Il Sessantotto non è morto”. Intervista a Angelo d’Orsi

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di Francesco Postorino

Angelo d’Orsi non ha bisogno di presentazioni. Non per i lettori di MicroMega, rivista con la quale collabora da quasi dodici anni. Professore di Storia del pensiero politico contemporaneo, d’Orsi, lo scorso anno, ha ideato e organizzato a Torino il convegno “Aspettando il Sessantotto”, sotto le insegne della sua rivista «Historia Magistra» e del GRID (Gruppo di ricerca sulle idee politiche) da lui creato in seno al Dipartimento di Studi Storici dell’Università di Torino. Da quel convegno sta nascendo un volume, curato da Francesca Chiarotto, per l’Accademia University Press.

Il Sessantotto. Una rivoluzione incompiuta?

No. Fu una vera rivoluzione, pur senza aver conquistato il potere politico. Il movimento scardinò ampiamente, benché non completamente, le casematte istituzionali e culturali del “sistema”, per usare l’espressione in voga al tempo. Come tutte le rivoluzioni, anche questa innescava una controrivoluzione che alla lunga ha vinto, senza però riuscire a cancellare tutti i risultati raggiunti dal movimento.

Per alcuni non era altro che un pigro conformismo di massa manovrato dai «ragazzi» della borghesia.

Il Sessantotto, non diversamente da altri eventi epocali di sommovimento, raccolse in sé un po’ di tutto; come in ogni rivoluzione, vi furono i balordi, i confusionari, gli opportunisti, persino i lestofanti, e coloro che seguirono in modo pedissequo i “capi” senza esercitare il minimo senso critico. Che fossero manovrati dalla borghesia è una sciocchezza, il che non toglie che la gran parte della leadership emersa dal movimento fosse di origine borghese, per ragioni inerenti alla formazione culturale, che nelle famiglie dei ceti possidenti urbani era sicuramente di più alto livello. In ogni caso, quale che fosse la loro origine, la gran massa degli attori, fu costituita da ragazzi e ragazze di notevolissima maturità, ventenni in grado di portare contributi seri all’analisi sociopolitica, all’organizzazione pratica, all’azione diretta finalizzata a obiettivi coerentemente individuati e perseguiti. La maturità, se non era già in essere all’inizio del movimento, venne raggiunta rapidamente, nel fuoco dell’impegno, nella lotta, sia nell’azione diretta “in piazza” sia nell’università, con i “controcorsi”, con le decine di migliaia di iniziative didattiche e culturali, con le riviste, persino con i volantini e i manifesti murali per veicolare messaggi innovativi dalla forma espressiva, grafica e sintattica, originale. Si trattò, a ben vedere, di una stagione che da questo punto di vista sembra si possa paragonare all’esplosione del primo Futurismo. Vi fu ovviamente conformismo, pigrizia, cialtroneria, ma predominavano atteggiamenti diversi, anzi opposti: forte volontà di cambiare le cose, innanzi tutto, con molta ingenuità, certo, ma con una sostanziale, prevalente buona fede.

Altri, specie negli ultimi tempi, tendono a legare le gravi storture del capitalismo contemporaneo proprio all’ideologia sessantottina.

Non sono per niente d’accordo! L’ideologia dell’ultracapitalismo, ossia il neoliberismo, deriva essenzialmente dalla Scuola di Chicago. Il Sessantotto non c’entra.

Si può parlare di un sessantottismo di destra?

Julius Evola e alcuni suoi interpreti/seguaci hanno presentato il Sessantotto come l’espressione di quella «rivolta contro il mondo moderno» da lui teorizzata. Una tesi non priva di suggestioni ma sostanzialmente errata e indimostrata. Un tentativo, a mio avviso, di appropriazione indebita.

Potrebbe fare cenno alle differenze cruciali tra il movimento italiano e quello degli altri Paesi?

Il discorso è molto lungo e non può essere affrontato in due battute, rischiando di banalizzare o semplificare. Tento una sintesi estrema, consapevole dei rischi.
Il Sessantotto italiano è un “lungo Sessantotto”. Abbraccia come minimo un biennio (1968-1969), anche se in realtà arriva fino ai primissimi anni Settanta. Il nostro si rivelò il più durevole tra i movimenti di contestazione internazionale, nelle società capitalistiche “avanzate”, dove l’intreccio fra azione studentesca e azione operaia fu più rilevante e continuo. Fu il più diffuso a livello territoriale: si può dire che non vi sia stata sede universitaria che non sia stata toccata dalla protesta, da Trento a Milano, da Torino a Catania, da Pisa a Bari. Un movimento corale, che raggrumava in sé culture politiche, sensibilità, orientamenti ideali molto diversi con una forte componente cattolica, e all’inizio addirittura dominante.

E il movimento francese?

Quello francese fu concentrato quasi esclusivamente nella capitale: del resto si sa che “la France c’est Paris”. Breve, di gran lunga il più intenso e dalla maggiore risonanza mediatica, anche per la simbologia. Parigi era allora una vera capitale europea, con figure di grandi intellettuali, a cominciare da Jean-Paul Sartre: il filosofo del maggio ’68. Qualcuno scriveva, ex post, che il Sessantotto francese fu “une révolution sartrienne”, e non aveva tutti i torti. Il “maggio” ebbe un carattere fortemente militare grazie alla concentrazione della protesta in una zona delimitata di Parigi, il Quartier Latin. Il maggio fu il solo Sessantotto in cui la protesta divenne rivolta organizzata, fino alle barricate. Non vi furono altri esempi paragonabili a questo, almeno da tale punto di vista. Infine, oltre al Vietnam che ebbe un peso importante ovunque per catalizzare la protesta, non si deve dimenticare la Guerra d’Algeria, che concerneva un passato coloniale che stentava a farsi da parte.

In Germania?

Qui fu importante il Vietnam. Gli studenti socialdemocratici, in dissenso con il partito dopo Bad Godesborg (1959), furono i primi a organizzare un paio di seminari proprio sul Vietnam, ben prima dell’esplodere della protesta. Naturalmente, tutti i movimenti di contestazione avevano in comune la critica dei progetti di riforma universitaria, che, nei diversi paesi, erano animati dallo sforzo di adeguamento delle strutture dell’insegnamento alle nuove richieste del mercato. Ma il tratto comune principale fu l’antiautoritarismo, in famiglia, nella società, nella politica, e ovviamente, nell’insegnamento.

Il rapporto con il Pci non fu semplice. Può dirci la sua?

In Italia, il movimento, come negli altri paesi toccati dalla contestazione, nacque non tanto per distacco dalla sinistra tradizionale, ma piuttosto in alternativa, su altri sentieri: era una sinistra che voleva appunto essere “nuova”, come era accaduto in Usa, in UK, in Francia e in Germania. In Italia la differenza stava in un partito, il Pci: l’unico davvero di massa, strutturato e capillarmente presente sul territorio nazionale. Il movimento quasi volle prescindere dalla vicenda di quel partito, senza rinnegare quanto di buono pareva esserci nell’ideale comunista, che però si era vestito di nuovi panni in Cina, a Cuba e nella miriade di movimenti rivoluzionari pullulanti specie nei paesi del “Terzo Mondo”. E di colpo il dibattito politico a sinistra si rianimò e lasciò cadere le vecchie dispute Bobbio/Della Volpe, Vittorini/Togliatti ecc. Era una nuova cultura, prima e più che una nuova ideologia politica che si affacciava.

Il Pci non capì la nuova ondata?

Fece grande fatica ad accorgersene, a parte qualche minoranza interna. Il partito pagò un prezzo, ma anche il movimento lo pagò con la deriva terroristica imboccata da alcune sue frange.

La triste esperienza degli «anni di piombo» quanto è intrinsecamente legata al movimento?

Non lo è, se non in modo estrinseco, comunque assolutamente minoritario. La mancanza di capacità dialogica del Pci con i giovani contestatori fu in larga parte all’origine del fenomeno. Ma è fuorviante e storicamente falso stabilire una continuità e una contiguità fra il movimento in quanto tale e il terrorismo “rosso”.

Il vivace sessantottino di un tempo pare sia divenuto, nella gran parte dei casi, un sessantottenne «sereno» e soprattutto complice del sistema. Vale qui il detto di Ennio Flaiano: «se non si è di sinistra a vent’anni e di destra a cinquanta, non si è capito niente della vita»?

I sessantottini – quelli ancora vivi – si sono sistemati. È ovvio. Hanno casa, figli, forse nipoti. Hanno rispettabili professioni, molti sono già in pensione. Il problema è: quale atteggiamento hanno maturato col tempo? Che cosa conservano di quella esperienza? Le idee del Sessantotto sono ancora vive nei loro cuori? E come le testimoniano, oggi? Le risposte si possono dare, al di fuori del chiacchiericcio, solo con una attenta prosopografia, insomma ricostruendo le biografie dei sessantottini.

Vi sono oggi le condizioni per recuperare quello spirito di ribellione?

Perché no? Mutatis mutandis, oggi più di allora, forse, il mondo avrebbe bisogno di rivoluzione. E quella del Sessantotto lo fu.

(7 novembre 2016)

Micromega

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