Il Deus ridens di Dario Fo
di Michele Martelli
Dario Fo era ateo, l’aveva dichiarato ripetutamente, nato e cresciuto in una famiglia di tradizioni laiche e socialiste, mai stato credente: un ateo anarchico pronto a sbeffeggiare ogni forma e tipo di potere, come recita la motivazione del Premio Nobel attribuitogli nel 1997: «Perché, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo dignità agli oppressi». Non era stato cacciato, insieme a Franca Rame, dalla tv di Stato democristiana nel 1962, colpito da anatema nel 1977 dal cardinal Poletti e dal Vaticano, esecrato da preti e deputati dc come un guitto nemico dei valori cattolici e religiosi? Mistero buffo, il suo capolavoro? Un’opera da Indice dei libri proibiti, un autore eretico da mandare, in altri tempi, al rogo.
Questo era il mio Fo, conosciuto anche personalmente negli anni Settanta. Un artista dissacrante, imprevedibile, libertario, trasgressivo, divenuto per me un esempio vivente di coraggio e coerenza civile e intellettuale. Ma ecco la sorpresa: il recente libro-intervista di Dario Fo con Giuseppina Manin: Dario e Dio, pubblicato nel marzo di quest’anno. E che, lo scomodo giullare novantenne, dileggiatore di ogni potere, si è improvvisamente convertito? Quanti atei e agnostici, dinnanzi all’approssimarsi della fine, preferiscono dubbiosi la scommessa di Pascal? Fo uno di loro? Questo il mio sospetto, che nemmeno le recensioni scorse rapidamente avevano del tutto dissipato.
Ma ecco che mi capita, in libreria, di sfogliare quel libro (da precisare che non era ancora uscito il suo ultimo, su Darwin), fermandomi sul delizioso capitolo: «L’invenzione dell’Inferno». Leggo il libro e scopro un altro Fo. Sì, il teatrante di genio, ma anche qualcos’altro, sì, un teologo. Il teologo della risata. L’espressione può apparire strana, paradossale, assurda. Fo ha sempre rifiutato di farsi rinchiudere in uno schema, tantomeno professorale, accademico. Cito un ricordo personale: negli anni Settanta accettò di tenere un corso di Estetica all’Università di Urbino, ma presto smise. Le sue lezioni erano un divertente misto di parlato e recitato, intessuto di accurate esposizioni dei risultati delle sue originali ricerche sulla Commedia dell’Arte e sulla storia del teatro popolare da un lato, e dall’altro di gustose e straordinarie recitazioni improvvisate. L’Accademia con i suoi tempi fissi, i suoi riti barbosi e le sue regole plumbee non era fatta per lui, maestro insuperabile di libertà e creatività.
Eppure possiamo dirlo teologo della risata. In un duplice senso: a) sia perché, da appassionato erede dei giullari medioevali, elevava la risata, lo sberleffo, lo sghignazzo a norma suprema della sua attività artistica; b) sia perché, scherzando su tutto, quindi anche su Dio, o meglio sulle idee di Dio delle religioni statutarie, ne faceva inevitabilmente un oggetto della sua riflessione e dei suoi pensieri, dei suoi logoi poetico-satirici. Fo era un ateo, come uomo e come artista, ma un ateo affascinato dal mistero del sacro: un mistero buffo, come egli in più occasioni dice, sia perché razionalmente insondabile, inconoscibile, sia perché oggetto, nel teatro popolare e giullaresco, di rappresentazioni in chiave ironico-grottesco-satirica volte a smascherare chi strumentalizza la religione e il sacro per fare gli affari propri.
Dunque non Dio e il divino in sé, che per altro è inconoscibile, Fo sbeffeggia, ma il dogmatismo e l’antropomorfismo religioso, e cioè l’uso privato, oligarchico, castale e affaristico che ne fanno i preti (non solo e non tutti indistintamente, è ovvio). Ecco perché nel libro-intervista in questione, così come in Mistero buffo e in tanta altra parte della sua produzione teatrale, Fo, con toni che a me ricordano, seppure lontanamente, il Trattato teologico-politico di Baruch Spinoza, storicizza e relativizza il dogma religioso, ne evidenzia le contraddizioni e le aporie interne, ne mette in luce le origini e il lato umano, troppo umano. Ma lo fa a modo suo. Con la sferza satirica del grande comico. Il Dio biblico, iroso, crudele, invidioso e vendicativo, incapace di autoironia e autocritica, un despota cervellotico che crea Adamo ed Eva, ma poi, al primo sgarro, li scaccia e maledice con tutta la loro stirpe; che preferisce chissà perché il pastore Abele, spingendo il contadino Caino alla disperazione e al fratricidio; che costringe Abramo alla decisione di sgozzare il figlio Isacco, per poi fermarlo in extremis, simile, ironizza Fo, ad un lugubre padre-padrone, anzi padrino. E questo fermandosi solo alle prime pagine del Pentateuco.
Fo era un ateo, ma, se fosse stato per ipotesi un credente, suppongo che al Dio biblico del Terrore, avrebbe preferito un Deus ridens, un Dio capace di non prendersi troppo sul serio, di auto-relativizzarsi, di ridere di sé e delle sue opere, di gustare la gioia liberatoria del riso, del lazzo, persino dello spernacchio. «Saper ridere – dice infatti Fo – è ciò che distingue l’essere umano dall’animale, il vero ‘salto’ della specie». Ma se l’uomo è essenzialmente homo ridens, come potrebbe venire da un Creatore che non sa ridere, che è privo del senso dell’umorismo, del grottesco, del comico, il cui undicesimo comandamento perduto era forse «Tu non farai ridere la gente»?
Al Dio vetero-testamentario Fo preferiva Gesù: «Che sia figlio di Dio, per me poco conta […]. Quel che mi colpisce […] è il suo essere uomo. Uno come noi». E perciò egli prediligeva non il Gesù largamente agiografico e divinizzato dei Vangeli canonici, ma il protagonista dei Vangeli apocrifi, da Fo spesso creativamente ripensato e reinventato: un ragazzo comune che gioca e fa dispetti e prodigi (per compiacere gli amichetti, fa volare gli uccelletti di creta), figlio naturale del falegname (altrimenti Maria sarebbe stata ingravidata da un angelo), che da adulto si schiera dalla parte dei poveri e degli affamati (vedi l’ubriaco della pièce sulle «nozze di Cana» e il pezzo sulla «fame dello Zanni»), che si innamora e forse sposa Maddalena, che predica l’uguaglianza uomo-donna, che, posto che sia risorto, come primo atto distrugge e annienta quell’assurdo ergastolo eterno che è l’Inferno (perché l’inferno, la pena del male inferto il malvagio, il tiranno, l’oppressore la sconta già qui, in questa vita, vivendo da «vero dannato», anche se «magari non sembra»). Un Gesù così non può che scandalizzare il potere, quello papale in primis(vedi il famosissimo Bonifacio VIII).
Fo ateo, eppure, si potrebbe dire, un ateo religioso. Che si arresta di fronte al «senso di mistero che pervade la natura», vista spinozianamente, o quasi, come una specie di Deus sive Natura, di Dio-Natura, capace, oltre o dentro l’inesorabile catena degli eventi, di operare «miracoli» di bellezza e saggezza inspiegabili, come quello dell’orchidea che per farsi impollinare dal calabrone maschio assume la figura colorata della femmina dell’insetto, o come quello del branco di un piccolo pesce dell’Atlantico che in caso di pericolo si difende trasformandosi vorticosamente in un pesce mostro dieci volte più grande del feroce predatore.
Insomma, spunti, tracce, segni, quelli dell’ultimo Fo, di un’inedita teologia della finzione estetico-teatrale. Come se esistesse nella natura «un mago prodigioso, dotato di senso dell’ironia e dello spettacolo davvero insolito. Un artista crudele, il cui fine è la meraviglia, proprio come se agisse in teatro, lasciando allo stesso tempo la sensazione del mistero. Una parola, mistero, – dice Fo – che nel rituale mistico di tutte le religioni indica l’iniziazione, l’incanto, lo spettacolo magico».
MICROMEGA (25 ottobre 2016)