche di sviluppo dell’adipe, lavora in ufficio, si sposta in macchina (è passato, nel tempo, dalla 600 alla 850, alla 127, alla Uno, alla Punto). In rapporto alla disponibilità economica possiede o affitta u “billinu” in campagna o la casetta in paese, a meno che non sia riuscito a costruire un monovano o/e una baracchetta sulla costa al limite dal mare o su lotti di 250 mq. senza acqua, senza luce, senza servizi igienici. Tra il sabato e la domenica in queste stamberghe dormono da 20 a 30 persone assetate d’evasione e il totuccio si diverte arrostendo pesce (preferiti sgombri e sardine), salsiccia, stigghioli, ascoltando musica a tutto volume e giocando a pallone o a carte dalle tre di pomeriggio in poi.

La  moglie del totuccio borghese è la classica cittadina snob, alquanto sofisticata e svanitella, che va a fare la spesa in paese, (caciotta, sfincione e muffulette), diversamente dal totuccio proletario, che non spende una lira ed è autosufficiente nell’alimentazione. I due figli sono Giusy e Totino, entrambi studenti: Giusy gira di giorno in due pezzi, dimenando le sue natiche basse e la sera veste in abbigliamento esotico, tipo pareo, studiatamente trasandato: si concede facilmente, ma non ai paesani, che crede di scandalizzare, esibendosi in pomiciate di fuoco con il totino di turno. Totino invece è un piccolo pollo semiesaurito, che gira in vespa o in motore o con la macchina di papà, strano tipo di incrocio tra un ET, Rambo , Eros Ramazzotti e, più recentemente, Morgan, con la precisa convinzione che le paesanotte, cui dà una caccia spietata, debbano cascare tutte ai suoi piedi.

Il linguaggio dei rampolli del totuccio borghese è anch’esso di difficile riproduzione: ci sono tutta una serie di inflessioni fonetiche, dalla “esse” pronunciata con la lingua tra i denti, alla dilatazione prolungata, attraverso variazioni esasperate di tonalità, delle vocali ( è “assuuuuido”): usano l’italiano, o meglio il palermitano italianizzato, inframmezzando o ripetendo, prima di ogni proposizione il fonema “nchia” : il non plus ultra del gergo è dato dalla frase: “nchia, te lo giuro su Coollica” (Collica è il titolare di una catena di bar frequentati da gente di un certo livello).

Rispetto al proletario, il totuccio borghese non ha la stessa capacità di godersi la vita “futtennusinni” di tutto il resto : mentre il primo non esita a trafugare il contenitore a ruote della spazzatura, che può servire da culla, carrozzello, o rimorchio, il secondo ha problemi di cambiali e qualche responsabilità etica, ma non rinuncia al “pezzetto” di gelato, da consumare, la sera, seduto in piazza: li accomuna comunque l’incontenibile passione per un bel piatto di babbaluceddi, malgrado la comprensibile disperazione se vedono il totino che cerca di succhiarli con la cannuccia.

 

Il totuccio bène

 

La “e” di bene si pronuncia molto larga, quasi fosse una “a”: baene. Esistono due tipi di totuccio “bène: il totuccio bène purosangue e il totuccio bène acquisito: a fare un richiamo letterario li si potrebbe identificare negli eredi del Gattopardo e in quelli di don Calogero Sedara. I primi sono autentici aristocratici, una razza ormai in estinzione, la cui “sicilianitudine” rimane autentica nei suoi pregi e difetti, dall’indifferenza da semidio, al parassitismo economico e sociale; i secondi sono dei parvenus, nuovi arricchiti, totucci da imitazione, ormai in piena espansione. Tutti sanno ciattare, fumare, sniffare, bucarsi, ubriacarsi, cioè “stonarsela”. Li contraddistingue un portafoglio a ventaglio, il macchinone, il cellulare, la cameriera negra a 400 euro, tutto compreso, la villa di proprietà nei complessi residenziali più importanti della zona.

Colta a volo da una totuccia bène alla spiaggetta di Calarossa: “Noi abbiamo lottato per l’apertura di questo accesso, perché comprando la casa qua abbiamo, di fatto, comprato anche una parte di spiaggia, ma non vogliamo che questa diventi la spiaggia di tutti”: e mi ha guardato come fossi un verme, e, comunque, un abusivo.

Se gli ebrei, nella loro erranza, hanno cercato di redimersi dall’essere sottoposti a un’identità fissa che non fosse la loro, l’aspirante totuccio bène tende ad acquisire e a stabilizzare tale identità: qualche volta avverte l’arcano richiamo del babbalucieddu  e, può capitare, di notte, di vederlo, travestito da totuccio proletario, aggirarsi tra cumuli di massi, con la torcia elettrica, alla ricerca del cornuto animale. L’unico rapporto col paese è quello di ritenerlo il luogo di scarico dei propri rifiuti: uno degli sport preferiti è il lancio del sacchetto pieno a mare, dall’alto della scogliera.

Più interessanti invece i loro rampolli, che sciamano suoi loro motorazzi giapponesi, possibilmente smarmittati, casco variopinto, camicia fiorata senza colletto, pantaloni lunghi e larghi, o accorciati tipo bermuda. Inseparabili gli occhialoni scuri e, per i più fighetti, anche il giubbotto di pelle nera.

Questa nuova razza è nata negli anni ’70 intorno a due comitive palermitane, quella del circolo “Antorcia” e quella del cinema “Fiamma”. L’Antorcia, e poi anche il circolo “La Base”, fungevano da momento di coesione tra gli intellettuali di sinistra un po’ spompati, radicalmente borghesi e socialmente disadattati: la comitiva del “Fiamma”, di estrazione piccolo e medio-borghese, lanciò invece la nasalizzazione forzata ed esasperata del linguaggio e la puntualizzazione di un gergo palermitaliano che costituiva insieme un modo d’intesa espressiva pieno di criptogrammi e un biglietto di presentazione tra i propri simili.

Qualche perla: “Dammi scinque” (dammi le cinque dita, cioè la mano): “nchia, me lo dai un bi?” (minchia, me lo dai un bacio?); “ce l’hai un sippino?” (ce l’hai un gettone della SIP?).

Il totuccio bène non va a fare il bagno in spiaggia, ma preferisce gli scogli, anche se non sa nuotare bene: si tuffa, per esibizione, da sei-sette metri, dando grandi panciate, e prima di tuffarsi grida: “Nchia, ora mi uccido”. Con fine apparenza e ironia simula alcune perversioni, tipo il masochismo o l’omosessualità, quasi a mostrare un segnale di emancipazione e di apertura mentale: “nchia, uccidimi” “nchia, picchiami che mi piasce” “nchia, foottimi”, ma in fondo la struttura del suo essere rimane legata al fallo, simbolo della sua realizzazione: egli è convinto di essere bello, di essere unico, di essere sull’onda cioè di essere alla moda, di essere invincibile, trascinante, “spertu”, lontano anni-luce dalla mentalità dei ragazzi del paese: nei momenti pomeridiani di noia bofonchia: “nchia, ora mi faccio una canna”. Non sarebbe il caso di interessarsi di costoro se non ce li trovassimo tra le scatole almeno per tre mesi l’anno.

 

Scheda storico-antropologica

 

Se Esaù vendette la primogenitura per un piatto di lenticchie, il totuccio, per un piatto di lumache sarebbe pronto a vendere l’anima al diavolo. Il rapporto del totuccio con i babbaluceddi è uno dei femomeni più rilevanti della moderna antropologia culturale: non esiste al mondo alcuna razza simile, capace di individuare e snidare il babbalucio dal suo più recondito nascondiglio, di cuocerlo e fagocitarlo con fulminea rapidità e abilità: l’operazione consiste nel bucare con il dente canino destro la parte centrale della “scorcia” (guscio) e aspirarne il contenuto in un sol colpo o “sucuni”. Tra i vari quartieri di Palermo esistono regolari campionati di corsa di babbaluceddi: il vincente, cioè il babbalucio che arriva per ultimo, avrà l’onore di essere succhiato vivo dal capofamiglia del suo quartiere. Il pentito Totuccio Contorno, nelle sue confessioni ha omesso di dire che, oltre a bruciare il santino tra le mani, la prova centrale per essere ammessi a far parte dell’onorata società è quella di saper succhiare almeno 30 babbaluci al minuto: tuttavia nessuno è stato in grado di superare il record stabilito nel 1956 da Totuccio La Barbera di 116 babbaluci al minuto. Esiste invero un record ufficioso, stabilito così per scherzo da Totuccio Lima, nel corso di una riunione tra amici di cui si parla negli atti parlamentari della Commissione Antimafia a pag. 1112: il record, non omologato, che ha fatto di questo figlio di Palermo l’autentico rappresentante, anche in sede internazionale, di tutto il totucciame, è di 159 babbaluci al minuto!ualcheUalche perla: “Dammi scinque”

 

Negli ultimi tempi lo sport ha superato i confini della città ed ha dilagato anche nella vicina Corleone, dove il campione riconosciuto è don Totò Riina, ma le cronache raccontano che anche nella lontana Agrigento esistono leggendari campioni dotati di diabolica abilità succhiatoria, come Totuccio Cuffaro. Per non parlare del cardinale del cardinale  Totuccio Pappalardo che, ogni  primo venerdì di mese si fa portare di nascosto, dal suo canonico don Totò Cacopardo una pentola di babbaluceddi all’”ammogghiu”, cioè cucinati con origano, aglio, acqua, olio e sale.

 

Alcune notizie storiche: con un barile di lumache Ulisse riuscì a conquistare le simpatie del ciclope siciliano Polifemo, lo fece appanzare e poi gli cavò l’occhio (vedi libro VI dell’Odissea); nel 52 a.c. i palermitani mandarono al senato romano una lettera per protestare contro il proconsole Verre, il quale aveva fatto sequestrare tutti i babbaluci in circolazione e ne faceva grandi scorpacciate  (vedi le Orazioni Verrine di Cicerone); più tardi vennero contagiati da questo nobile uso anche i Normanni, i poeti della Scuola siciliana di Federico II e soprattutto i francesi: a scatenare  la rivolta dei Vespri fu infatti un francese che insidiava un piatto di “colimacons”  preparato da una massaia palermitana per il marito: la parola d’ordine per individuare un francese non era “ciciri”, come erroneamente riporta Michele Amari nella sua “Storia del Vespro”, ma “babbaluci”: siccome i francesi non sanno pronunciare la “ci”, chi diceva “babbalusi” era passato a fil di spada. Affascinati dalla pietanza rimasero anche gli spagnoli, i quali, quando non riuscirono più a trovare “babosas” si misero a sucare anche la “mirudda” dei siciliani. A proposito, il termine “babosa”, per indicare la lumaca, deriva dal fatto che questa, quando cammina lascia una scia di bava, e siccome sembra una bava di luce, ecco il termine babba-luci (la spiegazione è di Andrea Camilleri). E infine Garibaldi: gran parte delle simpatie e della fortuna che egli riscosse in Sicilia fu data dal fatto che egli portò d Caprera, sul vapore “Piemonte”, un paniere con Mille “crastuna”, un nuovo tipo di babbaluciu voracissimo, ma molto robusto e succulento, che, avviato nelle campagne, presto si diffuse, al punto da eguagliare, nei consumi, con l’indigeno babbaluceddu. Sul rapporto totuccio-babbaluceddi esistono anche studi pscicanalitici: Filippo di Forti, nel suo recente libro “Psicanalisi della mafia” sostiene che per il mafioso l’onorata società altro non è che un sostitutivo, una sublimazione dell’immagine della madre, verso il cui seno egli tende a ritornare per ridare a se stesso più forza, introiettandone la potenza: pertanto il succhio del babbaluciu rappresenterebbe una regressione verso lo stadio della “fase orale” che, secondo Freud, caratterizza i primi anni di vita, attraverso la localizzazione del piacere nella bocca.

Un’ultima curiosità: sapete il perché della devozione dei palermitani per Santa Rusulia? Essa non scelse a caso di vivere nella sua famosa grotta di Monti Piddirinu: questa era il nascondiglio preferito di ogni tipo di babbaluceddi: la santa imparò a cucinarli e trasmise questa sapienza ai palermitani: è allo studio del Consiglio Comunale di Palermo un progetto di costellare la grotta della santuzza con bucce di babbaluceddi: l’opposizione sostiene che è meglio avviarvi stormi di babbaluceddi vivi, ma la cosa è rischiosa, perché si temono assalti in massa..

(S.V.)

 

Questo “saggio” è stato pubblicato nel 1986 in un giornale locale “Terrasini oggi”. Da allora, se si eccettuano internet, il cellulare e la punto, non ha perso la sua attualità

 

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