Il sistema di potere clientelare-mafioso da Danilo Dolci ai nostri giorni. (Francesco Virga)
Qualche settimana fa l’edizione palermitana del giornale La Repubblica apriva con questo titolo: Regione, milioni per i clientes. Il sottotitolo precisava: “Assistenza, tirocini, microcredito: pioggia di soldi alle onlus di partito”. Seguiva nella pagina seguente un documentato articolo di Antonio Fraschilla che non mancava di notare come la notizia fosse trapelata solo perché qualche Associazione era rimasta esclusa dal beneficio. Questo l’inizio dell’articolo:
“La campagna elettorale per le amministrative è già iniziata. Ad accorgersene per primi sono stati i deputati regionali che denunciano, con tanto d’interrogazioni al governo Lombardo, finanziamenti clientelari e poco trasparenti erogati dalla Regione «che rischiano d’inquinare la consultazione». In particolare, nel mirino degli inquilini di Sala d’Ercole è finita l’ultima pioggia di fondi erogati dall’assessorato alla Famiglia: 9 milioni di euro stanziati a favore di 18 raggruppamenti di onlus, la gran parte sponsorizzate dal politico di turno, per garantire a circa mille «disagiati e disoccupati» tirocini in aziende pagati a 700 euro al mese. Ma non solo. Nel mirino c’è anche il microcredito, altri 12 milioni di euro impegnati dalla Regione: il progetto in questione vede interessate sulla carta 100 mila famiglie siciliane che potranno provarea chiedere prestiti garantiti, ma a fare da intermediari tra le famiglie e le banche saranno delle onlus individuate sul territorio con criteri definiti «poco chiari», tanto che a Palermo e provincia risultano accreditati 23 enti, di cui ben 3 solo a Santa Flavia (guarda caso uno tra i Comuni al voto), mentre ci sono intere province come Ragusa, Caltanissetta e Siracusa che hanno solo una onlus”. (La Repubblica del 15 gennaio 2012, edizione Palermo, p.II)
Nonostante il rilievo dato alla notizia dal suddetto giornale, nessun altro ne ha parlato.Tanto meno la tv che, come si sa, è la principale fabbrica del consenso. Ma, come tutti sanno, non c’è settore in Sicilia – ma non solo in Sicilia! – che non sia condizionato dal sistema di potere clientelare. Basti pensare alla Formazione Professionale. Sul sito http://www.sicilianews24.it oggi si legge:
Assunzioni pilotate da politici e burocrati soprattutto in concomitanza con le elezioni regionali, fondi pubblici assegnati a enti che in alcuni casi non hanno neppure una sede, assenza di controlli sull’efficacia dei corsi, una quantità di personale enorme, ben il 46% del totale dei dipendenti attivi nel resto del Paese e tre volte superiore alla sola Regione Lombardia. E’ l’impietosa analisi del settore della Formazione professionale in Sicilia fatta dalla commissione d’inchiesta, guidata dal deputato del Pd Filippo Panarello, incaricata dall’Assemblea regionale siciliana di verificare cosa non va nel sistema dopo i rilievi della Corte dei conti e alcuni scandali. Dopo avere ascoltato per diverse settimane in audizione dirigenti regionali, operatori e sindacati, i commissari hanno appena concluso il lavoro, stilando la relazione conclusiva depositata a Palazzo dei Normanni e pronta per la discussione all’Assemblea regionale. Dal rapporto viene fuori un settore ‘monstre’, dove non ci sono regole certe e quelle esistenti vengono aggirate con facilità, controllato da lobbies di potere e senza una reale corrispondenza con le necessità di lavoro in una regione dove il tasso di disoccupazione giovanile supera il 50%. Tra i docenti c’é chi addirittura ha soltanto la licenza elementare, alcuni il diploma di scuola media inferiore, solo il 34% ha un diploma di laurea. ‘E’ stato costruito un sistema fondato sulla crescita esponenziale della spesa pubblica indirizzato a creare posti di lavoro, a prescindere dalle esigenze effettive dell’utenza e dalla qualità del servizio’, scrivono i commissari nella relazione. La spesa per il comparto ammonta a 400 milioni di euro, oltre alle risorse finanziate negli anni con i fondi europei. La quantità del personale non ha eguali nel Paese, 8.612 dipendenti tra docenti e amministrativi, quasi il triplo dei dipendenti pubblici della Regione Lombardia. Gli enti che organizzano i corsi e ricevono i fondi pubblici sono 230, ‘frutto di un sistema di accreditamento lacunoso, ancorché provvisorio e sostanzialmente funzionale all’allargamento della platea’, accusano i commissari. ‘Il reclutamento del personale’, sostiene la commissione, ‘fondato su regole e filtri facilmente aggirabili, ha consentito continue incursioni di settori della burocrazia e della politica’ e sull’esito dei corsi ‘c’é l’assoluta mancanza di verifiche’. La commissione d’inchiesta propone all’Ars ‘di promuovere le iniziative legislative utili a riformare il sistema della formazione e di esercitare con attenzione i compiti di indirizzo e di controllo necessari per sollecitare una gestione rigorosa e trasparente di un settore importante dal punto di vista economico e sociale’.
Ma viene da chiedersi: chi controllerà i controllori? E tornano alla mente le parole di Giovanni Falcone: “In Sicilia, per quanto uno sia intelligente e lavoratore, non è detto che faccia carriera (…). La Sicilia ha fatto del clientelismo una regola di vita. Difficile, in questo quadro, far emergere pure e semplici capacità professionali. Quel che conta è l’amico o la conoscenza per ottenere una spintarella. E la mafia, che esprime sempre l’esasperazione dei valori siciliani, finisce per fare apparire come un favore quello che è il diritto di ogni cittadino.”
Qualche giorno fa, in un Convegno di studio, il Dr. Antonio Ingroia, procuratore aggiunto di Palermo, ha detto: “Il Parlamento siciliano è lo specchio fedele di una società e di una classe dirigente profondamente inquinata, soprattutto ai piani alti, dalle collusioni con il sistema mafioso”.
Queste parole hanno provocato un putiferio. Il Presidente dell’ARS, on. Francesco Cascio, anche per coprire le reazioni scomposte di alcuni colleghi, nel difendere l’istituzione che rappresenta, ha chiesto chiarimenti.
In attesa che il dr. Ingroia risponda all’On. Cascio, riteniamo opportuno riproporre alcuni documenti, estrapolati dai loro contesti originari, che fanno riferimento a vicende simili a quelle sopra descritte, lasciando al lettore la valutazione della loro pertinenza e attualità.
Il primo testo da cui vogliamo partire risale al 1957 ed è tratto da un breve saggio di Leonardo Sciascia intitolato La mafia, pubblicato lo stesso anno sulla rivista di Ignazio Silone Tempo Presente. Di esso, in questo momento, non ci interessa fare un’analisi puntuale. Basti ricordare il riferimento polemico all’ intervista “di allarmante candore” rilasciata ad un giornale milanese dall’allora Presidente della Regione Siciliana, Giuseppe Alessi, secondo il quale la mafia del sud – opera di poveri uomini che si mettono al passo per derubare i viandanti – è poca cosa rispetto alla mafia del nord, in cui regnano aggiotaggi e giochi di borsa. Sciascia osserva:
“ Come l’Alessi, sono molti i siciliani che in buona fede riducono la mafia a sporadici fatti delinquenziali e ritengono sia un’offesa alla Sicilia l’ammettere l’esistenza di un’associazione per delinquere con vasto raggio d’azione e con precisi addentellati nella vita pubblica. Sono sicuro che l’Alessi, vivendo tra Caltanissetta e Palermo e con la sua notevole esperienza di avvocato penalista, non ignora le vere proporzioni del fenomeno, né le collusioni ormai universalmente riconosciute tra mafia e classe dirigente (c.m.): ma trovandosi di fronte un giornalista continentale non ha potuto fare a meno di minimizzare e di lanciarsi in una piccola requisitoria, peraltro non ingiustificata, contro la mafia del nord.”
Il saggio contiene inoltre la fondamentale indicazione di metodo da tenere costantemente presente nello studio del fenomeno mafioso – “non è partendo dalla razza che si può gettar luce sul fenomeno: bisogna, ancora e sempre, partire dalla storia e risolverlo in essa” cui rimarrà sempre fedele – insieme alla coraggiosa denuncia del comportamento cinico mostrato dalle truppe alleate in Sicilia, subito dopo lo sbarco a Licata del luglio 1943, quando, per assicurare l’ ordine pubblico,utilizzarono parecchi uomini d’onore.
Sciascia tornerà a parlare dell’aiuto decisivo dato dagli americani alla rinascita mafiosa in Sicilia, alla fine della seconda guerra mondiale, in una delle sue ultime interviste:
“ la mafia, che era stata combattuta dal fascismo – due mafie non avrebbero potuto coesistere! – si è avvantaggiata dallo sbarco americano in Sicilia. Insediati dagli americani, i mafiosi, oltre al prestigio che hanno tratto dalla liberazione della Sicilia, hanno esercitato un potere politico quotidiano: presiedevano alla distribuzione di pane e viveri, offrivano forniture e coperte, fornivano la penicillina, il ‘rimedio miracoloso’ di cui è difficile oggi immaginare cosa poteva significare in quel tempo. Il pane, la penicillina, le coperte… ecco il potere di cui i mafiosi si erano trovati investiti dagli americani!”.
Leonardo Sciascia è stato tra i primi a considerare fallimentare l’esperienza dell’Autonomia concessa dal Governo centrale alla Sicilia all’indomani del crollo del Fascismo. Più precisamente lo scrittore di Racalmuto, fin dagli anni sessanta, ha sostenuto, con buone argomentazioni, che:
il fallimento dell’autonomia regionale si può senz’altro attribuire al fatto che è stata intesa e maneggiata come un privilegio, una franchigia, che lo Stato italiano, sotto la pressione del movimento separatista, concedeva alla classe borghese-mafiosa.
Sciascia aveva le idee molto chiare; e quando parlava di “classe borghese-mafiosa” o di “borghesia mafiosa” sapeva quel che diceva:
“E’ una borghesia mafiosa, quella siciliana, anche là dove non sembra. Una borghesia che opera senza una visione del domani, a sfruttare determinate situazioni così come un tempo si diceva delle zolfare : A RAPINA. Lo sfruttamento a rapina delle zolfare era quello degli esercenti che si preoccupavano di cavare quanto più materia possibile senza curari né dell’avvenire delle zolfare né della sicurezza di chi vi lavorava. Ora questa classe sembra inamovibile. Successe all’aristocrazia, si comporta , anche e più grossolanamente, come l’aristocrazia. Per questo i siciliani non credono più alle idee “. (sottolineature mie)
Eppure lo stesso Sciascia non si è mai stancato di avvertire:
La Sicilia non è la mafia, in Sicilia c’è la mafia ma la Sicilia non è la mafia(…).Quì la mafia non sarebbe durata tanto a lungo se non fosse stata aiutata da un patto con lo Stato, che naturalmente non è un patto steso a tavolino ma è un patto da vedere in quella che Machiavelli chiamava ‘la realtà effettuale delle cose’.
E’ curioso osservare che a conclusioni simili era arrivato negli stessi anni Danilo Dolci seguendo un percorso diverso. Basta riprendere in mano un suo vecchio libro, raramente citato, per convincersene. Il libro s’ intitola Chi gioca solo e viene pubblicato da Einaudi nel 1966. In esso si trova la più ricca documentazione, raccolta da Danilo e dai suoi più stretti collaboratori, sulle radici profonde della mafia nella Sicilia occidentale. Come Banditi a Partinico è un libro-inchiesta, frutto di anni di autoanalisi popolare. Era questo il modo in cui Danilo amava denominare il suo metodo di lavoro che scaturiva, soprattutto, da quel singolare talento che possedeva di saper ascoltare e dare voce a tutte le persone che incontrava.
Il libro ebbe un successo straordinario. La stessa casa editrice pubblicò la II edizione nel 1967 e, nei mesi successivi venne tradotto nelle principali lingue del mondo (ad esempio l’edizione americana uscì l’anno seguente con questo titolo: The man who plays alone. Trad. di Antonia Cowan. New York: Pantheon Books,1968). Ciononostante, dopo qualche anno, l’opera scomparve dalla circolazione ed è stata quasi del tutto dimenticata.
La rilettura del libro per me è stata di grande utilità e mi ha aiutato a capire anche recenti fatti di cronaca. Particolarmente istruttiva la ricostruzione di un processo e di una sconfitta: il processo per diffamazione che Danilo subì, con relativa condanna, per avere denunciato potenti uomini politici di collusione con la mafia.
Per mostrare quanto chiare fossero le idee di Dolci al riguardo voglio citare per esteso un brano della Premessa, scritta dallo stesso Autore:
I non pochi uomini politici compromessi con la mafia in Sicilia si potrebbero distinguere in quattro categorie: Una prima, dei politici spregiudicati che, soprattutto in tempo di elezioni, hanno rapidi incontri, riunioni in cui non badano tanto per il sottile come raccogliere voti e con chi hanno a che fare: “se tu mi aiuti, io ti aiuto”. Una seconda, dei politici che sfruttano sistematicamente, freddamente, il gruppo chiuso mafioso, imbastendo eventualmente tutti i possibili doppi giochi a seconda dei tempi e dei luoghi:” sfruttati a loro volta sistematicamente dalla mafia. Una terza, di mafiosi veri e propriche riescono ad essere eletti, talvolta anche anche ad alte responsabilità: per fortuna non sono i più numerosi. Una quarta, di giovani che, partiti in polemica col sistema, hanno accettato di rimanere condizionati, per poter riuscire. Quale locale contesto ha reso possibile per più di vent’anni lo sfruttamento della mafia (e, per un certo tempo, anche del banditismo) a fini elettorali? La mafia ha così potuto nell’ultimo dopoguerra partecipare al governo dell’Italia dal livello comunale, provinciale,regionale ai più alti livelli.
Poco più avanti Danilo si domanda:
A chi vede Palermo e la provincia circostante, non occorre molto per verificare che la grande maggioranza della popolazione è scontenta, molto spesso gravemente scontenta, amara, a lutto. “Perchè, […], questa maggioranza di scontenti non riesce a diventare maggioranza di diversa azione, nuova spinta, nuova maggioranza politica?
La risposta a questa fondamentale domanda va ricercata, secondo Danilo, oltre che nella incoerenza ed inadeguatezza dei principali partiti di opposizione di allora, nell’omertà istituzionale che egli descrive con parole che riecheggiano quelle del secolo precedente di Napoleone Colajanni:
“finchè i rappresentanti dello Stato cercano ad ogni costo di coprire […] ministri, sottosegretari più o meno inseriti nella struttura mafioso-clientelare; finchè si vuol far risultare ad ogni costo che sono i mafiosi a circuire il loro politico e non si critica il reciproco appoggio (…), lo sfruttamento reciproco; finchè non si fa chiaro fin dove arriva nel comportamento di certi ‘politici’ la loro responsabilità personale, e fin dove la corresponsabilità governativa;finchè ci capita di incontrare persone ad altissimo livello di responsabilità -ministri, sottosegretari, magistrati – le quali in privato ammettono di sapere che certi loro colleghi sono uomini della mafia (cioè appartenenti ad essa o ad essa disponibili), ma non osano assumere posizioni aperte; finchè funzionari e parlamentari continueranno a pretendere dalla povera gente indifesa quel coraggio che essi stessi, sebbene protetti dal proprio mandato, non hanno; (…)finchè ogni gruppo, ogni partito che si dice democratico, non osa sciogliere i suoi vincoli mafioso-clientelari; finchè la maggioranza delle persone si comporta come se questi problemi non li riguardassero affatto; finchè, ad ogni livello di responsabilità, non si sarà disposti a rischiare per la verità, osando opporsi in modo organizzato all’ingiustizia e alla violenza organizzata ovunque essa sia – il corpo sociale non potrà che rimanere sostanzialmente fermo, infetto.”.
Queste parole risalgono al 1966. A me sembrano ancora attuali. Ma posso naturalmente sbagliarmi.
Postato 8th February 2012 da francesco virga