GIOVANNI MELI: Un saggio di Marco Scalabrino su Giovanni Meli. (Mimma Raspanti)

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“Mi congratulo Marco Scalabrino. Ho letto i suoi saggi che ha lasciato alla Biblioteca dei Parrini, su Alessio Di Giovanni e su Ignazio Buttitta e sono rimasto colpito e interessato sia dalla serietà dei suoi studi, sia dalla disponibilità e dall’empatia che sai creare quando recita i suoi versi. Mi spiace non averlo più rivisto e vorrei solo capire se ci sono e quali sono le motivazioni. Il suo studio su Giovanni Meli è una gradita sorpresa e cercherò di recuperarlo al più presto. E’ un poeta del quale ho introiettato l’amore per la poesia, andandomi a sedere sulla sua “seggetta” che ancora esiste a Terrasini, sopra la Grotta Perciata. Possiedo anche un’edizione vecchia e ingiallita di tutte le sue opere, dove tuttavia non ci sono le sue poesie “vastase” che ho dovuto leggere in un testo di poesie erotiche di Domenico Tempio, di Calvino e di Meli, edito dalle edizioni del “Vespro”, oggi introvabile. Poco sappiamo della sua attività di medico a Cinisi per sei anni. In ogni caso si tratta di una di quelle figure di intellettuali del passato fondamentali nella storia della lingua e della cultura siciliana.”

 

“La poesia è un terreno dove tanti seminano e pochi raccolgono, perciò parlare di poeti è un compito arduo; farlo significa cercare in mezzo a un vasto campo, tra gramigne ed erbacce varie, i fiori migliori.

Giovanni Meli è un fiore che si distingue, profumato, dai colori vivaci e questo Marco Scalabrino, saggista e poeta trapanese, lo sa bene, perciò ha aggiornato, impreziosendo la sua lista di grandi saggi, parlando di questo poeta nato a Palermo nel marzo del 1740 e, in occasione del bicentenario della morte del grande poeta siciliano, egli ha pensato bene di omaggiarlo. Così dopo anni di meticolose ricerche, di attenti studi su un personaggio di cui molti hanno disquisito e scritto, lui ha raccolto tutte le sue opere, nonché le biografie, le testimonianze e le note critiche e ne ha fatto un saggio che appassiona, illumina e conduce in un mondo complesso e bizzarro quale fu quello di questo illustre personaggio.

Il saggio è suddiviso in due parti: la prima tratta la vita, gli esordi come poeta e si sofferma sulle opere principali, quali “La fata galanti”, “Lu gigghiu”, “L’origini di lu munnu”, “La buccolica”, “Sarudda”, “Il Don Chisciotte e Sancio Panza” e infine le “Favuli murali”; la seconda parte, oltre a continuare sulla vita del grande poeta, espone una piccola raccolta di testi poetici e un interessante, quanto ampio, repertorio fotografico.

Ma andiamo per ordine: chi era Giovanni Meli?

Lo conosciamo tutti come L’abate Meli; personalmente ne avevo sentito parlare, oralmente dunque,  del suo vestirsi da religioso, della sua fama di amante della bellezza femminile e di questo ne dà conferma Marco Scalabrino: “Un dottore in erba era anche Giovanni Meli il quale, pur non essendo prete, fin dal 1761, vestiva da abate per poter visitare le monache dei monasteri delle città e frequentare le case dei nobili, che difficilmente si aprivano ai semplici borghesi” (pag. 13), e ancora “Il Meli d’altro canto, sentiva profondamente il fascino della bellezza e le donne erano il suo debole” (pag.28).

Mi stupisco però, a proposito di trasmissioni orali, di non aver trovato nulla sulle “famose” diatribe tra l’abate Meli e il poeta Petru Fudduni (voci di popolo, ovvio, poiché era impossibile che i due si sfidassero in tenzoni essendo quest’ultimo nato circa cento anni prima)… ma evidentemente per il nostro saggista è importante trasmettere solo notizie verificate e provate, lui che in quanto a precisione e pignoleria ne fa legge e compagne di verità.

Ma torniamo alla lettura della vita del “puiticchiu”, così era denominato “per la sua fresca età” (pag. 13): mi colpisce il suo approccio alla poesia grazie alla lettura dell’Orlando Furioso (mi tocca perché, personalmente, cominciai a scrivere poesie dopo aver letto la Divina commedia: non sarà contagiosa la lettura? Osservazione vanitosa o vana…), da lì il suo sentirsi poeta: “Un giorno uno zio, forse Andrea Meli, gli diede da leggere l’Orlando furioso, dell’Ariosto”. […] leggendo una notte quel poema, e addormentandosi, proseguì di sua fantasia a creare ottave. Svegliatosi, ritenne a memoria quelle che aveva composte e le trascrisse; talché si persuase sin da allora di esser nato poeta” (pag. 9) fonte Alessio Di Giovanni (c’è da dire anche questo: Marco Scalabrino cita tutte le fonti da dove ha tratto le sue informazioni e ciò rende l’opera totalmente affidabile).

Il Meli, ci informa il nostro saggista, riportando diversi pareri contrastanti, preferì la lingua siciliana a quella italiana “il siciliano era allora considerato una lingua e non un dialetto, gareggiava nel campo della poesia con il toscano, […] il Meli pertanto, sostiene Alessio Di Giovanni, stentava a parlare in italiano” (pag. 21). Riporta di contro “Giuseppe Selvaggio, un chirurgo palermitano amante della poesia, […] che il Meli cominciò a scrivere versi a quindici anni e unicamente in siciliano” (pag. 23), per altri biografi citati nel saggio “abbandonò la lingua per il dialetto per seguire forzatamente un ‘consiglio’ del principe di Campofranco”.

Continuando la lettura del saggio, mi lascio trascinare dalla scrittura fluida, come già detto ricca di informazioni documentate ma priva di considerazioni personali, nessun commento a contornare l’opera, ciò le dà toni accademici ma non freddi, anzi talvolta emotivamente coinvolgenti: “Vede a stento, le mani gli tremano, qualche verso a volte gli frulla nel capo, ma non potendo metterlo su carta da sé lo detta a Gaetana Torre, sempre affettuosa e paziente col vecchio poeta […] ma l’avversa fortuna doveva perseguitare il poeta fino all’ultimo […], il Meli era morto in miseria” (pag. 89).

Il 20 dicembre 1815, infatti, moriva “uno degli intelletti più alti della Sicilia […] un poeta superiore, anzi un filosofo” (pag. 107).

Non starò qui a soffermarmi ancora su altre informazioni riferite in questo prezioso saggio per non togliervi il piacere della lettura, mi piace ricordare in ultima battuta una sua poesia che lessi da bambina in un vecchio libro di mio nonno e che trovo qui riportata a carezzare i miei ricordi più belli:

LU SURCI E LU RIZZU

Giovanni Meli

Facìa friddu, ed un surci ‘ngriddutizzu

Mentri stava tra la tana ‘ncrafucchiatu,

Senti a la porta lamintari un rizzu

Chi ci dumanna alloggiu, umiliatu:

“Jeu, dici, ‘un vogghiu lettu, né capizzu;

Mi cuntentu di un angulu o di un latu.

O mi mettu a li pedi ’mpizzu ‘mpizzu,

Basta chi sia da l’aria riparatu”.

Lu surci era bon cori e spissu tocca

A li bon cori agghiùttiri cutugna;

Su’ assai l’ingrati chi scuva la ciocca!

Trasi lu rizzu, e tantu si cc’incugna

Chi pri li spini lu surci tarocca,

E dispiratu da la tana scugna:

E dicchiù lu rampugna

L’usurpaturi, e jia gridannu ancora:

“Cu’ punciri si senti nèsci fora”.

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