Le leggi, la mafia, lo stato, in nome dell’emergenza (Antonio Minaldi)
Ho trovato sul profilo di Pietro Cavallotti questo articolo del prof. Antonio Minaldi, docente di filosofia, storico e mitico esponente dei Cobas scuola, del quale avevo perso da tempo il contatto, e lo pubblico volentieri. (S.V.)
“Era un pomeriggio di maggio di tanti anni fa. Tempi di contestazioni e di rivolta. Eravamo chiusi nel nostro box della facoltà di lettere alle prese con un ostico “frammento delle macchine” del nostro amato Marx, quando un compagno entrò, sudato e col viso sbiancato. “Hanno ammazzato Peppino” disse. Ci fu un attimo di smarrimento. “Peppino chi?” aggiunse qualcuno (Allora non avevamo ancora eroi da citare a memoria). “Peppino Impastato! Dicono un attentato terroristico finito male!”. Ma noi capimmo subito cosa era successo.
Al suo funerale sfilammo in migliaia sotto il suo balcone dove stavano affranti la madre e il fratello. I nostri slogan e i nostri striscioni erano chiari: Era stata la mafia! “d’altra parte dovevamo aspettarcelo. – disse qualcuno – Non puoi irridere un capomafia riconosciuto e potente, chiamandolo “Tano seduto”.
Io non lo sapevo ancora, ma in quel giorno, nella mia “agenda esistenziale”, si chiudeva una fase della storia della mafia. Nei miei ricordi tutto era cominciato un giorno d’estate del 63, quando ragazzino passeggiavo con mio padre nei pressi della stazione dei Palermo, e d’improvviso sentimmo le auto della polizia attraversare la piazza a sirene spiegate. “E’ successo qualcosa di grosso” disse mio padre. In effetti si era da poco consumata la strage di Ciaculli. Sette uomini delle forze dell’ordine morti. Mi ricordai allora di mio zio, maresciallo dei carabinieri proprio della stazione di Ciaculli, che si lamentava dei suoi superiori che chiedevano in regalo ai Greco, boss della zona, cassette d’arance per sè e per gli amici. Avrei poi capito che non c’era nulla di strano. Da tempo, e ancora fino agli anni ottanta, lo Stato gestiva il controllo del territorio in stretta collaborazione con la mafia. E’ a tutti noto, anche se in genere non viene detto, che conflitti sociali e ordine pubblico venivano gestiti dalla collaborazione tra carabinieri locali e boss di zona. Ma i carabinieri non avevano colpe! Gli ordini venivano dall’alto per precise scelte politiche a cui non si poteva che ubbidire. Si sa d’altra parte dei rapporti stretti tra le cosche e i notabili democristiani. Io penso tuttavia che quelle vicende oltre e più che appartenere alla storia criminale del nostro paese appartengano alla nostra storia politica.
Erano gli anni della divisione del mondo in blocchi e della guerra fredda e l’Italia era una pericolosa terra di confine. Per le forze politiche nazionali (soprattutto la DC al governo e il PCI all’opposizione) l’imperativo categorico era che la situazione non precipitasse. Il PCI gestiva le lotte ma facendo attenzione che non prendessero una piega troppo “rivoluzionaria”. La DC, la grande “balena bianca”, doveva invece assicurare che la pace sociale regnasse sovrana. Per questo bisognava trovare alleati nei territori. Se in Emilia c’erano le cooperative rosse bisognava trattare con loro, se in Sicilia c’era la mafia bisognava prenderne atto.
Ma tutto era destinato a cambiare negli anni ottanta. Il vero motore di quel felice periodo di lotta alla mafia fu la fortunata congiunzione tra una nuova coscienza civica che dal basso coinvolgeva per la prima volta ampi strati popolari, e per altro verso la nascita all’interno della magistratura del pool antimafia di Caponnetto. Sono gli anni del maxi processo, ma sono anche gli anni delle prime associazioni della società civile. La fine di questo periodo è legato alle stragi in cui perirono Falcone e Borsellino e alla risposta popolare passata alla storia come “La Palermo dei lenzuoli” esposti dai cittadini per dire no al malaffare. Anche la fine di questo periodo è legato per me a un ricordo particolare. L’ultima uscita pubblica prima di essere ammazzato di Paolo Borsellino, nell’incontro di Casa Professa. Tanta gente! Ma in realtà solo giornalisti, militanti di base e gente comune. Nessun politico. Nessun uomo delle istituzioni. Nessuno di quanti sarebbero accorsi in massa alle commemorazioni di rito negli anni a venire.
Da quel momento inizia quella pratica antimafia che porta fino ad oggi e che si caratterizza innanzitutto per un ritorno alla centralità dell’iniziativa istituzionale fondata sull’uso di una legislazione speciale antimafia, che gioco forza pone in secondo piano i movimenti della società civile, pur ancora esistenti e significativi, per riaffermare l’esigenza prioritaria del controllo sociale.
Il concetto stesso di leggi speciali lascia molti dubbi rispetto al necessario rispetto dei valori e delle regole dello Stato di diritto, a maggior ragione nel nostro paese dove il principio costituzionale della rieducazione del condannato viene spesso applicato aprioristicamente distinguendo i “tipi d’autore” tra “rieducabili” e “non rieducabili” producendo per un verso pratiche apparentemente e formalmente “buoniste” (solo in Italia si usano termini come “pentiti” o misure “premiali”) che banalizzano il recupero in una semplice questione di “misura della pena”, e per altro verso logiche giustizialiste come quelle legate all’ergastolo ostativo.
Un discorso a parte meritano le cosiddette misure preventive. Va da sè che il concetto di prevenzione è del tutto estraneo al diritto penale. I crimini si giudicano nella loro effettività e si prevengono essenzialmente con misure sociali. Eventuali misure di prevenzione devono essere ammesse come eccezioni solo in casi e circostanze speciali, seguendo la massima prudenza e alcuni inderogabili principi. Innanzitutto e fondamentalmente le misure di prevenzione dovrebbero comportare il minimo di afflizione per chi le riceve, e dovrebbero sempre essere legate agli esiti di un processo penale, o comunque basarsi su fatti circostanziali e accertati come veri.
Purtroppo nell’attuale legislazione antimafia e nella concreta attuazione delle misure restrittive, le cose non stanno così. Solo per restare al solo caso dei sequestri dei beni a mafiosi o presunti tali, i disastri compiuti sono ormai innumerevoli tanto da rappresentare la regola piuttosto che l’eccezione. Interi patrimoni distrutti e famiglie gettate sul lastrico senza una vera accusa e senza una prova. Un accanimento che ha colpito cittadini assolti in sede penale e in modo definitivo, a volte con la beffa della restituzione di aziende ormai fallite e ridotte a cumuli di macerie.
Come è stato possibile tutto questo?
Credo che ai mali storici della giustizia italiana, ad alcuni dei quali abbiamo appena accennato ma che meriterebbero ben altro approfondimento, si è sovrapposta la logica perversa dell’emergenza e dello stato d’eccezione, fondata, e giustificata, da una sorta di panico da “ pericolo imminente”. Sono rimasto letteralmente basito nell’ascoltare una intervista ad un noto magistrato italiano che, di fronte alla presa di posizione dell’Alta Corte europea contro l’ergastolo ostativo, dichiarava che il problema stava nel fatto che “A Bruxelles non sentono l’odore del tritolo”. Come dire che la risposta al crimine deve adeguarsi alla sua pericolosità, non solo in termini politici, sociali e culturali, ma anche in termini giuridici e penali, sacrificando se necessario qualsiasi logica garantista. Perché allora non anche la pena di morte?
Lo stato d’emergenza è argomento già molto problematico e dibattuto in ambito politico. Tutte le grandi dittature del secolo scorso, dal fascismo, al nazismo e al franchismo, sono nate legittimandosi su presunte situazioni emergenziali, e lo stesso termine “dittatura” viene dalla magistratura romana cui si ricorreva per l’appunto in condizioni di eccezionalità. In effetti questo è il vero problema della politica: Come governare i conflitti e i pericoli all’ordine sociale prodotti da situazioni improvvise e non previste. Anche nelle situazioni peggiori la politica dovrebbe tenere dritta la bussola e non derogare mai ai diritti e alle garanzie, non a caso garantite costituzionalmente. Quando questo non dovesse succedere e la politica dovesse scivolare verso pratiche non ammissibili, dovrebbe essere proprio la magistratura a riportare all’ordine legale e alle logiche dello stato di diritto, a partire dalle alte corti di giustizia, ma anche in modo generalizzato come avviene, per esempio, negli Stati Uniti attraverso l’istituto giuridico del judical review che permette ad ogni corte di giustizia di qualsiasi grado di non applicare una legge dello Stato qualora ritenesse che lede i diritti dei cittadini.
Questo è in fondo il senso vero della divisione dei poteri e dell’indipendenza della magistratura. Un potere autonomo che nel senso migliore va inteso come un contro-potere che di fronte agli scivolamenti autoritari della politica, oppone un sorta di “stato permanente di normalità”, fondato sulla inviolabilità dei diritti e delle libertà, e che trova il suo cuore pulsante nella assoluta centralità del pubblico dibattimento del processo penale (ma anche civile) legato a inderogabili pratiche standardizzate. In Italia invece la politica, attraverso una legislazione antimafia di tipo emergenziale, e spesso lontana dai principi dello stato di diritto, ha di fatto delegato proprio alla magistratura l’esecuzione materiale dei propri propositi.
Ancora più grave è che i giudici, lusingati dal potere, abbiano accettato questo ruolo di “supplenza”, che per altro ha nel nostro paese una lunga storia che data dalla lotta al terrorismo degli anni settanta. In questo modo la magistratura, tradendo il suo ruolo di difesa della legalità democratica, si fa essa stessa “politica”, dandosi, non più come contro-potere garantista, ma come potere corporativo, che con la politica stessa entra in gioco in modo al tempo stesso omologo e competitivo. (Mi chiedo en passant se la nostra Corte Costituzionale aveva bisogno della sentenza della Corte Europea per intervenire sull’ergastolo ostativo).
La gravità della situazione sta infine nel fatto che l’emergenza, che in politica in teoria dovrebbe sempre essere provvisoria, grazie a questo perverso abbraccio mortale con la magistratura, tende ormai a divenire status permanente.
Il quadro è di Gaetano Porcasi