Individualismo e rapporto familiare
Due brevi saggi di Salvo Vitale sul rapporto della famiglia con la morale, l’onore e l’amore nella società mafiosa, pubblicati su Antimafia Duemila.
Egoità e familismo amorale
C’è una linea di demarcazione dove finiscono, si chiudono gli orizzonti degli esseri umani. Sarebbe corretto chiamarla “visione della vita”, se non fosse che il richiamo all’originale tedesco Weltanschaung indica il “modo di vedere il mondo”, la propria interpretazione, e quindi un diverso significato rispetto al confine che chiude la personale prospettiva del mondo, il limite dove l’occhio si ferma e ne circoscrive la visione. I motivi sono in parte dovuti a proprie autolimitazioni, a connaturata incapacità di saper vedere oltre, in parte ad abitudini sedimentate e diventate modo di essere, a causa dell’insipienza in cui si preferisce stare avvolti o di una forzata accettazione del proprio rapporto con la vita, a causa di una serie di altri intercorsi rapporti con l’ambiente, con il lavoro, con gli altri esseri umani, con gli eventi vissuti, nei quali si è rimasti intrappolati spesso per scelte non ponderate, per accadimenti involontari, altre volte per motivi di sopravvivenza.
Per ognuno il confine, lo spazio d’apertura delimitato dalla sua cornice, la dimensione della valutazione dell’altro da sé, assume aspetti diversi. Può essere la stanza in cui si passa gran parte della giornata, il marciapiede che insiste sull’uscio di casa, la via in cui si abita, il paese, il mare o il cielo, sin dove arriva lo sguardo, la dimensione cosmica, l’oltre, l’immaginifico, il divino. Tutte queste “limitazioni” costituiscono sistemi vari che hanno al centro un unico punto luminoso e un solo centro d’attrazione, l’IO”. “Egoità” è il termine più appropriato, ovvero il mettere se stessi al centro di ogni discussione. Il soggetto egotico trova, su qualsiasi cosa si parli, sempre qualcosa che abbia un rapporto con se stesso, il motivo di parlar di sé e di dare importanza ad elementi irrilevanti che servano ad esaltare il ruolo della propria persona e la sua attività. Da non confondere con l’egoismo che ha la sua specificità e finalità materiale nell’attaccamento geloso verso i propri beni, materiali o spirituali, nella ricerca e conservazione di ciò che è utile solo a se stesso, nella funzionalità mirata al conseguimento di un proprio benessere che esclude gli altri.
Con l’avanzare dell’età questa condizione di centralità della propria persona, questo atteggiarsi a protagonista, partecipe attivo o passivo di qualsiasi vicenda e proiettarsene dentro per leggerla, deformarla e assoggettarla in funzione del proprio essere, questo poter dire orgogliosamente “io c’ero” e ho dato il mio contributo, o, se non c’ero c’era qualche mia conoscenza, utilizzata come trait-d’union con me stesso, si esaspera e si incancrenisce. Questo sguardo dall’alto riflesso all’interno della propria esperienza vera, immaginata o fantasticata, tende a crescere esponenzialmente e a diventare patologia che trova la sua motivazione nel cercare, da parte degli altri, elementi di ammirazione, di considerazione, nell’imporre agli altri atteggiamenti di “rispetto” e di amplificazione di frammenti della propria identità sulla cui importanza è difficile credere, sia da parte di chi li propone, sia da parte di chi è costretto ad ascoltarli e subirli.
In filosofia questa individuazione dell’io come autocoscienza, come principio fondante di qualsiasi conoscenza è un filo che attraversa tutta la storia del pensiero, dal socratico “conosci te stesso” all’antropocentrismo rinascimentale, al moderno cartesiano “cogito ergo sum”, al più avanzato “l’io pone l’io” di Fichte, al “divieni ciò che sei” di Nietzsche, ma qualsiasi teoria dell’autocoscienza è il principio da cui si sviluppa il rapporto del sé con l’esterno, lo stimolo a conoscerlo, a giustificarlo, a superare l’ostacolo dell’inerzia nella tensione verso l’infinito e nel rapporto intenzionale verso gli altri esseri umani, caratterizzato dall’amore, dalla “coscienza di classe”, dall’angoscia esistenziale, ecc. In ogni caso “il sè” è l’inizio per uscire da sè e andare verso l’altro da sè. Nella pratica ci si imbatte in molti soggetti in cui invece questa “intenzionalità”, (in-tendere, tendere verso) viene meno, il cerchio si chiude in una sorta di presunta compiutezza della propria persona che, nel suo sapere acquisito che rifiuta altre integrazioni e aggiornamenti, è diventata la protagonista, la chiave di volta, la spiegazione, se vogliamo “il buco del culo”, “l’ombelico” del mondo, anzi, di quello che è il suo mondo, dove tutto si ferma e si compie. “Io, sono io, sempre io” cantava Modugno, ma se in quel caso c’era un “io che amo te”, e quindi il riflesso dell’io nell’amore, mentre l’io malato ha la sua deformazione nello squallore.
L’egoità amorale
Negli anni ’50 il sociologo americano Banfield individuò in un lontano villaggio calabrese il principio del familismo amorale, in nome del quale, ovvero dell’affermazione della famiglia ogni azione era giustificata, dal matrimonio d’interesse al delitto. Mutuando lo stesso principio, in Sicilia, negli ambienti permeati dalla subcultura mafiosa, tale caratteristica, che pur trova riscontri, si restringe ulteriormente e trova il suo nucleo fondamentale nell’io, attorno a cui ruota tutto il resto e in nome del quale tutto è ammesso e giustificato. Dal familismo lo spazio si riduce all’”egoità amorale”, una riduzione sociale dell’eliocentrismo, dove il rapporto intersoggettivo si estrinseca in un individualismo esasperato e nel rifiuto di forme associative. L’individuo assume se stesso come centro dell’universo, ritiene il suo modo di essere e di pensare come “il migliore possibile”, trova una possibilità di scambio solo nella misura in cui riscontra qualche affinità tra la propria impostazione ideologica e Ie altre, purché queste non interferiscano con il suo “privato” e purché siano finalizzate o finalizzabili, al proprio utile. Ne consegue inevitabilmente la refrattarietà a qualsiasi stimolo di innovazione o di mutamento sociale. Dal momento che questo individuo “sa tutto”, non si sforza di sapere altro, perchè sarebbe inutile, e rifiuta qualsiasi tipo di intervento esterno che contraddica o metta in discussione la globalità della sua presunta cultura, diventata visione del mondo che non ha bisogno di particolari contenuti e conoscenze: pertanto Ia cultura, come proposta che viene dall’esterno, se riproduce la propria cultura è approvata e accettata, ma non ha bisogno di essere conosciuta o approfondita, perchè già la “si sa”; se offre caratteristiche o prospettive diverse, se non opposte, se è “altra cultura”, dal momento che la propria è giusta, qualsiasi altra è sbagliata, né, tantomeno ha bisogno di essere conosciuta. Il tratto conservatore di questa “cultura” è chiaro: lo spazio per I’innovazione è strettissimo e si conquista, ma non sempre, solo con una evoluzione lenta e faticosa, con un lavoro costante e una presenza sempre attiva. Il possibile modo attraverso cui avviene il rapporto con il discorso culturale è dato da uno di questi atteggiamenti:
1) la condanna, associata per lo più a forme di diffamazione nei confronti della persona che ne è espressione, ove trattasi di controcultura che tenta di mettere in discussione i tratti della subcultura istituzionalizzata;
2) Ia sopportazione, ove tale controcultura possieda qualche elemento incontrovertibile di ragione e di consenso, che tuttavia non arrivi a danneggiare quell’insieme di base radicalizzato che la comunità ha assunto come principio guida caratterizzante;
3) l’ignoranza totale, deliberatamente scelta, rispetto a qualsiasi iniziativa, quando questa richieda una partecipazione, anche senza risvolti pratici;
4) la partecipazione sporadica delle poche forze che si autodefiniscono “intellettualità”, intesa come segno di consenso, a quelle iniziative che contengono indicazioni politiche predeterminate e circoscritte nell’ambito del tradizionale gioco del potere;
5) I’atomizzazione delle scelte di dissenso o di alternativa, quasi una volontà di occultamento, di oscura vergogna e di autocolpevolizzazione nell’operare devianze che la maggioranza non condivide.
Tale generica forma anarcoide di ribellione, tipica del momento di formazione della personalità, finisce presto con l’essere riassorbita e con lo sciogliersi nella palude generalizzata dell’insipienza comune che uccide qualsiasi energia creativa. Alla base di tutto si cementa la “cultura dell’amicizia” (siamo tutti amici, o “amici degli amici”), con la quale qualsiasi tensione sociale viene ricomposta tirando in ballo contatti interpersonali, parentele, conoscenze attraverso cui è possibile attuare meglio i ricatti, per arrivare alla conclusione che “siamo paesani”, “quello è un figlio di buona famiglia”, “tuo padre era amico del mio”, ci scontriamo, sì, ma per dare agli altri l’impressione che ognuno di noi vale qualcosa e tira acqua al proprio mulino, poi possiamo andare a prendere il caffè assieme, continuare a farci i fatti propri, pronti a reincontrarci, se uno avesse da chiedere un favore all’altro.
Al di là di qualche forma di paura o di timore riverenziale da parte di chi subisce, si contrappone il “rispetto”, guadagnato attraverso l’uso della violenza, la capacità di mediazione, la sapienza nella divisione della torta ai componenti del gregge che ti gratificano offrendo il consenso, guadagnato col terrore.
L’io di ogni singolo individuo si identifica e riflette l’io del “capo”, del mafioso, del boss, del politico, del signorotto locale. Nella stessa misura in cui quest’io promana raggi e luce, così lascia convergere verso di sé un reticolo complesso di fili che interessa gli individui da lui frequentati e scelti in base al principio di uno squallido utilitarismo, ovvero di un’“amicizia funzionale”, dove il rapporto con l’altro ha un senso solo se mi torna utile, se ne ho un qualche positivo riscontro. Senza escludere l’altro conseguente aspetto della diffidenza nei confronti di tutti, dal momento che si crede che tutti gli altri la pensino nel tuo stesso modo, e che quindi, come fai e faresti tu, siano pronti ad ingannarti o a cercare attraverso la tua persona il proprio tornaconto. “Megghiu sulu nca malu accumpagnatu”, “Ognunu godi lu statu chi è”, “Amici e vàrdati” ecc.: la paremiologia è ricca di proverbi che illustrano e consigliano queste caratteristiche. Naturalmente non esiste l’apprezzamento per particolari doti, come la capacità di provare sentimenti, di emozionarsi, di costruire reciprocamente progetti di crescita comune. Non esiste la cooperazione, non la collaborazione, non l’assistenza reciproca, non la tolleranza, non la solidarietà. Solo il proprio io e il suo utile. Questo modo di essere è presente nel villaggio, nel paese, nella città composta da microcosmi, ovvero dalle singole fortezze in cui ognuno è chiuso e arroccato.
(Antimafia Duemila 12 dicembre 2018)
Amore che vieni, amore che vai
Dal familismo all’amore familiare
Da quando nel 1958 il sociologo americano Banfield coniò il “familismo amorale” (“Le basi morali d’una società arretrata”), il termine “familismo” ha progressivamente assunto un significato negativo. Anche l’Enciclopedia Treccani, nella sua definizione scrive: “Nel linguaggio della sociologia, la tendenza a considerare la famiglia, con il suo sistema di parentele, con la sua tradizione, la sua posizione sociale, e soprattutto con il legame di solidarietà interno tra i suoi membri, predominante sui diritti dell’individuo e sugli stessi interessi della collettività”. L’amoralità sarebbe una sua aggravante, nel senso di giustificare, al di là delle valutazioni morali, tutto quello che viene fatto per l’affermazione della famiglia e assumere questa come la regola accettata da tutti i componenti della comunità. In molti casi si dovrebbe parlare di familismo a-sociale, a-civico, a-politico, a-legale ecc., ma l’amoralità finisce anche per giustificare il furto, il delitto e tutto ciò che favorisce il potere e l’affermazione della “famiglia”, trasformandosi in immoralità.
Si esclude in tal modo, o si riduce la valenza positiva del rapporto d’amore tra i vari membri della famiglia e del forte legame di solidarietà che la tiene unita nel contesto dei reciproci affetti. E in realtà, escluso il familismo, non si trova un vocabolo unico che definisca l’amore parentale-familiare, eccetto il greco “storghe”, che sarebbe la prima delle quattro forme d’amore per i Greci, cui segue la “philia” (l’amicizia), “l’eros”, ovvero il rapporto emotivo, sentimentale ed erotico, e l’“agape”, ovvero l’amore spirituale, che si eleva dai sensi alla pura razionalità, e che nelle esperienze mistiche conduce alla “kenosis”, ovvero allo svuotamento di se stessi e all’accettazione totale della volontà della divinità o, per rimanere in terra, all’identificazione del proprio essere in quello della persona amata, “ut unum sint”. L’opposto di quell’ egocentrismo che vede prima in se stessi e poi nel gruppo di appartenenza, che diventa un’estensione di se stessi, il senso dell’esistenza e la giustificazione delle sue scelte. Il rapporto sociale, intersoggettivo, ha un senso e vale solo se ha una funzione strumentale e utilitaristica volta al potenziamento del sé e del nucleo attorno a sé : “tutto quello che può servirmi è quello che per me vale”.
Gli anni ’60 hanno segnato quella che Cooper definiva “La fine della famiglia”, attraverso una sorta di riscoperta delle linee guida scritte da Engels nel suo “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato”. La famiglia è, in questa lettura, il luogo dove si perpetua l’oppressione e la subalternità fra i sessi e fra genitori e figli. Il luogo dove la donna è schiava della casa e della famiglia e l’uomo, suo malgrado, è il veicolo di tale oppressione e schiavitù. Engels chiarisce come la schiavitù e l’oppressione della donna nella famiglia e nella società non sono sempre esistite, ma che iniziano con la nascita della famiglia monogamica , responsabile della schiavitù domestica della donna, e con il successivo avvento della proprietà privata e della divisione della società in classi. In questo contesto la famiglia borghese diventa la base su cui si fonda e si alimenta il sistema capitalistico, sia attraverso la riproduzione di forza-lavoro (i figli), sia attraverso la sua struttura piramidale, che trasmette le regole comportamentali e l’istruzione attraverso cui si afferma il potere delle classi dominanti.
Gli “Studi sull’autorità e la famiglia” della Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer, Marcuse, Fromm) hanno approfondito questo solco, individuando le strutture autoritarie che strutturano i sistemi educativi e predispongono alla perdita dell’autonomia di giudizio, alla identificazione nel padre, nel leader, nella uniformità della massa, all’introiezione di tali modelli e alla loro costante trasmissione generazionale. Sono gli anni in cui dilagano i fascismi e le facili demagogie per catturare il consenso delle masse, ovvero i populismi. In tal senso la famiglia rappresenta la base, il livello di partenza per conquistare e trasmettere il consenso. Ed è quindi un’entità politica, al di fuori degli aspetti emotivi che sono in gran parte banditi. Si pensi alla rigida educazione dei figli dei benestanti inglesi, ai quali non era consentito alcun gesto d’affetto reciproco, anche se poi non c’erano tante differenze con i figli, le mogli, i padri e le madri dei napoletani , che ancora, negli anni ’50 si davano del “voi” o dei siciliani, che si davano del “lei”, ovvero del “vossia”, (forma sincopata di “vostra signoria”).
Non meno problematica la posizione della Chiesa Cattolica, della quale l’ultima analisi è stata tracciata da papa Francesco nella “Amoris laetizia” con l’obiettivo di rileggere e adeguare le posizioni della Chiesa rispetto alle mutate condizioni dei tempi. Il papa scrive: “ E’ un sentiero di sofferenza e di sangue che attraversa molte pagine della Bibbia, a partire dalla violenza fratricida di Caino su Abele e dai vari litigi tra i figli e tra le spose dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, per giungere poi alle tragedie che riempiono di sangue la famiglia di Davide, fino alle molteplici difficoltà familiari che solcano il racconto di Tobia o l’amara confessione di Giobbe abbandonato: «I miei fratelli si sono allontanati da me, persino i miei familiari mi sono diventati estranei. […] Il mio fiato è ripugnante per mia moglie e faccio ribrezzo ai figli del mio grembo» (Gb 19,13.17)”. L’abbandono del tetto familiare è un passaggio inevitabile, “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne» (Gen 2,24), anche per lo stesso Cristo che abbandona i genitori (“il mio regno non è di questa terra”) per andare a predicare nel tempio e per i discepoli che abbandonano la famiglia per seguire Cristo. Del resto già quella di Cristo è una strana famiglia, con uno dei suoi componenti in un ruolo “ombra” rispetto alla moglie che non è moglie e a un figlio di cui non è padre. In difesa della famiglia Bergoglio ribadisce l’indissolubilità del matrimonio, l’obiettivo della procreazione, il divieto dell’aborto, ma rivede interamente i passaggi di sottomissione della donna all’uomo rivendicandone un ruolo paritario. C’è poi la condanna di “un individualismo esasperato che snatura i legami familiari e finisce per considerare ogni componente della famiglia come un’isola, facendo prevalere, in certi casi, l’idea di un soggetto che si costruisce secondo i propri desideri assunti come un assoluto”, per arrivare alla conclusione che “Nel cuore della famiglia, la persona si integra con naturalezza e armonia in un gruppo umano, superando la falsa opposizione tra individuo e società.
Il venir meno di alcune forme d’autoritarismo, non certo la loro scomparsa, è servito ad annodare i rapporti familiari, a generare forme d’intesa e di “complicità”, ad avviare dialoghi e nell’illusione di stabilire un rapporto d’amicizia, da parte del genitore, che comunque nasconde sempre il tentativo di non perdere il controllo del figlio e di alimentare forme di iperprotezione nel momento in cui costui si ritiene vittima di un’ingiustizia, mentre, da parte del figlio c’è una sorta di prolungamento dell’incertezza esistenziale nella certezza del genitore. La crisi degli ultimi anni ha acuito la responsabilità che i genitori affidano a se stessi di “costruire il futuro” dei figli, ma anche di continuare ad assisterli, a tenerli a casa, nel momento che non ci sono disponibilità di lavoro né certezze sull’organizzazione del domani. Si è cercato di definire coloro che, per vari motivi rimangono nella casa paterna con una serie di epiteti, come mammoni, bamboccioni che tendono a scaricare sugli stessi giovani, quasi fosse colpa loro, la difficoltà di trovar casa e lavoro. Costoro esistono, trovano comodo farsi nutrire e assistere ma non sono certamenmte la maggioranza di quelli che restano a casa. Il 66% di giovani in Italia vivono ancora in famiglia oltre i 30 anni rispetto al 3,2% in Danimarca e al 4,7% in Finlandia, rispetto a una media europea del 30,6%. Sul Fatto Quotidiano del 15 novembre 2018 la giovane ricercatrice italiana Silvia Ronchi, emigrata a Basilea si chiedeva: “Con 1000 euro al mese come fai a vivere?”. E si pensi che il reddito di cittadinanza individua la cifra minima di sopravvivenza in 780 euro al mese. Ma c’è chi annaspa con molto di meno alla ricerca del lavoro che non c’è: nel decennio della crisi (2008-2017) nella sola Sicilia si sono persi ben 160 mila posti di lavoro, che il tasso di disoccupazione si aggira tra il 21 e il 30%, che i giovani “Neet”, che hanno rinunciato a tutto, non lavorano e non studiano, sono 483 mila, e che, secondo l’ultimo studio della CGIL Sicilia, ben 260 mila famiglie, pari al 12% e circa 600 mila persone vivono sotto la soglia di povertà assoluta, mentre il 26%, cioè più del doppio, vive in condizioni di povertà relativa, ovvero sotto il continuo incubo di ritrovarsi totalmente poveri davanti a un qualsiasi imprevisto, come una malattia o un incidente. Non si tratta pertanto di sviscerato amore dei giovani maschi nei confronti delle loro mamme o delle madri nei confronti dei figli, come spacciato dai giornalisti di varia provenienza, ma di trovare un minimo di sostegno e di sopravvivenza sotto il tetto familiare, dove qualcuno ancora dispone di una pensione.
Per contro i flussi migratori verso altre regioni o nazioni alla ricerca di lavoro hanno scavato fiumi di dolore e di tristezze sia nei genitori, sia nei figli costretti a scegliere l’incertezza per il certo, il lavoro e l’autonomia rispetto alla disoccupazione e alla dipendenza familiare.
In un post su Facebook il 5.01.2019 a firma Nanni Barbaro, si osservava che nei giorni successivi alle feste o alle ferie le case paterne si svuotano d’allegria e si riempiono di tristezze, i ragazzi ripartono, finisce l’incanto, l’euforia delle allegre tavolate, delle vigilie, di cenoni e pranzi, le case ritornano vuote, fredde, magari più pulite, ma essi non ci sono più. Il sorriso di chi li ha visti nascere e crescere, giocare, studiare, amare, si ritrae nella rassegnazione. In macchina o in aereo l’ultimo sguardo, non sai nemmeno se è l’ultima volta. Vanno a consumare il resto dell’anno nelle solitudini metropolitane, in città linde ma anonime, dentro stanze disadorne e senza il calore. E’ il prezzo del nascere al sud. E’ uno dei costi più alti che il sud ha pagato e continua a pagare, ovvero il dolore per la forzata interruzione del rapporto familiare. E’ condanna, lacerazione degli affetti, spandersi di solitudini, lontananze ed attese divorate dal tempo, fine anche della consanguineità, abbandono della memoria, riduzione fantasmica del proprio vissuto. Quando nascono sappiamo già che un giorno ci lasceranno, li lasceremo andare. Li ritroveremo a Natale o in estate , attorno alla tavola, nella loro stanza rimasta com’era, davanti a questo mare bellissimo, davanti a questa sbronza quotidiana di luce, davanti a questa fissità dell’essere, dove tutto sembra compiuto, senza essere neanche cominciato.
Mi ritrovo a discutere su questa dinamica degli affetti familiari, dopo essere stato, nel ’68 un deciso contestatore della famiglia, uno che ripeteva lo slogan “la famiglia è ariosa e stimolante come la camera a gas”, che viveva la dipendenza economica familiare come un ricatto, con l’obbligo di seguire scelte non condivise, uno che leggeva tutto il meccanismo educativo familiare come momento di trasmissione autoritaria e di riproduzione di idee e contenuti violenti e ipocriti, da quelli religiosi a quelli morali, a quelli politici. Mi ritrovo davanti Peppino Impastato che si veste a lutto dopo la morte del padre, e Luigi Impastato che mi diceva: “Glielo dica lei, che ha la testa più a posto, non mi interessa se fa politica, mi basta che si mette a studiare e si prende un pezzo di carta ”: strano intreccio di amori negati e sempre presenti. Mi ritrovo dopo anni di assenza, a portare un fiore sulla tomba dei miei genitori, a rivederne i fotogrammi in alcune fasi della mia esistenza e a spiegarmi le motivazioni dei loro atteggiamenti spesso conflittuali nei miei riguardi. Mi ritrovo nelle tracce dorate dell’infanzia, dove ancora posso divertirmi con un nipote. E ancora, mi ritrovo a intristirmi al pensiero di non avere fatto tutto quello che avrei potuto o dovuto fare per dare ai figli una qualche dignitosa prospettiva di vita, secondo i canoni sociali correnti, solo per la mia ostinazione nel non voler essere complice dei perversi e criminali meccanismi con cui la classe agiata comanda e si riproduce. Non il familismo, non le false regole, ma semplicemente l’amore familiare, il rapporto interpersonale, il piacere di un abbraccio o il dispiacere di un addio, la divisione del pane, (“cum panis”) per cui si diventa “compagni”, anche con i propri familiari.
(Antimafia Duemila 9 gennaio 2019)