Le mattanze di settembre: Giacomelli, Livatino, Puglisi, Saetta, Rostagno..(Rino Giacalone)

 

Il 1988, l’anno in cui Cosa nostra cominciò a togliersi le spine. Oggi la mafia non uccide, ma mascaria e si toglie i “Bellodi” dalla propria strada. L’odio la nuova arma per colpire la Chiesa 

Quelli del 1988 furono giorni pregni del sangue dei morti ammazzati dalla mafia. Nomi e numeri sempre eclatanti, però quel 1988 ce lo ricordiamo molto bene. Le vittime di quei barbari delitti, compiuti in quell’anno secondo una terribile sequenza, sono ancora qui, davanti a noi, a chiederci verità e giustizia, ma non solo.

Vicende giudiziarie attuali ci dicono che quei morti non fanno parte della storia, ma sono argomenti da dover continuare a inserire nella cronaca quotidiana. In quegli scenari dove si incrociano mafiosi, massoni, mafia e servizi deviati, pezzi dello Stato che stavano, o stanno ancora, con consapevole convenienza dalla parte sbagliata. In quel panorama dove la società civile un giorno sembra essere dalla parte contraria rispetto a Cosa nostra, e il giorno appresso invece va a cercare l’aiuto, il consenso, l’appoggio della mafia.

Sta qui dentro la stagione delle stragi del 1992, con l’assassinio di magistrati e poliziotti delle scorte, l’uccisione dei giudici Falcone e Borsellino, ammazzati già quando erano vivi, traditi da quella società che consegnò loro l’impressione di stare dalla loro parte mentre 400 boss mafiosi venivano portati alla sbarra. Se Riina e soci furono capaci di organizzare lo stragi questo fu perché quella società civile nel frattempo aveva finito di tifare per loro, finiti sulla graticola, che non fu opera di Sciascia, ma di altre “menti raffinate”, dei professionisti dell’antimafia.

Il 1988 lo raccontiamo dal versante trapanese ma non è solo di Trapani che scriviamo. Quell’anno comincia dall’uccisione dell’ ex sindaco di Palermo, Giuseppe Insalaco, uomo politico ma che sarebbe stato cerniera tra l’intelligence, avrebbe fatto parte della struttura di Gladio, e gli ambienti della mala politica, la massoneria. Gladio una “squadra” rimasta segreta con i suoi segreti di collusione e connivenza. La massoneria oggi in Sicilia rimasta incapace, per volontà, a cancellare la “massomafia”. Insalaco non era uno che cercava inciuci ma puntava a denunciare, e in quel 1988 tra i nomi dei politici corrotti spuntò, indicato da Insalaco, l’allora potente politico della Dc trapanese, Francesco Canino – e questo quasi 10 anni prima del suo arresto – morto proprio mentre il Tribunale pronunciava la sua condanna per mafia. Ciò nonostante, ancora oggi a nome suo girano alcuni politici e sindaci, pronti a celebrarne la grandezza, con una buona – bisogna dire – faccia tosta.

Due giorni dopo il delitto di Insalaco, la mafia sempre a Palermo, uccide l’agente Natale Mondo. A Trapani c’è chi lo ricorda, sempre appresso al capo della Squadra Mobile Ninni Cassarà. C’era anche Mondo con Cassarà il giorno in cui a Palermo fu ucciso il bravo investigatore che lasciando Trapani e tornato a Palermo contribuì a far gettare le basi del maxi processo istruito dai giudici Falcone e Borsellino.

Natale Mondo scampò al piombo dei killer che nel mentre uccidevano Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia. Ma dovette paradossalmente quasi rimpiangere di non essere stato ammazzato. Finì nel tritacarne di chi lo incluse nella lista delle possibili talpe che avevano avvertito la mafia che dopo giorni e giorni di stare chiuso in ufficio, Cassarà si apprestava a tornare a casa. Mondo finì dimenticato, tornò a Trapani, lo misero a fare il centralinista. La Polizia dimenticò le capacità di quel suo poliziotto, la mafia però nel gennaio del 1988 si ricordava ancora di lui e lo ammazzò.

In Sicilia il capitolo delle collusioni pericolose tra investigatori e la mafia resta aperto, come aperto il capitolo dei poliziotti che alla mafia non le mandavano a dire ma spesso si ritrovavano isolati o peggio ancora “mascariati”. Ne è passata di acqua sotto i ponti (eufemismo parlare ancora oggi di acqua in Sicilia) ma purtroppo di Bellodi (vedi Il Giorno della Civetta di Sciascia) nella terra siciliana ne abbiamo visti tanti ancora e ancora oggi. Bellodi tolti di mezzo anche da certi loro colleghi magari trovati con le mani nella marmellata, e in qualche caso la marmellata era fatta del collante firmato dall’imprenditore Antonello Montante e dalla sua cerchia di amici.

E’ una storia di questi tempi, parte da Capaci, la città del botto, e passa per Palermo, finendo dentro certe stanze dell’arma dei Carabinieri, e in uffici della prefettura. Scriveremo un giorno, speriamo presto, la storia di una proposta di scioglimento per mafia del Comune di Capaci, all’epoca in cui negli scranni consiliari sedeva chi per doppio dovere avrebbe dovuto garantire la legalità, finita carta straccia nel cestino di un generale dell’Arma. In questo caso il “Bellodi” di turno non solo finì trasferito ma ha dovuto subire l’onta di una indagine, di una perquisizione che forse nemmeno ai fa più a mafiosi o ai killer.

La Commissione nazionale antimafia si sta occupando del caso e ha cominciato ad ascoltare i testimoni di questa vicenda cominciando dalla “vittima”, un luogotenente dell’Arma, Paolo Conigliaro, che contro le mafie ha sempre operato ma ad un certo punto ci fu chi disse che non stava bene operando. Glielo fecero sapere già quando indagava a Trapani, a Paceco, e a Trapani, come poi a Palermo, a dirgli che stava lavorando male furono suoi colleghi più alti di grado.

Tutto questo per tornare a settembre, al 14 settembre del 1988. Episodi diversi ma trama unica. La mafia in mezzo ai piedi non vuole avversari e se non li uccide li mascaria. Il 14 settembre 1988 fu il giorno del delitto a Trapani di un magistrato in pensione, il giudice Alberto Giacomelli.

Giorni cruenti abbiamo scritto, lo hanno confermato alcuni collaboratori di giustizia. Quel macellaio sanguinario di Totò Riina che cercava di mandare segnali di morte dopo le condanne del primo maxi processo. “Bisognava ammazzare i giudici per mandare segnali”, e a Trapani i mafiosi scelsero Giacomelli la cui colpa era stata quella di avere confiscato, molti anni prima la casa di Mazara di proprietà del fratello del corleonese Totò u curtu.

Per arrivare alla verità dell’omicidio sono occorsi anni, perché nel frattempo Cosa nostra si adoperò per depistare, quasi quasi andò a consegnare ai magistrati gli autori del delitto. Una precisa regia, quello era il modo di far passare l’idea che la mafia voleva vendicare la morte di quel giudice, facendo intendere che con quel giudice Cosa nostra parlava. La mafia sapeva che non essendo quelli gli autori, si metteva la coscienza a posto con loro, sapendo che sarebbero stati assolti, come accadde, ma nel frattempo cosa utile che tornava ai boss il fatto che gli investigatori non si preoccupavano di andare a cercare gli autori del delitto, per chi indagava il caso con quegli imputati alla sbarra era chiuso e anche in malo modo, per via delle chiacchiere infamanti messe in giro sul giudice ucciso.

E oggi il ricordo di Giacomelli, come quello di Insalaco e Mondo è rimasto per pochi intimi. Solo la sottosezione di Trapani dell’Anm ha diffuso un documento: “Il 14 settembre del 1988 veniva ucciso a Trapani il giudice Alberto Giacomelli, che da più di un anno era andato in pensione dopo avere ricoperto, fra gli altri, l’incarico di Presidente del Collegio delle misure di prevenzione del Tribunale di Trapani.

Per anni, l’omicidio di Alberto Giacomelli è rimasto un “delitto senza memoria”, colpevolmente dimenticato perché non suscitava lo stesso clamore di altre, ben più note vicende di mafia. L’ANM- sottosezione di Trapani- nel ricordare con forza l’assassinio del collega Alberto Giacomelli, vuole sottolinearne il profilo di uomo coraggioso ed, al contempo, di persona defilata, silenziosa, sobria. Valori che, ancora oggi, costituiscono uno stimolo per l’attività di ogni singolo Magistrato ed un esempio per tutta la società civile”.

Ci sono voluti anni per dedicare un luogo al giudice Giacomelli, alla fine fu individuata la piazzetta limitrofa al Palazzo di Giustizia. Quel giorno il clamore fu grande, sulla targa si trovò scritto che Alberto Giacomelli fu vittima della criminalità organizzata, ci volle qualche altro giorno per vedere scritto che quel giudice era stato ammazzato dalla mafia.

Undici giorni dopo a Caltanissetta toccò ad un altro giudice essere ammazzato, Antonino Saetta, ucciso col figlio. Saetta doveva andare a presiedere il processo di Appello del maxi. Una morte per togliersi di torno un giudice inavvicinabile e per mettere sull’avviso tutti gli altri.

L’indomani, il 26 settembre ancora Trapani, ancora un delitto eccellente, destinato a vedere sorgere attorno a se inquietudini, depistaggi, falsità, bugie, per celare la verità. Stiamo scrivendo del giornalista e sociologo Mauro Rostagno: voleva mettere sotto terapia una città cieca e addormentata, convinta di vivere momenti esaltanti. Fu ammazzato perché lui gli amici se li andava a cercare per davvero ma erano gli amici con i quali discutere e parlare e non fare intrallazzi. Pensava che anche tra le sue fonti ci fossero veri amici, ma in mezzo a loro c’era anche un “Giuda”, in tante indagini di mafia o nei fatti della vita si scopre sempre un “Giuda”, ma quello lì era particolare, avrebbe potuto aiutare a far venire fuori la realtà subito e invece…E invece avrebbe fatto parte della schiera di quei “cani attaccati” che la mafia trapanese pubblicamente sosteneva di potere avere nel mondo di chi faceva le indagini. E quando chi fa le indagini le fa bene spesso in Sicilia finiva ammazzato e oggi magari delegittimato.

Un altro anno ma lo stesso mese, settembre. Altro sangue che doveva scorrere. Il 14 settembre ma del 1992. Anni di altre spine che Totò Riina voleva togliersi dopo che la condanna del maxi processo era diventata definitiva. Il 1992 fu l’anno delle stragi, a settembre a Mazara doveva essere ucciso il commissario Rino Germanà, uno che aveva fatto carriera all’inverso, che si ritrovò a giugno 1992 a fare il commissario quando la carriera lo aveva portato ad essere vice questore. Fu mandato a Mazara e messo sulla strada di tre pericolosi killer di mafia, Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano.

Un altro anno ma lo stesso mese, settembre. Era il 21 settembre del 1990. Una Fiesta di colore rosso è ferma sul ciglio della strada statale 640 che collega Agrigento a Caltanissetta. Ha il vetro sfondato, è evidente che qualcuno vi ha sparato contro. In fondo alla scarpata prossima al punto in cui vi è l’auto, il corpo riverso a terra di un uomo, è il giudice Rosario Livatino, ammazzato dai killer di mafia.

Le indagini e i provvedimenti antimafia erano diventati il suo lavoro, lui aveva messo la propria firma su confische di beni. Lavorava da solo, non aveva nemmeno una scorta. Negli armadi del Tribunale di Agrigento c’era la prova del suo ottimo lavoro, ma un presidente della Repubblica invece di rendere onore lo indicò come “un giudice ragazzino”, insomma un giudice del quale non fidarsi, troppo giovane. Aveva 38 anni quando fu ammazzato, e il Capo dello Stato non si indignò come avrebbe dovuto fare per quel delitto.

Il delitto Livatino è da leggersi anche sotto un altro punto di vista. Quello dei testimoni di giustizia. Il delitto ebbe infatti un testimone oculare, e nel nostro Paese per essere testimoni non si ricevono ringraziamenti, ma ci sono sempre prezzi da pagare. In Sicilia i testimoni devono nascondersi, i killer no.

Anzi, pochi giorni addietro nove ore di libertà sono state concesse all’ergastolano, ex latitante ad Acapulco,  mandante del delitto Livatino. Giuseppe Montanti che mai ha parlato con i giudici, ha potuto parlare per nove ore con i suoi familiari. Altri giorni di settembre, altro sangue che doveva scorrere.

Il 14 settembre ma del 1992. Anni di altre spine che Totò Riina voleva togliersi dopo che la condanna del maxi processo era diventata definitiva. Il 1992 fu l’anno delle stragi, a settembre a Mazara doveva essere ucciso il commissario Rino Germanà, uno che aveva fatto carriera all’inverso, che si ritrovò a giugno 1992 a fare il commissario quando la carriera lo aveva portato ad essere vice questore. Fu mandato a Mazara e messo sulla strada di tre pericolosi killer di mafia, Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano.

Mesi di settembre insanguinati. E non potevamo non ricordare il delitto di don Pino Puglisi a Palermo, il 15 settembre del 1993. Lo facciamo in un giorno in cui un altro prete è stato ucciso, lontano dalla Sicilia ma con moventi che possono sovrapporsi. Uccisi per il loro impegno nella società. Don Roberto Molgesini è stato ammazzato a Como, lui prete degli ultimi, preso alle spalle da un ultimo, un tunisino.

C’è troppo odio in giro per il nostro Paese, e dall’odio c’è chi pensa a difendersi con la violenza. Don Pino Puglisi si muoveva in mezzo ad un’analoga realtà sociale. Con la mafia che aizzava l’odio degli inermi contro le istituzioni per carpirne consenso. E don Pino ogni giorno dalla sua parrocchia palermitana di Brancaccio provava loro che era dalla mafia che semmai bisognava difendersi. Lo diceva stando e restando a vivere e predicare nel quartiere dei rais di Cosa nostra, i fratelli Graviano, quelli che mentre ammazzavano don Pino trascorrevano con le loro famiglie e il boss Matteo Messina Denaro le vacanze in settentrione d’Italia. Don Pino ammazzato nell’anno in cui Papa Giovanni Paolo II lanciò l’anatema contro i mafiosi parlando alla folla nella piana di Agrigento. La mafia rifiutò l’invito a convertirsi e mandò i killer ad ammazzare quel sacerdote.

Parliamo da ultimo di don Pino Puglisi non per caso. Perché oggi resta attuale il suo monito. “Non ho paura delle parole dei violenti ma del silenzio degli onesti”. Sarà pure che la mafia ha meno soldati e affiliati, ma la realtà ci tradisce ogni giorno che il numero degli onesti silenziosi in questa nostra terra è in aumento, non diminuisce. E le indagini ci dicono che sono in aumento anche i finti onesti, coloro i quali sanno della mafia ma non denunciano, preferiscono far parte del coro di chi strumentalmente accusa i magistrati per il loro lavoro, che vanno raccontando che oggi a farti ricco è l’antimafia, che ognuno deve rispettare il suo ruolo, i preti per esempio devono pensare a predicare, le forze dell’ordine a investigare, ma senza collaborazioni, i giudici a fare i processi, meglio per loro se li concludono con le assoluzioni. Questo è il coro di oggi.

Ai giovani, ai nostri figli, stiamo lasciando una società simile moltissimo a quel 1988. Solo che allora la mafia proliferava per compiere il sacco edilizio delle città, trafficare in droga, riciclare denaro nelle banche amiche. Oggi la mafia è nel cuore delle city finanziarie, non vende il suo voto come in quegli anni, ma fa eleggere propri sodali, dalle periferie dello Stato sino al cuore dei Parlamenti, specula sempre sui bisogni, ma oggi guadagna miliardi di euro.

I soldi sprecati dell’emergenza Covid? Andate a cercarli nelle case di questi nuovi boss che continuano ad avere un solo padrino, Matteo Messina Denaro, ricercato dal 1993 e che dopo anni e anni si trova sotto processo perché in quella strategia stragista, cominciata da quel 1988, c’era anche lui.

 

Rino Giacalone il Pubblicato su Libera Informazione.

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