L’Isis: Branco, fascinazione e nichilismo

La “car Jihad” che semina morte nel cuore di Barcellona, è “solo” un frammento di una strategia invasiva. Targata Isis 2.0 Una sconfitta che può trasformarsi in un incubo. Un incubo che è già diventato realtà: Barcellona, Parigi, Bruxelles, Nizza, Strasburgo, Monaco, Berlino, Manchester, Londra, Colonia, Stoccolma… Solo in Germania nove attacchi in un anno. Duemila foreign fighters con passaporto britannico addestratisi in Iraq, in Siria, in Libia, sono, quelli rimasti in vita, rientrati in patria per scatenare la Jihad globale. E lo stesso vale per i “fighters” tedeschi, francesi, belgi, olandesi, italiani…

In rotta a Mosul, accerchiati a Raqqa, in difficoltà in Libia, i comandi militari del Daesh hanno deciso di puntare all’Europa come nuova trincea avanzata della lotta per il “Califfato”. Il “Califfato” globale. Il numero dei foreign fighters partiti dall’Europa per combattere in Siria e Iraq, secondo le ultime stime è tra i 3.922 e i 4.294 individui, tutti pronti a morire per la bandiera dell’Isis. La maggior parte, 2.838, sono partiti da soli quattro Paesi europei: Belgio, Francia, Germania e Regno Unito. Quelli che sono tornati in patria, sono circa il 30%, indicativamente tra 1.176 e 1.288. Il censimento è dell’International Center for Counter-Terrorism (Icct) dell’Aja. Un recente studio dell’Istituto Elcano ha rilevato che dei 150 jihadisti arrestati in Spagna negli ultimi quattro anni 124 (l’81,6%) erano collegati all’Isis e 26 (il 18,4%) ad al-Qaeda.

Se ritirata è, quella delle milizie di al-Baghdadi, è una ritirata strategica. Un passo indietro, per colpire mortalmente l’Occidente e, in esso, l’Europa. Raqqa, Mosul, Sirte, Fallujia non sono più difendibili: troppo possente è la potenza di fuoco messa in atto dalle coalizioni, quella a guida americana e quella russa, per poter reggere da parti dei terroristi di Daesh. Meglio ripiegare nello spazio desertico fra il Maghreb e l’Africa Occidentale, a cavallo di confini desertici inesistenti fra Mali, Niger, Mauritania, Algeria, Libia e Ciad, un’area ideale dove riorganizzare le cellule dopo le sconfitte subite in Medio Oriente e da lì, nel Sahel, provare a dar vita al “Califfato del Maghreb” e al tempo stesso riorganizzare le forze e coordinare gli attacchi all’Europa.

In Europa a scatenarsi non sono più solo i “lupi solitari”. Perché i “lupi jihadisti” agiscono sempre più in branco, come dimostrano gli attacchi a Barcellona, Cambrils e Alcanar, si strutturano in cellule compartimentalizzate, i cui membri sono legati in termini generazionali e parentali, acquisiscono elementi fondamentali per colpire attraverso la rete di siti on line legati all’integralismo islamico armato.

Oltre la suggestione della Jihad che si fa Stato. Di più: Califfato. Oltre la dimensione integrista-religiosa che si fa legge – la “sharia” – e regola ogni atto della vita quotidiana del miliziano. La “fascinazione” dell’Isis non è nelle sue indubbia capacità mediatiche, né in una invincibilità militare fortemente intaccata sia in Iraq (Mosul) che a Raqqa (Siria). E non sta neanche nella figura, tutt’altro che carismatica, di Abu Bakr al-Baghdadi. La forza dell’Isis, quella che attira a sé migliaia di giovani con passaporto europeo, è la sua narrazione. Come ben argomenta Olivier Roy nel suo libro “Generazione Isis. Chi sono i giovani che scelgono il Califfato e perché combattono l’Occidente” (Feltrinelli 2017) , il fascino dell’Isis risiede nella “volontà del movimento, presente fin dalle origini, di creare un nuovo tipo di ‘homo islamicus’, staccato da tutte le appartenenze nazionali, tribali, razziali o etniche, ma anche familiari e affettive, per creare una nuova società a partire da una sorta di tabula rasa..”.

La fascinazione è in questo, così come l’elemento di novità dell’Isis sta, riflette Roy, nell’associazione di jihadismo e terrorismo con la ricerca deliberata della morte. Non è dunque l’Islam che si radicalizza ma, guardando all’identikit dei terroristi entrati in azione in Europa, da Parigi a Bruxelles, da Nizza a Manchester, da Monaco a Berlino e Londra, e ora a Barcellona, ciò che colpisce è il fatto che, tranne pochi casi, i jihadisti non passano alla violenza dopo una riflessione sui testi. Per farlo, rimarca ancora lo studioso francese, “dovrebbero disporre di una cultura religiosa che non hanno e, soprattutto, non sembrano intenzionati ad acquisire. Non si radicalizzano perché hanno letto male i testi o sono stati manipolati: sono radicali perché vogliono esserlo, perché è solo la radicalità ad attrarli…Non è l’Isis che è andato a cercare i giovani di Molenbeek o di Strasburgo, sono loro che sono andati all’Isis”. La radicalizzazione precede il reclutamento, ed essa avviene in genere al di fuori dell’ambiente sociale circostante. Non è il “Paradiso di Allah” ad esercitare su di loro una fascinazione che li porta ad ambire a chiudere la loro vita da “shahid” (martiri). Ad affascinarli è l’idea della “bella morte”. Qui, e viene in soccorso ancora Roy, “sta il paradosso: questi giovani radicali non sono utopisti, sono nichilisti in quanto millenaristi. Il domani non sarà mai all’altezza del crepuscolo. Si tratta della generazione no future“. Il loro avvicinamento alla Jihad globale non si fonda tanto sulla condivisione dei precetti più estremi dell’Islam radicale, quanto sulla convinzione che il riscatto dei diseredati, se un tempo passava attraverso il terzomondismo “modello Che” oggi s’incarna nella sollevazione contro l’Occidente colonizzatore operata dai seguaci di al-Baghdadi.

Sociologia più che religione. Volontà sovversiva globalizzata. La Jihad come tratto identitario unificante. Molti di loro non hanno alle spalle storie di disperazione sociale, di nuclei famigliari distrutti, la loro conversione all’Islam è un processo di identificazione con una causa per la quale vale la pena combattere e sacrificare la propria vita. Alcuni cercano di fuggire dall’emarginazione, hanno conosciuto il carcere per piccoli furti o spaccio, ma altri, la maggioranza, è alla ricerca di una realizzazione personale. Quella che prende forma è una identità transnazionale messa al servizio della comunità in pericolo. “Lungi dal ridursi ai capricci di una barbara idiosincrasia culturale – annota Pierre-Jean Luizard nel suo libro “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna” – il discorso dello Stato islamico è portatore di una potente dimensione universalista che seduce oltre le frontiere della sua base sunnita mediorientale.

Quando si rilegge ‘Lo Scontro di civiltà‘ di Samuel Huntington, si viene colpiti dal gioco di specchi che si instaura con le concezioni del salafismo jihadista. Lo Stato islamico riprende a volte parola per parola la tesi di Huntington al fine di inscenare questo ‘scontro di civiltà’. Non si tratta di un conflitto tra due culture, tra Oriente e Occidente – prosegue Luizard , storico e direttore di ricerca al Cnrs – tra arabismo e mondo euro-atlantico, ma uno scontro tra titani, tra Islam e miscredenza. E, nell’Islam, ognuno è benvenuto, anche gli europei biondi con gli occhi azzurri di origine cattolica, come, d’altro canto, la miscredenza include anche arabi e cattivi musulmani… Questa universalità (dell’Isis, ndr) che trascende ogni limitato particolarismo e questo radicamento nella costruzione di una ‘utopia’ concreta sul campo incontra una eco importante tra giovani che vivono in Occidente…”. L’integrismo islamista cancella l’idea di Stato-nazione, la considera il frutto avvelenato del colonialismo crociato, ne attenta l’esistenza, in nome della “umma”, la comunità dei musulmani che non ha confini, di certo non quelli tratteggiati agli inizi del secolo scorso dalle potenze coloniali francese e britannica con gli accordi di Sykes-Picot, e non conosce singole identità nazionali.

L’Occidente sta favorendo non solo l’islamizzazione delle radicalità ma il radicamento di questa suggestione ben al di là dei miliziani della Jihad globale. La nuova leva di foreign fighters risulta più difficile da individuare perché l’avvicinamento alla Jihad globale non avviene attraverso la frequentazione delle moschee radicali nel Vecchio Continente, poste sotto controllo dai servizi di sicurezza occidentali. La frequentazione di ragazzi di origini arabe avviene nelle palestre, le prime manifestazioni a cui si partecipa hanno origine dalla rabbia sociale piuttosto che in solidarietà verso i “fratelli mujaheddin” iracheni, siriani, palestinesi. I “radicalizzati” usano il web per le lezioni coraniche e dal web traggono i contenuti motivatori di un nuovo terzomondismo che vede proprio nel jihadismo militante l’opportunità di combattere le ingiustizie perpetrate dall’Occidente. E al web affidano la propria determinazione distruttiva: “Uccidere gli infedeli, e lasciare solo i musulmani che seguono la religione”, era il messaggio lasciato sui social due anni fa da Mousa Oukabir, il diciassettenne ricercato quale presunto conducente del furgone della strage di Barcellona.

Al di là del dato quantitativo, quello che colpisce è la potenza della Rete, dei social network, dei siti legati alla galassia dell’estremismo islamico, per mezzo dei quali sia l’Isis che al-Qaeda riescono a fare opera di proselitismo, a raggiungere, indottrinare e addestrare centinaia di migliaia di giovani”, rimarca una fonte d’intelligence da anni impegnata nel contrasto al jihadismo armato. “Emerge con sempre maggiore evidenza – aggiunge la fonte – l’importanza che sia lo Stato islamico che la nuova al-Qaeda danno alla “mediatizzazione” del loro agire. I filmati che postano sono sempre più sofisticati ed è chiaro che a confezionarli sono dei professionisti. Si tratta di un reclutamento mirato, ancora più importante dell’addestramento militare”.

Le parole chiave della nuova strategia jihadista 2.0 sono viralità e coinvolgimento: snodi centrali di una propaganda orientata sui social media. La decapitazione dei due reporter di guerra Foley e Sotloff, a suo tempo, non ha soltanto riempito le prime pagine dei principali quotidiani online, ma ha anche generato una escalation virale su piattaforme come Twitter e Youtube. Su quest’ultimo social sono stati pubblicati circa 175mila video riguardanti la decapitazione di James Foley: tra questi soltanto i tre più popolari hanno generato circa sette milioni di visualizzazioni. È quanto era emerso da una ricerca realizzata da “IlSocialPolitico.it”, magazine che indaga sulle attività 2.0 di politica, istituzioni, “influencer” e fenomeni sociali. “Per i gruppi jihadisti la guerra di propaganda è dunque altrettanto decisiva di quella in armi sul campo di battaglia. Il cyber-jihad permette di far conoscere la propria visione del mondo, di intimorire e minacciare il Nemico, di reclutare…”, rimarca Renzo Guolo nel suo libro “L’Ultima utopia. Gli jihadisti europei“.

È il nichilismo che si fa Jihad. Sono i “banlieusards” che arrivano al terrorismo attraverso un percorso fatto di segregazione spaziale, segregazione sociale, disperazione, rivolta, fuga. E, alla fine” immolazione. “I giovani jihadisti di banlieu – rileva in proposito Guolo – hanno percorsi simili. Vengono da famiglie numerose, spesso caratterizzate dalla dissoluzione dei legami genitoriali e da un tenore di vita sotto le soglie di povertà; hanno alle spalle un percorso segnato dall’insuccesso scolastico, dalla vita di strada, dalla deviazione e dal carcere. Questo grumo di insoddisfazione e rabbia culmina nell’intenzione di vendicarsi di una società percepita come ingiusta, alla quale vengono imputati i propri fallimenti”.

Emarginazione e non solo. Rileva Nabil El Fattah, già direttore del Centro di Studi strategici di Al- Ahram del Cairo, tra i più autorevoli studiosi arabi dell’Islam radicale armato: “Basta studiare le biografie di alcuni dei foreign fighters europei morti in Siria o in Iraq o anche di alcuni degli attentatori di Parigi o di Bruxelles: non siamo di fronte a dei disperati che devono vendicarsi della fame patita, ma abbiamo a che fare con individui che trovano nella suggestione politico-terroristica del Califfato un ancoraggio identitario, una ragione di vita e di morte. Per contrastare questa deriva, non è solo questione di intelligence, di sicurezza, di militarizzazione delle città, né bombardare a tappeto Raqqa o Mosul. Quella che va condotta è anche una battaglia culturale”, avverte lo studioso egiziano. E sulla stessa lunghezza d’onda si muove Loretta Napoleoni quando, a conclusione del suo libro: “Isis. Lo Stato del terrore“, annota: “Esiste una terza opzione tra il fallimento della Primavera araba e i successi dello Stato islamico? Sì, esiste, e riguarda l’istruzione, la conoscenza e la comprensione dell’ambiente politico in evoluzione in cui viviamo, gli stessi strumenti usati in passato per dar vita con successo al mutamento politico non in maniera cruenta ma con il consenso, cosa che tanto i giovani combattenti degli smartphone quanto i colletti bianchi della politica continuano a non capire”. E se questa incapacità-non volontà di comprendere permarrà, una cosa è certa: l’Isis sarà probabilmente sconfitta in Siria e Iraq ma il “nichilismo che si fa Jihad” troverà altre forme e altre sigle per manifestarsi. E colpire. Barcellona docet.

 

Un pezzo di Umberto De Giovannangeli da leggere e discutere:


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