Il ”finto” apostolo e il senatore: Danilo Dolci visto da Santi Savarino (Pierluigi Basile)
La Sicilia degli anni Cinquanta somigliava all’India. Era la propaggine estrema di una nazione che intanto cresceva e cambiava tumultuosamente pelle, avviandosi sulla strada del “boom economico”. Ma il miracolo era settentrionale, e l’isola continuava a soffrire arretratezza e miseria. Certo qualcosa era cambiato. Ma nonostante le illusioni e le speranze, la scoperta del petrolio e il lento processo di industrializzazione non segnarono certo l’avvento di una “terra promessa”.
Così si scappava, in massa, verso il Nord abbandonando le campagne in cerca di pane e lavoro, quando uno strano triestino, tal Danilo Dolci, compiva il viaggio nella direzione opposta per trasferirsi a Trappeto. Era il 1952, l’alba di una nuova stagione segnata da mille battaglie al fianco dei “poveri cristi”, gli ultimi, gli emarginati. Nei decenni a seguire per loro e con loro Danilo sperimentò pratiche nonviolente e azioni di protesta (digiuni collettivi, scioperi alla rovescia, la prima radio libera) che fecero subito scalpore suscitando l’interesse e l’attenzione della stampa nazionale e internazionale, richiamando nell’area alcuni dei maggiori intellettuali del tempo.
Dal piccolo borgo marinaro qualche anno dopo Dolci si spostò a Partinico, grosso centro agricolo, che presentava in alcuni quartieri – il caso più celebre era quello di Spine sante – un volto di desolazione ed abbandono che lo spinse nuovamente all’azione, per chiedere alle autorità di porre fine allo “spreco” di risorse – materiali ed umane – e garantire un nuovo futuro ai troppi “banditi” costretti a delinquere per sopravvivere.
Tra il 1955 e il 1956 con la pubblicazione per Laterza del volume Banditi a Partinico e l’arresto a seguito dello sciopero alla rovescia nella trazzera vecchia il “caso Dolci” raggiunse il picco di popolarità procurando all’agitatore, accanto ai consensi e agli aiuti economici di numerosi benefattori, anche numerose reazioni di segno opposto.
In tanti, mossi da antipatie personali, pregiudizi, sospetti e timori infondati, presero pubblicamente posizione – con critiche feroci, affermazioni diffamatorie, vignette satiriche contenute in atti ufficiali o testate giornalistiche – contro Dolci e il gruppo di collaboratori che attorno a lui si costituì.
Prefetti, uomini di Chiesa, sostenitori a vario titolo del governo locale e nazionale, detentori del potere, accomunati da una visione conservatrice che guardava con sospetto ogni tentativo di stravolgere l’equilibrio su cui la società tradizionale si reggeva.
Tra di essi spiccava la voce dell’illustre senatore partinicese Santi Savarino, direttore de “Il giornale d’Italia”, eletto nel 1953 con la DC, anche grazie alla messe di preferenze espresse in quella tornata dai suoi concittadini, che portarono lo scudo crociato a sfiorare il 60%.
La domenica 12 febbraio 1956 Savarino dedicava a Dolci un lungo articolo di fondo sulla prima pagina del suo quotidiano, dal titolo E parliamo del sig. Danilo Dolci…. Un lungo testo carico di livore che riflette la cultura e i pregiudizi di chi scrive e la sua precisa volontà: “demitizzare” il personaggio e “demistificare” la sua opera per instillare il dubbio che dietro il paravento de «l’apostolo Danilo» – come ironicamente lo definisce Savarino – ci sia ben altro.
Il nostro Dolci – sempre chiamato “signore”, ad evidenziare l’assenza di titoli – «vive comodamente, non ha né arte né parte, e scrive libri» secondo Savarino, che “invece”, tralasciando la politica, per vivere scriveva articoli e commedie.
Danilo era dunque un nullafacente e per di più un mantenuto che non rinunciava ai vantaggi della sua condizione, tanto da marciare «in Lancia di grossa cilindrata regalatagli da benefattori». Non era l’unica contraddizione a saltare davanti gli occhi dell’acuto senatore: infatti il suo aspetto corpulento stonava con i lunghi periodi di astensione dal cibo, cosa che portava Savarino a maliziare: «digiunava in pubblico – il giorno, ché, per la notte, dobbiamo credergli sulla parola».
Tutto, dal suo comportamento alle sue scelte più inattese (come la decisione di sposare una popolana trappetese, la vedova Vincenzina Mangano) rispondevano secondo l’estensore dell’articolo alla precisa volontà di incantare il mondo esterno, costruendo a tavolino una figura fittizia così descritta: «il redentore, l’atteso, il messia, un novello San Francesco che incanta i lupi e uccelli e sposa, materialmente stavolta, sorella Povertà, con sette figli, per dimostrare tutto il suo disinteresse e il suo amore per il popolo».
Il senatore si sforzava allora in tutti i modi di strappare questa immagine illusoria e mostrare la realtà oltre le apparenze dell’autorappresentazione: dunque Dolci veniva dipinto come un bugiardo eretico («si dice cattolico [ma] fa la propaganda protestante»), pericoloso in quanto circondato da pregiudicati venuti da lontano e sostenuto dai comunisti. Le puntuali denunce contenute nei suoi studi e nei suoi innumerevoli appelli scaturivano da una «congegnata campagna scandalistica per fini non chiari, o chiarissimi» che «specula[va] sulle disavventure di tutta una cittadinanza, di tutta una regione, che ha avuto la disgrazia […] di far parlare di sé a causa di qualche bandito».
E allora nelle conclusioni ecco Savarino ergersi a paladino di una Partinico offesa, tradita, illusa che «non ha bisogno di ciarlatani» ma di concrete risposte da parte dello Stato centrale e del governo regionale: e pazienza se in apertura aveva ricordato che grazie a quello strambo, «piombato da ignoti lidi», la Cassa per il Mezzogiorno aveva da poco stanziato 51 milioni per la costituzione di un consorzio irriguo tra 400 agricoltori.
A Roma – forse voleva suggerire – dovevano imparare a rispondere solo alle sollecitazioni giuste: tipo quelle dell’inascoltato sindaco, che da anni lamentava le mille difficoltà del suo comune, o quelle del prefetto di Palermo Migliore, il quale nelle periodiche relazioni al ministero dell’interno si sforzava in tutti i modi di svilire la figura e l’impegno sociale del finto apostolo, rimanendo sulla falsariga della requisitoria di Savarino.
Con quale furiosa indignazione il nostro senatore avrebbe appreso la notizia che un Istituto scolastico, proprio nella sua Partinico, sarebbe stato intitolato a quel “cialtrone” di Dolci possiamo solo immaginarlo. Quello che non possiamo nemmeno immaginare è come reagirebbe alla notizia che il suo nome invece sarà presto (e finalmente!) tolto dal Liceo cittadino per far spazio a due “signori” come li avrebbe definiti lui – tali Peppino Impastato e Felicia Bartolotta – che appunto non ebbero in vita titoli accademici, ma come Danilo scrissero pagine indimenticabili di Storia stando dalla parte giusta.