La ragione e il torto
Uno dei maggiori errori degli uomini è quello di pensare che l’uno pensi allo stesso modo con cui pensa l’altro, che usi gli stessi parametri mentali , che esistano “categorie” comuni che rendano omogeneo il giudizio e la valutazione di fatti e idee. E’ vero che da sempre gli uomini hanno cercato di regolarizzare il pensiero, di imbragarlo in schemi preordinati , a partire dalle “idee” platoniche, alle categorie aristoteliche, alla metodologia cartesiana, alle forme a priori kantiane, ai noemi fenomenologici, per arrivare agli archetipi junghiani, ai significanti epistemologici e linguistici. Tutto ciò ha finito per essere un limite e un ostacolo al libero sviluppo della creatività. Abbiamo realizzato un domicilio abituale di banalità, di quotidianità, di normalità, rispetto al quale tutto quello che riesce a rompere il muro, ad andare oltre i “cocci aguzzi di bottiglia” (Montale), a procurare evasioni, diventa genialità, arte, esercizio dedicato a pochi individui che hanno il coraggio di evadere dalla “caverna”, agli eroi, ai campioni. Naturalmente “io penso che tu debba pensare allo stesso modo con cui io penso” crea attriti, scontri dialettici, ulteriori barriere tra chi invece usa parametri di valutazione diversi in rapporto al proprio vissuto, al proprio habitat in cui ha realizzato le proprie valutazioni e le proprie concezioni, ma anche in rapporto a chi riesce ad usare i sistemi di comunicazione per raggiungere più persone e a far credere che le proprie ragioni siano le sole accettabili. Un parametro fondamentale e poco considerato è quello dell’età: uno, dieci, venti , trenta anni di distacco spesso segnano diverse posizioni e angoli di visuali motivati da differenti esperienze, che l’interlocutore non valuta adeguatamente, convinto che l’altro debba pensare e giudicare allo stesso modo. Ne conseguono incomprensioni, prese di distanze, giudizi distorti, arroccamenti sulle proprie posizioni, prevaricazioni. Al confronto e all’incontro si sostituisce e si preferisce lo scontro e il diverbio, il tentativo di mettere all’angolo la controparte, di interromperla e di parlarle addosso per evitare che la sua ragione, la sua motivazione, possa essere ascoltata e valutata. Quello che succede nei vari talk show televisivi , nei salotti cui partecipano spesso personaggi di bassa levatura che a seguito di impreviste o insperate circostanze sono assurti in qualche carica importante, spesso assume caratteristiche surreali e disgustose, soprattutto se relazionato al livello di ignoranza, tanto più alto quanto la pretesa di rifiuto del dialogo costruttivo, sino ad arrivare alle urla, all’offesa, alla monotona ripetizione del luogo comune e delle banalità propagandistiche che si vogliono far passare per verità. Il tutto tra la soddisfazione del conduttore, che crede di aumentare l’audience e tra il disgusto dello spettatore che cambia canale. Purtroppo non esistono o sono difficili le possibilità di intermediazione affidate al dialogo, al confronto costruttivo tra posizioni diverse. Prevalere sull’altro significa aumentare il proprio senso di potenza, autogratificarsi e sentirsi meglio realizzato. E qua si aggiunge un elemento che, con l’avanzare dell’età diventa caratteristico, talvolta patologico, ovvero l’arroccamento nel proprio “io”, una concezione eliocentrica dell’io che diventa il polo unico di riferimento e comporta il richiamo alle proprie esperienze, il citare i propri interventi e i risultati del in passato, il ripetere costantemente io…., io ho fatto, io l’avevo detto, mi ricordo che, io te lo dicevo, io allora se…, nel rifiuto di relazione con l’altro e della possibilità che il parere dell’altro possa servire come fonte di arricchimento. Chiusure ed arroccamenti fagocitano aperture e scambi, sino al presentarsi di mostruose metamorfosi in forme di odio, di fanatismo, di intolleranza, di disprezzo. Per non parlare della mancata considerazione, oltre che per l’età, anche dell’handicap, di provenienze religiose e politiche, di condizioni economiche e di diversi bagagli culturali. E quando si vuole dare più forza alla strumentalizzazione di un episodio, si ricorre all’iperbole, ovvero all’esagerazione mediatica, la riduzione catastrofica dell’evento, il colpo di stato, l’invasione di stranieri. Un particolare che possa creare una reazione emotiva viene gonfiato, strumentalizzato sino all’esasperazione e finisce con l’oscuramento del dato reale, nascondendo l’esistenza di altri più seri problemi. L’aborto o l’eutanasia diventano un delitto, il reddito di cittadinanza comporta la fine della povertà, un delitto, specie se consumato da extracomunitari, vuol dire mancanza di sicurezza, un esempio di malgoverno ad opera di una forza politica è assunto come identità da attribuire all’intera forza politica coinvolta.
In questa presuntuosa spinta interiore verso l’imposizione della propria tesi con qualsiasi mezzo, senza scrupoli e senza rispetto di regole dialettiche, sembra quasi perdersi nel vuoto l’indicazione di Voltaire: “La tolleranza è una conseguenza necessaria alla nostra condizione umana. Siamo tutti figli della fragilità: fallibili e inclini all’errore. Non resta, dunque, che perdonarci vicendevolmente le nostre follie”. Nel nostro tempo pochi sono disposti a tollerare, a relazionarsi a in-tendersi, a in-tenzionarsi, a com-prendere, a costruire insieme o, tantomeno, a dividere con l’altro il proprio surplus.