IL 25 APRILE NON E’ IL 4 NOVEMBRE (Stefano Avanzini)
Pubblico questo brano inviatomi da un mio collega, che attualmente insegna in Germania, il prof. Stefano Avanzini, a commento delle esilaranti sparate degli ultimi “avanzi” del fascismo Italiano, a partire dai camerati La Russa e Meloni per finire con il loro compagno di merenda Salvini, che vorrebbero festeggiare la liberazione dal corona virus oppure il trionfo dell’Italia unita ma il 4 novembre. Poverini, proprio non ce la fanno a ingoiare il rospo di un’Italia antifascista nata dalla Resistenza così come non riescono a distinguere la differenza tra le vittime degli aggressori nazifascisti, morte per la libertà, e i loro carnefici che, con tutta la loro ferocia, alla fine l’hanno presa in quel posto. Ancora più stupida sembra l’ avversione nei confronti di “Bella Ciao”, una canzone che cantano in tutto il mondo e che qualche giorno fa persino i pompieri inglesi ci hanno cantato per salutarci. (S.V.)
La Melonessa d’Italia – al secolo Giorgia Meloni – non perde occasione per ricordarci che lei, la storia, l’ha studiata: e così, dopo averci informato – noi e quel rubastipendi del Direttore del Museo Egizio di Torino – che le Piramidi non sono state costruite dagli Arabi (e nemmeno, aggiungiamo noi, da Greci, Romani e Bizantini) ma dagli Egizi, ora ci informa che in Italia, dopo il 3 o l’8 settembre o magari dopo il 13 ottobre in Italia c’è stata una guerra civile, in cui a combattere da una parte c’erano italiani e dall’altra altri italiani, e dunque il 25 aprile non può essere la festa nazionale di tutti gli Italiani, perché sarebbe una festa divisiva. Meglio sostituirla – non eliminarla, per carità, a tanto non arriviamo – con un’altra festa, che possa essere davvero la festa di tutti gli Italiani, compresi quelli all’estero, quelli i cui nonni e bisnonni e trisnonni migrarono nelle Americhe o in Oceania prima che si muovesse la Grande Proletaria o che l’Uomo del Destino procurasse al nostro disgraziato Paese “un posto al sole”: e quale potrà mai essere questa festa? Certo, non il 28 ottobre, data che un pochino divisiva, magari, lo è stata pure lei – come la Melonessa d’Italia ha dovuto ammettere fra sé e sé un poco a malincuore – ma quella del 4 novembre, la data della grande vittoria, ancorché mutilata dal tradimento delle classi dirigenti e dei perfidi – in senso etimologico – alleati europei, quella sì che ha tutti i crismi e i bolli sovranisti della festa di tutti gli Italiani degni di questo nome.
La Melonessa ci perdonerà, ma avremmo da interporre qualche pallida e sparuta obiezione, così, a nome di Clio (non Clio Goldsmith o Clio Maria Bittoni, musa personale di Sua Maestà Re Giorgio, ma proprio la Musa Musa, quella della Storia):
– il 25 aprile festeggia una vittoria alla fine di una guerra civile, nulla di sbagliato come negarlo, dunque non può essere che divisiva: ma la Grande Vittoria del 4 novembre 1918, conviene ricordare, non viene a rifulgere di gloria su un’Italia affratellata da un comune sentire verso quella guerra, se in quel fatidico 23 maggio 1915, in un’Italia divisa in parti ineguali tra interventisti e non interventisti, fu il governo Salandra – alla faccia di quel popolo sovrano di cui i sovranisti di oggi si riempiono tanto la bocca, dimenticando che fu la Costituzione repubblicana del 1 gennaio 1948, figlia di quel 25 aprile, a sancire il principio – a decidere, contro la maggioranza neutralista dell’opinione pubblica, per la dichiarazione di guerra all’Austria – ma bizzarramente non contro il Reich guglielmino, con quale lungimiranza sarà un giorno Caporetto a chiarirlo – contro la maggioranza neutralista dell’opinione pubblica, quella oggi tanto coccolata dai sondaggi, secondo una tradizione, peraltro, già da prima inveterata – 20 giugno 1866, dichiarazione di guerra all’Austria-Ungheria, fulgido esempio di inglorioso (Custoza e Lissa doceant) reggicodismo politico-diplomatico – e in futuro consolidata – 10 giugno 1940, maramaldesca pugnalata ad una Francia ormai alla vigilia della resa all’invasore nazista, altrettanto fulgido esempio, stavolta, di sciacallaggio sulle macerie, nonché, da ultimo, 13 ottobre 1943, dichiarazione di guerra all’ex alleato germanico – che ci ha visto di solito attaccarci postumamente al carro delle guerre altrui ogni volta che, con un opportunismo che non ci ha fatto particolarmente onore davanti alle altre nazioni europee e non solo, ci è parso di capire quale sarebbe stato il carro del vincitore (“Gli Italiani sono sempre pronti ad accorrere in soccorso del vincitore”, scriveva un tempo la penna al vetriolo di Ennio Flaiano), senza farci scrupolo di tradire contratti d’alleanza sanciti non, come insegnava il patron del Bologna Calcio, il mitico presidente Dall’Ara, sul tovagliolo del ristorante, ma al fin y al cabo di lunghe ed estenuanti ufficialissime trattative diplomatiche: ed eccoci con la poco onorevole nomea di pugnalatori alle spalle, nel 1915 con l’Impero austro-ungarico, nel 1940 con la Francia, nel 1943 – per fortuna: qualche volta il pugnale è benemerito – con l’ex-alleato nazista. Davvero vorremo pensare che il 4 novembre sia stata allora, possa essere ora la festa di tutti gli Italiani? Dei tanti fra quei 600.000 coscritti caduti per una causa che nemmeno conoscevano, mandati criminalmente al macello a colpi di assalti suicidi alle trincee nemiche e decimazioni da generali tanto boriosamente avidi di carriera quanto strategicamente e tatticamente inetti? Dei tanti fantaccini fucilati per autolesionismo, a dimostrazione del sacro fuoco patriottico che animava i 600.000 Enrico Toti del nostro esercito? Di quei 100.000 prigionieri di guerra lasciati criminalmente e deliberatamente a morire di fame dai nostri vertici militari con la denuncia di quegli accordi internazionali sui prigionieri di guerra che consentivano l’invio di pacchi di generi alimentari a loro destinati, con la speciosa motivazione che ciò avrebbe fiaccato lo spirito combattivo – quale? – dei soldati in trincea moltiplicando i casi di diserzione e di resa al nemico? O non piuttosto, invece, di quegli industriali imboscati nelle loro officine a contare gli immensi profitti di un’economia di guerra che in nome del supremo interesse della Patria ha azzerato per anni qualunque diritto sindacale e messo la museruola a qualunque rivendicazione dei lavoratori e – soprattutto – di lavoratrici più che mai indifese di fronte alle pretese dei ‘padroni del vapore’, come lavoratrici e come donne? Sarebbe questa la festa non divisiva capace di unire tutti gli Italiani e le Italiane, compresi i figli e i nipoti di quei 600.000 caduti dando l’assalto alle trincee nemiche o fucilati per insubordinazione o autolesionismo, di quei 100.000 morti d’inedia nei campi di prigionia austro-ungarici? O dei figli e nipoti di quegli industriali, che oggi contano gli immensi profitti di un’economia delocalizzata e globalizzata che i sedicenti sovranisti di oggi tacciano di turbocapitalismo e pretendono di combattere a colpi di sovranità all’ombra di Putin e Trump, notori paladini dell’autodeterminazione dei popoli del tutto immuni da tentazioni d’impero, con l’alleanza dei Signori di Visegrad, campioni mondiali di economie nazionali gonfiate a colpi di finanziamenti UE e di diritti dei lavoratori fatti strame per far decollare economia e occupazione attirando investitori esteri beatamente felici di chiudere aziende nazionali da delocalizzare in questi paradisi desindacalizzati? Se la tenga questa festa, la Melonessa d’Italia: noi di questa festa non sappiamo che farcene;
– il 25 aprile ha messo la parola fine a una guerra civile, combattuta da Italiani contro Italiani, mica come quella Guerra Sacra (non diremo Santa, il sintagma puzza troppo di Islàm e sharia) in cui il 4 novembre ha finalmente redento le terre da sempre italiane: pure, anche in quella guerra, nelle trincee austro-ungariche c’erano soldati austriaci, cechi, slovacchi, ungheresi, sloveni, croati, ma pure soldati italiani, nati e vissuti a Trento, a Trieste, a Gorizia, Pola, Fiume, soldati che parlavano italiano come i loro dirimpettai di trincea. Che anche questa sia stata, un pochino, una specie di guerra civile, in cui Italiani hanno versato sangue italiano? Una guerra in cui, nonostante le censure e le misure draconianamente deterrenti degli Stati maggiori dell’una e dell’altra parte, furono frequenti i casi di fraternizzazione col nemico, le tregue spontanee di Natale, ad esempio, sul fronte italo-austriaco come su quello franco-tedesco, perché, forse, questo sacro fuoco nazionalpatriottico ardeva molto più nei cuori degli imboscati nelle retrovie, nelle redazioni giornalistiche, nei gabinetti ministeriali o sugli scranni parlamentari che non nelle trincee della prima linea del fronte, dove era la morte quotidiana insensata ed inutile a insegnare cosa fosse veramente la guerra?
– il 25 aprile 1945, dunque, è divisivo, certo, non più e non diversamente dal 4 novembre 1918: ma c’è di più. Se Montesquieu dal 1748, anno di pubblicazione del suo Esprit des Lois, ha potuto prendere piede nel Belpaese, è solo grazie alla Costituzione repubblicana del 1 gennaio 1948, figlia, come già ricordato, di quel divisivo 25 aprile: altrimenti, si torni allo Statuto Albertino, a quella drole de constitution mutilata della sua terza gamba, con una magistratura asservita al potere esecutivo – e le riforme del Testa di Morto non faranno che accentuarne la dipendenza, reintroducendo contro ogni forma di elementare civiltà la barbarie della pena di morte, non a caso dura a morire, nelle teste di chi si accende al sacro fuoco degli immarcescibili valori delle Forze Armate, nel Codice Penale Militare, dal quale è stata cancellata solo nel 1997, grazie ad una delle tante benemerite campagne di civiltà dell’allora Partito Radicale -, con una Camera del Senato nominata dal Sovrano – ma questo forse non dispiacerà ai tanti sovranisti nostrani, così entusiasticamente corrivi a quelle tre successive riforme elettorali che pervicacemente e diabolicamente, contro le sentenze della Consulta, riconfermano il principio del parlamentare nominato non dal Sovrano, no, dal leader del partito, col grazioso contorno, magari, dell’introduzione del vincolo di mandato per ipocrita e demagogica concessione al principio di un popolo sovrano sovranamente gabbato -, e magari, perché no, rimettendo indietro le lancette della Storia al ’48 buono, quello vero, quello del 3 marzo 1848, con un suffragio tornato finalmente censitario, come nella Francia dell’Anno III dopo la sbornia ultrademocratica dell’Anno I, contro le fumisterie pseudodemocratiche del suffragio universale, assegnando diritti politici attivi e passivi a chi se li merita, a chi produce un reddito e ha un imponibile da mettere sul tavolo, purché, si badi, con una bella flat tax che non falcidi i sudati profitti da lavoro di chi, nella locomotiva economica d’Italia, veramente lavora e produce la ricchezza della nazione. Facciamolo, signora Melonessa: torniamo al salvifico Statuto. E lei, naturalmente, avrà tutto il tempo di accudire la sua figlioletta, da quella italica madre felice di dare figli alla Patria che tanto piaceva al suo amato Benito: già, perché, in caso lo avesse dimenticato, a proposito di divisività vere o presunte, buone o cattive, prima di quel divisivo 25 aprile, lei, donna, in Italia, mica ci andava a votare, e figuriamoci se avrebbe mai potuto candidarsi a una Camera. Certo, messa così, quasi quasi… ma no, in fin dei conti, perché milioni di donne dovrebbero pagare questa tassa, solo per avere un’idiota di meno in Parlamento?
E, last not least, giacchè parliamo di mutilazioni, lei che accampa tanta frequentazione con la Storia, che mi dice della ‘Vittoria mutilata’? Già, perché vede, sono in tanti a pensare che a mutilarla davvero, quella vittoria, dopo la vergogna di Versailles e prima di quella di Osimo, è stato un certo Benito Mussolini, quando il suo gardesano governo fantoccio consegnò all’alleato nazista e ai suoi Gauleiter germanici, anzi austriaci, del Tirolo e della Carinzia o della Slovenia, come l’austro-ungarico Odilo Globocnik, emerito amministratore di San Sabba dopo la brillante gestione di Belzec, Sobibor e Treblinka, la Zona d’operazioni delle Prealpi (Trento, Bolzano e Belluno: roba da far rivoltare Garibaldi, Cesare Battisti, Fabio Filzi e Damiano Chiesa nella tomba) e la Zona d’operazioni del Litorale Adriatico (Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana: e anche qua ci immaginiamo i salti di gioia ipogei di Guglielmo Oberdan e Nazario Sauro), con tanti saluti ai 600.000 italiani morti per Trento e Trieste, in primis il fraterno amico e sodale di un tempo Filippo Corridoni.
Lo pensa anche lei, o ci ammannirà un altro luminoso esempio di doveroso e scientificissimo revisionismo storico-eortologico?