La giustizia per Fabrizio De Andrè (Pietro Cavallotti – Salvo Vitale)

La giustizia

 Giustizia

“Giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male”. “E di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio, prima di genuflettermi nell’ora dell’addio, non conoscendo affatto la statura di Dio”.

<<Un giudice è senz’altro la personale storia di un nano che studia giurisprudenza e diventa giudice vendicandosi così della sua infelicità attraverso il potere di giudicare e condannare (giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male), incutendo timore a coloro che prima lo deridevano; inginocchiandosi però nel momento dell’addio, non conoscendo affatto la statura di Dio. Come in Un matto [Dietro ogni scemo c’è un villaggio] la vicenda è incentrata sul tema dell’invidia, che diventa ancora una volta il motore dell’agire del personaggio; in questa canzone De André mostra come l’opinione che gli altri hanno su di noi ci crei disagio e sconforto. Il giudice diventa una carogna, per il semplice fatto che gli altri sono sempre stati carogne con lui, e che trova nella vendetta l’unica cura possibile.

Se questo è il piano psicologico della canzone, ne consegue che viene letteralmente fatto a pezzi lo stereotipo del giudice come incarnazione stessa dell’ “equilibrio”, un equilibrio che -non scordiamolo- dovrebbe essere applicato, sulla base della “legge”, per giudicare altre persone ed i loro atti dichiarati non conformi all’umana convivenza. In poche parole, nella figura del Giudice di De André e Lee Masters viene messa in totale discussione la stessa “giustizia”. In quanto amministrata da uomini, tutti con le loro vicende, essa semplicemente non può esistere. La canzone si conclude infatti con sentenze di morte: il condannato, quindi, non paga tanto per i suoi atti, quanto per il desiderio di vendetta di un infelice invidioso e bersagliato dalle maldicenze e dalle derisioni. E’ una cosa pienamente umana; disumana passa ad essere la “giustizia” che non ha nessuna possibilità di sfuggire a tutto questo.

Quando poi la “giustizia” viene abbinata, come è giocoforza che accada, al potere ed alle sue esigenze totalizzanti, le singole vicende di chi giudica si trasfigurano nell’obbedienza e nell’immanenza ad un disegno più vasto. Parlare di “giustizia imparziale” è quindi soltanto una chimera, una menzogna che si ammannisce sapendo di mentire. Leggi, codici, tribunali: di esempi non ne mancano certo nella storia. Sarebbe interessante, ad esempio, conoscere nel dettaglio la vicenda umana di un giudice come Roland Freisler. Ma anche senza andare al giudice nazista del Volksgerichtshof e di tutti gli altri che, in ogni paese, hanno servito il potere nei tribunali speciali, si possono trovare decine di esempi di tutto ciò anche nei giudici ordinari, nel cosiddetto “giudice naturale” da cui nessuno può “essere distolto” nel testo della Costituzione della Repubblica Italiana.

Chi si trova, per qualsiasi motivo, ad essere giudicato in un tribunale, dovrebbe tenerlo sempre presente. La sua vita, in forme che vanno dalle più lievi a quelle estreme (come la stessa morte), non è delegata a nessun “concetto”, a nessuna idea astratta, ma ad una persona che è sempre quel che la sua vita la ha fatta divenire. Può trovarsi di fronte ad una persona degnissima, perché è chiaro che vi sono persone assolutamente perbene anche tra i giudici, come di fronte ad una carogna come il giudice Selah Lively (cognome che significa, ironicamente, “vivace”); il problema non è questo. Il problema è che si trova davanti ad uno Stato che si arroga il diritto di giudicare le vite altrui, demandando generalmente tale diritto a persone. La cosiddetta “imparzialità” viene quindi ridotta ad una semplice questione di fortuna, una vera e propria roulette russa. I cosiddetti “errori giudiziari”, al di là delle circostanze che possono produrli, sono anche e soprattutto il frutto di tale menzogna di base, così come lo è tutto il “diritto” in blocco. Una menzogna per molti necessaria, ma la cui vera natura non dovrebbe mai essere persa di vista. Naturalmente non è affatto un caso che una canzone come questa, che è una bomba a orologeria, sia stata concepita da un anarchico come Fabrizio De André.>> (Pietro Cavallotti)

tributo a Fabrizio De Andrè
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Salvo Vitale: “La giustizia” per Fabrizio De Andrè

Quello della giustizia è un tema ricorrente nelle canzoni di Fabrizio de Andrè. Lo troviamo, agli inizi, in Geordie, che viene condannato a morte per avere rubato sei cervi nel parco del re:

“nè il cuore degli inglesi nè lo scettro del re
Geordie potran salvare
anche se piangeranno con te
la legge non può cambiare”

Qui la legge è superiore addirittura alla stessa autorità del re.
La trasgressività di De Andrè compare in “Boccadirosa”, dove la bellezza travalica le umane regole della legge e tutti, considerato che

“spesso gli sbirri e i carabinieri
al proprio dovere vengono meno
ma non quando sono in alta uniforme

si precipitano alla stazione successiva per accogliere chi “portò l’amore nel paese”:

“persino il parroco che non disprezza
tra il miserere e un’estrema unzione-
il bene effimero della bellezza –
la vuole accanto in processione”

In una dimensione religiosa della giustizia, come in “Preghiera in gennaio”, scritta per Tenco, l’appello per il perdono ai suicidi è fatto al “Dio di misericordia”, forse il solo che può cambiare qualcosa per intercessione degli uomini. Scendendo sulla terra troviamo, nel “Recitativo” degli impiccati compreso nel cd “Tutti morimmo a stento” questa triste considerazione sulla giustizia che commina la pena di morte:

Giudici eletti, uomini di legge,
noi che danziam nei vostri sogni ancora
siamo l’umano desolato dregge
di chi morì con il nodo alla gola

Quanti innocenti all’orrenda agonia
votaste decidendone la sorte
e quanto giusta credete che sia
una sentenza che decreta morte?

Si potrebbe scorrere ancora da “Delitto di paese” a “La città vecchia” a “La ballata del Michè,”, dove la pietà, la considerazione che l’errore fa parte della stessa essenza umana sono l’unica possibile via per non lasciarsi rendere schiavi dalle gelide regole della giustizia.
La stessa pietà che ne “il pescatore” il vecchio, che è poi Dio dimostra attraverso “l’ombra di un sorriso” verso l’assassino che ha condiviso con lui il pane. “Che la pietà non vi sia di vergogna”
Ne “Il testamento di Tito” c’è un passaggio costante attraverso la giustizia degli uomini, con tutte le sue perversioni , attraverso i giudici che “lo sanno a memoria il diritto divino e scordano sempre il perdono”: è quella giustizia che, in nome delle sue regole non esita a uccidere anche il figlio di dio e ad assimilarlo a un comune ladro.
“Guardatela oggi questa legge di Dio
tre volte inchiodata sul legno:
guardate la fine di quel nazareno
e un ladro non muore di meno”

De Andrè raggiunge la punta più alta del suo rapporto con l’umana giustizia ne “Il gorilla”, dove un “giovane giudice” con la toga è violentato da un gorilla arrapato: una sorta di “contrappasso” per chi applica la giustizia con disinvoltura senza pensare che, al di là di ogni imputato c’è un uomo: Il giudice ha quello che si merita.

“Dirò soltanto che sul più bello
dello spiacevole e cupo dramma
piangeva il giudice come un vitello
negli intervalli gridava “mamma”

Gridava mamma come quel tale
cui un giorno prima, come ad un pollo,
con una sentenza un po’ originale
aveva fatto tagliare il collo.

E infine, per chi è immerso come in “Sogno numero due”, “nel ruolo più eccitante della legge,
quello che non protegge:la parte del boia”, c’è un epitaffio finale rivolto all’imputato:

“Ascolta,
una volta un giudice come me
giudicò chi gli aveva dettato la legge:
prima cambiarono il giudice
e subito dopo la legge”.

Conclusione: non esiste un’idea platonica di giustizia, la giustizia in assoluto, la dea che ha la bilancia in mano con i due piatti perfettamente uguali: esiste la giustizia degli uomini con i suoi errori, con le interpretazioni che ne danno gli uomini, con le metamorfosi che essa subisce, nel tempo e in rapporto alle circostanze e con una particolare attenzione ai potenti che l’hanno in mano, la volgono a proprio uso e consumo e, quando si rivela per loro scomoda la cambiano. Ma già i Sofisti greci, Prodico, Trasimaco, Antifonte, tutto questo lo avevano intravisto.
(S.V.)

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