I poeti che strane creature…….

 

poesia 3
Ci sono poeti, poetuncoli, poetastri. Poeti di razza e sottoprodotti di incroci bastardi, poeti originali e scopiazzatori di versi, poeti che, nel loro interno hanno scavato laghi di dolore o di gioie e verseggiatori bravi nell’uso della parola come strumento del nulla, geni e cose inutili, trasmettitori di stupore  ed esperti d’insignificanza. Cultori del contenuto, cultori della forma, cultori della perfetta sintesi tra contenuto e forma. Poeti dai quali la poesia sgorga come una sorgente naturale, con tutta la sua freschezza e  spontaneità, poeti che hanno affinato nel tempo la propria tecnica espressiva riuscendo a maturare un verso o una riflessione con lunghe ricerche in cui possano essere mediate la musicalità e l’intensità del sentire. Sino a qualche secolo fa si era poeti solo se si era verseggiatori, se si era capaci di adattare la rima, di costruire il sonetto, l’ottava, le terzine, l’endecasillabo, il distico, la strofa, la canzone, il tetrametro trocaico ecc. Oggi questo vincolo è saltato o può servire solo a qualche verseggiatore che abbia voglia di giocare o di cementarsi con gli antichi strumenti espressivi.

La metafora costituisce la via d’accesso principale al mondo del poeta:

“Nessuno capiva il profumo dell’oscura magnolia del tuo ventre”:

e dietro questa trasposizione di Lorca si aprono miriadi d’immagini in cui sesso, fiori, profumi, si mescolano in un insieme che va oltre ogni immaginazione.

“Nessuno sapeva che martirizzavi un colibrì d’amore tra i tuoi denti” :

una raffigurazione dell’altro sesso che porta con sé la leggerezza delle ali, la voglia di volare verso i segreti più nascosti, l’acme del piacere che quasi diventa sofferenza.

Potremmo passare al dantesco “quali colombe dal disio chiamate”, al foscoliano “e le segrete- vie del mio cor” o al leopardiano “ limitar di gioventù ” o alla montaliana “sonnolenza del meriggio”.Poesia download

La configurazione di un’immagine affine in cui trasporre il dato che si presenta sotto gli occhi e si esprime nel suo vocabolo, nel “significante”, può raggiungere cime altissime in cui la fantasia si lega con il filo della comparazione che spesso esaspera il significato nascosto di ciò che si vuol dire e lo trasferisce in una dimensione in cui lo spazio di conquista o il tracciato di una rappresentazione onirica raggiunge livelli ipertrofici per tornare entro i limiti di chi si è avventurato in questi orizzonti e ripartire alla conquista di altre associazioni. Non è facile mediare “il mestiere di vivere” col “mestiere del poeta”, anche perchè non sempre quello del poeta è un mestiere. Ci si può perdere nell’imbrunire, nella sfumatura rapidamente cangiante d’un tramonto paragonando il proprio bisogno di quiete con lo scendere delle ombre, oppure cercare di sprofondare nel “l’ora in cui le cose sono vicine a svelarti il loro ultimo segreto” (Montale), sentire i sospiri rauchi di questo ignoto che allenta i suoi vincoli prima di abbandonarsi al buio in cui niente è più leggibile. Oppure lanciarsi nella descrizione degli arabeschi disegnati dalle nuvole e dalle metamorfosi cromatiche. Esteriorità e dimensioni interne sono gli elementi di una spirale in cui si sfaldano i sentimenti e si amalgamano le tensioni spesso per la costruzione di un prodotto che può avere un destinatario esterno o può appartenere solo a chi lo realizza. E’ la divina “poiesis”,  il fare, il dare corpo al sentire, il rendere cosa ciò che è soltanto un’idea :ed è ciò che giustifica la condanna platonica della poesia , ma che nel contempo la rende proprietà di tutti, la fa uscire dalla “caverna” e ve la fa rientrare potenziata dalla luce dell’autenticità.

E’ vero, non si potrà mai comunicare l’ampiezza e la ricchezza del sentire e non credo che sia possibile far diventare proprietà comune ciò che appartiene,   gelosamente alla propria soggettività: qui sta l’angoscia e la salvezza del poeta: “non si saprà mai se il proprio piacere è condiviso” direbbe Pavese, ma si finisce con il fermarsi su una soglia in cui non si ha voglia di fare entrare nessuno, malgrado la disponibilità a tenerne  spalancato il primo accesso.

Oggi l’immagine può essere riprodotta, mutuata, arrangiata da una cinepresa  e ciò ha comportato la crisi della poesia descrittiva rispetto all’immediatezza della comunicazione visiva. L’occhio che cattura la proiezione è più rapido di quello che deve passare dalla lettura della parola per riempirla di significato, prima di trasmetterla al cervello. Ma quanto, rispetto all’apparire, alla rappresentazione, al fenomeno, è nascosto in una dimensione noumenica più intima e più profonda? Quanto, l’arte del recitare è la chiave di lettura dell’anima di chi recita?

C’è  un’altra considerazione: in tutta la letteratura occidentale l’accesso al mondo della poesia è in gran parte determinato dal “pathos”: si trasforma più facilmente  in poesia ciò che ha a che fare con il dolore, con la sofferenza intima, con la macerazione del sentimento: la gioia, la serenità, la soddisfazione difficilmente sono riducibili in versi, forse perchè si preferisce vivere e godere direttamente questi sentimenti e questi momenti, senza l’urgenza o lo stimolo a trasformarli in reperti scritti o in disegni letterari.

L’adolescenza e la giovinezza, senza volere ricorrere ad analisi crociane, sono i momenti in cui la poesia è più vicina, forse per il bisogno di trovare un momento espressivo non banale, oppure per la scoperta di un sentimento e lo snodarsi e svelarsi delle sue articolazioni. Poi si diventa pratici, dispersi in un mare di  altri interessi e problematiche che hanno più a che fare con l’esterno e con rapporti trans-emotivi, il rapporto con il verso si insterilisce sino ad avvertirne fastidio.

C’è ancora un futuro per la poesia?  I nobel vengono generalmente attribuiti ai romanzieri e  la prosa sembra il modulo espressivo più facile, più articolato e più fruibile da parte del lettore. Del poeta d’un tempo, sia di quello impegnato civilmente, sia del lirico, sia del sapiente descrittore delle bellezze naturali, è rimasto ben poco, fagocitato dall’urgenza di trovare il prodotto già pronto che non ti costringa a sforzi mentali.

Carducci dice che “il poeta, o vulgo sciocco, un pitocco non è già”, mentre De Gregori e De Andrè cantano: “I poeti che strane creature, ogni volta che parlano è una truffa”. Ma è  una truffa la poesia delle loro canzoni, o un veicolo di emozioni?  Gli editori ormai lo ripetono come un ritornello ai giovani  che chiedono di pubblicare i loro versi: “Carmina non dant panem”. Così era anche duemila anni fa e da allora i “carmina” sono sopravvissuti conquistando a fatica, ma inesorabilmente il loro spazio e il loro profumo d’immortalità. E poi, perchè non illudersi, da poeti, che oltre la crisi non possa nascere una nuova stagione?

Ci sono poeti, poetuncoli, poetastri. Poeti di razza e sottoprodotti di incroci bastardi, poeti originali e scopiazzatori di versi, poeti che, nel loro interno hanno scavato laghi di dolore o di gioie e verseggiatori bravi nell’uso della parola come strumento del nulla, geni e cose inutili, trasmettitori di stupore  ed esperti d’insignificanza. Cultori del contenuto, cultori della forma, cultori della perfetta sintesi tra contenuto e forma. Poeti dai quali la poesia sgorga come una sorgente naturale, con tutta la sua freschezza e  spontaneità, poeti che hanno affinato nel tempo la propria tecnica espressiva riuscendo a maturare un verso o una riflessione con lunghe ricerche in cui possano essere mediate la musicalità e l’intensità del sentire. Sino a qualche secolo fa si era poeti solo se si era verseggiatori, se si era paci di adattare la rima, di costruire il sonetto, l’ottava, le terzine, l’endecasillabo, il distico, la strofa, la canzone, il tetrametro trocaico ecc. Oggi questo vincolo è saltato o può servire solo a qualche verseggiatore che abbia voglia di giocare o di cementarsi con gli antichi strumenti espressivi.

La metafora costituisce la via d’accesso principale al mondo del poeta:

“Nessuno capiva il profumo dell’oscura magnolia del tuo ventre”:

e dietro questa trasposizione di Lorca si aprono miriadi d’immagini in cui sesso, fiori, profumi, si mescolano in un insieme che va oltre ogni immaginazione.

“Nessuno sapeva che martirizzavi un colibrì d’amore tra i tuoi denti” :

una raffigurazione dell’altro sesso che porta con sé la leggerezza delle ali, la voglia di volare verso i segreti più nascosti, l’acme del piacere che quasi diventa sofferenza.

Potremmo passare al dantesco “quali colombe dal disio chiamate”, al foscoliano “e le segrete- vie del mio cor” o al leopardiano “ limitar di gioventù ” o alla montaliana “sonnolenza del meriggio”.

La configurazione di un’immagine affine in cui trasporre il dato che si presenta sotto gli occhi e si esprime nel suo vocabolo, nel “significante”, può raggiungere cime altissime in cui la fantasia si lega con il filo della comparazione che spesso esaspera il significato nascosto di ciò che si vuol dire e lo trasferisce in una dimensione in cui lo sole rosso
spazio di conquista o il tracciato di una rappresentazione onirica raggiunge livelli ipertrofici per tornare entro i limiti di chi si è avventurato in questi orizzonti e ripartire alla conquista di altre associazioni. Non è facile mediare “il mestiere di vivere” col “mestiere del poeta”, anche perchè non sempre quello del poeta è un mestiere. Ci si può perdere nell’imbrunire, nella sfumatura rapidamente cangiante d’un tramonto paragonando il proprio bisogno di quiete con lo scendere delle ombre, oppure cercare di sprofondare nel “l’ora in cui le cose sono vicine a svelarti il loro ultimo segreto” (Montale), sentire i sospiri rauchi di questo ignoto che allenta i suoi vincoli prima di abbandonarsi al buio in cui niente è più leggibile. Oppure lanciarsi nella descrizione degli arabeschi disegnati dalle nuvole e dalle metamorfosi cromatiche. Esteriorità e dimensioni interne sono gli elementi di una spirale in cui si sfaldano i sentimenti e si amalgamano le tensioni spesso per la costruzione di un prodotto che può avere un destinatario esterno o può appartenere solo a chi lo realizza. E’ la divina “poiesis”,  il fare, il dare corpo al sentire, il rendere cosa ciò che è soltanto un’idea :ed è ciò che giustifica la condanna platonica della poesia , ma che nel contempo la rende proprietà di tutti, la fa uscire dalla “caverna” e ve la fa rientrare potenziata dalla luce dell’autenticità.

E’ vero, non si potrà mai comunicare l’ampiezza e la ricchezza del sentire e non credo che sia possibile far diventare proprietà comune ciò che appartiene,   gelosamente alla propria soggettività: qui sta l’angoscia e la salvezza del poeta: “non si saprà mai se il proprio piacere è condiviso” direbbe Pavese, ma si finisce con il fermarsi su una soglia in cui non si ha voglia di fare entrare nessuno, malgrado la disponibilità a tenerne  spalancato il primo accesso.

Oggi l’immagine può essere riprodotta, mutuata, arrangiata da una cinepresa  e ciò ha comportato la crisi della poesia descrittiva rispetto all’immediatezza della comunicazione visiva. L’occhio che cattura la proiezione è più rapido di quello che deve passare dalla lettura della parola per riempirla di significato, prima di trasmetterla al cervello. Ma quanto, rispetto all’apparire, alla rappresentazione, al fenomeno, è nascosto in una dimensione noumenica più intima e più profonda? Quanto, l’arte del recitare è la chiave di lettura dell’anima di chi recita?

C’è  un’altra considerazione: in tutta la letteratura occidentale l’accesso al mondo della poesia è in gran parte determinato dal “pathos”: si trasforma più facilmente  in poesia ciò che ha a che fare con il dolore, con la sofferenza intima, con la macerazione del sentimento: la gioia, la serenità, la soddisfazione difficilmente sono riducibili in versi, forse perchè si preferisce vivere e godere direttamente questi sentimenti e questi momenti, senza l’urgenza o lo stimolo a trasformarli in reperti scritti o in disegni letterari.Poesia 2

L’adolescenza e la giovinezza, senza volere ricorrere ad analisi crociane, sono i momenti in cui la poesia è più vicina, forse per il bisogno di trovare un momento espressivo non banale, oppure per la scoperta di un sentimento e lo snodarsi e svelarsi delle sue articolazioni. Poi si diventa pratici, dispersi in un mare di  altri interessi e problematiche che hanno più a che fare con l’esterno e con rapporti trans-emotivi, il rapporto con il verso si insterilisce sino ad avvertirne fastidio.

C’è ancora un futuro per la poesia?  I nobel vengono generalmente attribuiti ai romanzieri e  la prosa sembra il modulo espressivo più facile, più articolato e più fruibile da parte del lettore. Del poeta d’un tempo, sia di quello impegnato civilmente, sia del lirico, sia del sapiente descrittore delle bellezze naturali, è rimasto ben poco, fagocitato dall’urgenza di trovare il prodotto già pronto che non ti costringa a sforzi mentali.

Carducci dice che “il poeta, o vulgo sciocco, un pitocco non è già”, mentre De Gregori e De Andrè cantano: “I poeti che strane creature, ogni volta che parlano è una truffa”. Ma è  una truffa la poesia delle loro canzoni, o un veicolo di emozioni?  Gli editori ormai lo ripetono come un ritornello ai giovani  che chiedono di pubblicare i loro versi: “Carmina non dant panem”. Così era anche duemila anni fa e da allora i “carmina” sono sopravvissuti conquistando a fatica, ma inesorabilmente il loro spazio e il loro profumo d’immortalità. E poi, perchè non illudersi, da poeti, che oltre la crisi non possa nascere una nuova stagione?

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