Il colonnello Giuseppe Russo 40 anni dopo la sua morte
Il 20 agosto è stato ricordato l’omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, ucciso 40 anni fa, nel 1977 assieme all’insegnante Filippo Costa, mentre passeggiava nel piccolo borgo corleonese di Ficuzza. Su di lui, come su tanti altri esponenti delle forze dell’ordine, da Subranni al maresciallo Lombardo, ne sono state dette di tutti i colori, sino addirittura a insinuare di possibili contatti con la mafia o di una gestione “terroristica” del dissenso politico di sinistra, condotta secondo direttive ispirate da Carlo Alberto Dalla Chiesa. Secondo il pentito A. Calderone era un confidente capomafia di Riesi Giuseppe Di Cristina, che si sarebbe opposto al suo omicidio. Stessa accusa viene anche fatta su possibili rapporti con Gaetano Badalamenti, boss di Cinisi e alleato di Di Cristina. Troviamo il nome di Russo in una serie di vicende, dalle indagini sul delitto Mattei a quelle sul procuratore Scaglione,, ma soprattutto nel caso dei due carabinieri uccisi alla casermetta di Alcamo Marina, scambiato per un attentato terroristico, con l’arresto di alcuni che non c’entravano niente, compreso un tal Gullotta che si trovò a scontare 22 anni di carcere reo confesso sotto tortura, prima di essere riconosciuto innocente. In quella occasione si procedette a perquisizioni presso le case dei compagni di Lotta Continua di Alcamo e di Cinisi, compresa la casa di Peppino Impastato. La sua “riabilitazione” è avvenuta negli anni, dopo il conferimento della medaglia d’oro al valor civile.
Nel ricordo di Russo ecco un articolo di Antonio Roccuzzo scritto il 30 settembre 2014 e, in gran parte emendato dalle accuse e dai sospetti di cui Russo fu fatto oggetto:
“La cronaca (e la storia) del dopoguerra in Italia è disseminata di “misteri”, protocolli riservati, patti segreti, strette di mano occulte. Ed è disseminata di “indicibili intrecci” in particolare sul fronte della lotta dello Stato alla mafia.
Noi parliamo ora, e da un paio di anni, della Trattativa Stato-mafia legata alla stagione delle stragi del 1992. Ma ci sono storie ed episodi che raccontano già nei decenni precedenti l’ombra della medesima continuità della pratica di “scambi” indicibili tra apparati e capimafia. In nome della pace sociale e dello status quo, pezzi degli apparati dello Stato hanno da sempre praticato la politica del baratto con i boss. E alcuni protagonisti di quelle pericolose relazioni ritornano in scena nei decenni e forse non sono mai usciti.
Esempio: prendiamo l’omicidio del colonnello Giuseppe Russo, alto ufficiale e investigatore di punta dei carabinieri, ucciso nella piazza di Ficuzza (vicino a Corleone) il 20 agosto 1977. Russo era uno tosto: indagava sul “mistero” della morte di Enrico Mattei e sulla stagione delle stragi mafiose a Palermo e provincia: anche allora, per dirimere i conflitti interni all’organizzazione, i mafiosi corleonesi e i palermitani si piazzavano autobombe (Giuliette Alfa Romeo per l’esattezza) e così risolvevano i loro conflitti.
Russo era stato collaboratore del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, negli anni 50 capitano a Corleone. Russo e Dalla Chiesa avevano iniziato a interrompere lo “scambio” indicibile per il quale, a fronte di notizie o di qualche arresto per “fare bella figura”, le forze dell’ordine si accontentavano di avere “pace sociale” sui territori. Niente omicidi, niente indagini: questa la sintesi del patto. Finché durava, non c’erano delitti, si arrestavano ladri e piccoli furfantelli, ma senza molestare traffici e indagare sulle relazioni tra politica, imprese e mafia.
Per decenni, la scena era stata questa: i vescovi che negano l’esistenza della mafia, i procuratori della Repubblica e i giudici di Corte d’Assise che alla fine assolvevano i mafiosi per insufficienza di prove (che nessuno cercava). Gli unici che facevano casino erano i capipopolo che occupavano la terra e si battevano per i diritti dei contadini e per questo molti di loro erano gli unici ad essere uccisi (vedi la strage di Portella e poi i delitti dei sindacalisti Corrado Carnevale e Placido Rizzotto). Questa è stata la storia dei 25 anni che in Sicilia seguirono alla seconda guerra mondiale.
Se un carabiniere si metteva in testa di “rompere” quel tacito patto di non belligeranza, rischiava. Russo lo fece, non si accontentò solo di fare qualche arresto: indagava sul caso Mattei, ma si era messo in testa anche di scoprire gli affari economici dei corleonesi e voleva capire le nuove relazioni e il nuovo patto tra i corleonesi e la nuova classe politica e le imprese.
Quello del colonnello Russo fu forse il primo delitto di alta mafia. E tuttavia, grazie alle lacunose e frettolosissime indagini dei suoi colleghi, per quel delitto furono imputati e condannati un gruppo di pastori e qualche balordo ai confini dei sistema mafioso. Le motivazioni del delitto? Risibili, piccole storie locali.
Vent’anni dopo quel delitto, nel 1997, gli imputati saranno prosciolti e l’intera cupola di Cosa nostra (Riina, Provenzano, Bagarella e così via), saranno indagati e processati. E saranno accertati i depistaggi degli apparati di intelligence per coprire le ragioni di quel delitto. Perché il colonnello Russo aveva infranto la “prassi” antica e consolidata della trattativa o dei patti scellerati tra Stato e mafia.
Ecco come ricordò quella tragica sera del 1977 il giornalista Mario Francese, sul “Giornale di Sicilia”, all’indomani dell’omicidio:
“Al bar entrò soltanto Russo per fare una telefonata, Costa attese fuori. Un minuto dopo i due amici riprendevano la loro passeggiata… Nello stesso momento vi fu chi si accorse di una ’128’ verde che procedeva lentamente per il viale principale, evidentemente controllando i movimenti di Russo e Costa… L’auto continuò la sua marcia fino alla parte alta della piazza, effettuò una conversione ad ’U’ e si fermò proprio davanti all’abitazione del colonnello Russo. I due amici erano vicini alla macchina degli assassini. Non se ne resero conto. Non potevano. Si fermarono, Russo tirò fuori dal taschino della camiciola una sigaretta e dalla tasca dei pantaloni una scatola di ’Minerva’. Russo non ebbe il tempo di accendere la sua ultima sigaretta.
Erano le 22,15. Dalla 128 scesero tre o quattro individui, tutti a viso scoperto. Lentamente, per non destare sospetti, camminavano verso i due.
Appena furono vicini aprirono il fuoco con le calibro 38. Sparavano tutti contro Russo, tranne uno, armato di fucile che aveva il compito di uccidere Costa. Erano killer certamente molto tesi. Al punto che uno di loro lanciandosi contro Russo per finirlo, gli cadde addosso. Si rialzò immediatamente e, come in preda ad un raptus, imbracciò il fucile sparando alla testa. Fu il colpo di grazia. Il killer voleva essere certo che l’esecuzione fosse completa e mirò anche alla testa dell’insegnante Filippo Costa. Fu il secondo colpo di grazia.
Si poteva andar via. Ma l’ultimo killer nella fuga perse gli occhiali che saranno ritrovati sotto il corpo senza vita del colonnello Russo.
Ci si convinse subito che si trattava di un duplice delitto di mafia. Un agguato preparato nei dettagli almeno da 26 giorni. La 128, trovata abbandonata a tre chilometri da Ficuzza, è stata rubata infatti a Palermo il 25 luglio, appunto 26 giorni prima. Non sarebbe stato più semplice per la mafia uccidere il colonnello Russo «in via Ausonia sotto casa a Palermo e il professor Costa a Misilmeri, dove abitava?– si chiede ancora il giornalista- No, perché la mafia voleva un’esecuzione spettacolare ed esemplare”
Per l’omicidio del tenente colonnello e del suo amico professore furono inizialmente condannati tre pastori: Salvatore Bonello, Rosario Mulè e Casimiro Russo; quest’ultimo, autoaccusatosi, aveva chiamato in causa gli altri due; ma nel ‘97 vengono assolti e la II sezione della Corte di Assise di Appello di Palermo condanna definitivamente all’ergastolo Leoluca Bagarella, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano per l’assassinio di Giuseppe Russo e Filippo Costa.
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