MICROSTORIA DEI GIORNALISTI UCCISI DALLA MAFIA (Aaron Pettinari)

IMG_20180119_0002storia-giornalisti-uccisi

 

 

 

Giancarlo Siani la Camorra e quell’inchiesta sulla politica

La storia di Giancarlo Siani è un esempio indelebile per tutti quei precari che credono nel lavoro. Per cinque anni era stato un “abusivo”, senza contratto e senza diritti, corrispondente a Torre Annunziata per la redazione del Mattino. Poi, in un’estate, era arrivata l’assunzione per due mesi, con la promessa di essere definitivamente assunto in un secondo momento. Una sentenza passata in giudicato nel 2000 ha stabilito che ad uccidere il giornalista napoletano alle 20.50 del 23 settembre 1985 sono stati due killer del clan Nuvoletta. Siani venne ucciso per ciò che aveva scritto e, molto probabilmente, per ciò che stava per scrivere. All’inizio anche la stessa magistratura ha inseguito ipotesi suggestive quanto irreali, collusioni con cooperative di ex detenuti piuttosto che piste passionali. La verità era altrove, ed è venuta fuori solo a partire dalla metà degli anni ’90, grazie ad alcuni pentiti e al lavoro di un magistrato determinato come Armando D’Alterio. Siani scrisse, seppur non molto, della guerra di mafia culminata nel massacro del 26 agosto del 1984 a Torre Annunziata, tra i Bardellino ed i Gionta. Quindi, dopo l’arresto di Valentino Gionta (8 giugno 1985) sviluppò un pezzo di analisi spiegando il significato di quell’arresto inaspettato: “La sua cattura potrebbe essere il prezzo pagato dagli stessi Nuvoletta per mettere fine alla guerra con l’altro clan di ‘Nuova famiglia’, i Bardellino”. Proprio questa frase, a quanto hanno accertato dai giudici, avrebbe decretato la sua condanna a morte. Ma il movente sulla morte di Siani non si sviluppa soltanto sull’ombra di infamia fatta aleggiare sui potentissimi Nuvoletta (affiliati anche a Cosa nostra). Siani stava indagando da alcuni mesi sugli intrecci tra la classe politica vesuviana e la criminalità organizzata. Le sue fonti racconteranno delle continue richieste di documenti su appalti e piani di ricostruzione, riccamente finanziati dai fondi per il terremoto. Il pm D’Alterio, che indagò sulla sua morte, concluse: “Siani faceva paura per il solo fatto che in un ambiente omertoso, quale quello di Torre Annunziata, faceva domande e smuoveva le acque”. Siani, insomma, dava fastidio perché poneva quegli interrogativi scomodi che fanno paura. Il giorno della sua morte telefonò ad Amato Lamberti, sociologo impegnato nella lotta alla camorra, e gli chiese urgentemente un incontro. Incontro che, purtroppo, non si è mai tenuto. Nessuno sa cosa avesse scoperto Siani, anche se era noto che stesse scavando sui rapporti tra la Camorra e la politica. Tuttavia tutta la mole di documenti raccolti dal giovane cronista non è mai stata trovata.

giornalisti_uccisi_mafia

Cosimo Cristina, il giornalista “suicidato” da Cosa nostra

Gli atti processuali parlano di suicidio. La storia di Cosimo Cristina invece è quella di un giornalista attento, scrupoloso e coraggioso, ucciso dalla mafia in una Sicilia immobile e silenziosa. Cronista e corrispondente di numerosi quotidiani come L’Ora, ma anche testate nazionali come Il Giorno di Milano, l’agenzia Ansa, Il Messaggero di Roma e Il Gazzettino di Venezia, dopo i primi anni da corrispondente nel 1959 Cosimo Cristina, insieme a Giovanni Cappuzzo, fonda un settimanale di approfondimento “Prospettive Siciliane” . Da subito la testata comincia a pubblicare denunce, inchieste, scavando dietro la realtà, indagando su omicidi e fatti di mafia facendo nomi e cognomi “importanti” già all’epoca senza lasciarsi intimidire dalle minacce. Erano anni quelli in cui Cosa nostra stava cambiando volto. Cosimo Cristina aveva colto i segnali di questo cambiamento e aveva intenzione di raccontarli prima che fosse troppo tardi. Il 3 maggio 1960, a soli 24 anni, scompare. A distanza di due giorni, il 5 maggio 1960, il suo corpo viene trovato dilaniato con il cranio sfondato sui binari ferroviari di Terme Imerese, a pochi kilometri dal capoluogo siciliano. Nelle sue tacche vengono ritrovate due lettere di addio, una alla fidanzata Enza e l’altra a Cappuzzo. Così iniziano le indagini: depistaggi e rallentamenti caratterizzano le operazioni di polizia, non viene eseguita nessuna perizia calligrafica sui biglietti. Non se ne viene a capo, il delitto rimane impunito e gli atti processuali parlano di suicidio e il caso è archiviato. Immediatamente si comincia a parlare di “suicidio mafioso”, i parenti non si rassegnano, i colleghi dell’Ora di Palermo insorgono in particolare l’amico giornalista del Giornale di Sicilia, Mario Francese. Sei anni dopo il caso viene riaperto dal funzionario di polizia Angelo Mangano, convinto che ad uccidere il giornalista siano state le cosche mafiose termitane, e che il movente sia da cercare in un articolo che scava dietro all’uccisione del pregiudicato Agostino Tripi, denunciato per un attentato dinamitardo a una gioielleria e poi eliminato dalla mafia perché parlava troppo.

Purtroppo l’apertura delle nuove indagini e la riesumazione del cadavere per l’autopsia non porta a risultati sperati. Ancora oggi, nonostante il caso sia stato chiuso permangono molti dubbi e interrogativi.

Mauro De Mauro, l’amarezza di un caso che resta senza colpevoli

Tra i primi giornalisti uccisi dalla mafia vi è Mauro De Mauro. Scomparso la sera del 16 settembre 1970, proprio la scorsa estate la Cassazione ha messo definitivamente la parola “fine” su un caso che resta “senza colpevoli” e che presenta non pochi buchi neri.

Totò Riina, il Capo dei Capi di Cosa nostra, è stato assolto per non aver commesso il fatto dai Supremi giudici. La medesima conclusione delle corti d’Assise e di Appello di Palermo. Eppure per avere un’idea su quanto accaduto in quella notte, il perché qualcuno lo prelevò in Via delle Magnolie senza poi fargli fare più ritorno a casa, è necessario addentrarsi nella lettura delle motivazioni della sentenza di primo grado.

In oltre 2200 pagine di documento vi è comunque una traccia di un quadro inquietante dove restano evidenti pesanti collegamenti con la morte del presidente dell’Eni Enrico Mattei, su cui la vittima indagava per conto di Franco Rosi nei giorni precedenti l’assassinio, ma anche il coinvolgimento di soggetti di prim’ordine come il “Mister X” Vito Guarrasi ed il senatore della Dc Graziano Verzotto. Il giornalista stava contribuendo alla stesura di una sceneggiatura per conto del regista Francesco Rosi, per ricostruire gli ultimi giorni di vita del presidente dell’Eni, Enrico Mattei, in Sicilia ed in particolare su quanto accaduto il 27 ottobre 1962. Un’indagine approfondita in cui De Mauro sarebbe anche riuscito a scoprire i nomi delle persone che erano al corrente dell’orario di partenza del volo di rientro di Mattei, all’epoca tenuto segretissimo per ragioni di sicurezza, prima che il piccolo aereo si schiantasse a Bescapé, nei pressi di Pavia.

Per portare avanti l’incarico De Mauro si muoveva sul campo, a Gela ed a Gagliano Castelferrato, dove anni prima si era recato Mattei, intervistando e contattando i vari personaggi incontrati dal presidente dell’Eni in Sicilia.

Quegli appunti per la sceneggiatura erano stati inseriti in una busta gialla, che in molti ricordano di avere notato tra le mani di De Mauro fino al giorno stesso della scomparsa.

Ed è in quella busta gialla, scomparsa, che è contenuta la verità sull’omicidio Mattei. Scrivono i giudici: “La causa scatenante della decisione di procedere senza indugio al sequestro e all’uccisione di Mauro De Mauro fu costituita dal pericolo incombente che egli stesse per divulgare quanto aveva scoperto sulla natura dolosa delle cause dell’incidente aereo di Bascapè”. E poi ancora: “Nella sceneggiatura approntata dovevano essere contenuti gli elementi salienti che riteneva di avere scoperto a conforto dell’ipotesi dell’attentato. Bisognava agire dunque al più presto, prima che quegli elementi venissero portati a conoscenza di Rosi e divenissero di pubblico dominio”.

Proprio la sentenza De Mauro fornisce un’importantissima chiave di lettura sulla morte del presidente dell’Eni, simulata da incidente aereo nei pressi di Pavia il 27 ottobre 1962. Nella lettura dei giudici si indica come mandante dell’omicidio Graziano Verzotto, ex dirigente dell’Eni, all’epoca segretario regionale della DC, morto il 12 giugno 2010, prima dell’ultima deposizione in aula, a Palermo.

Questi, secondo la Corte, ha un ruolo centrale sia nell’assassinio di Mattei che nel sequestro e nell’omicidio di De Mauro.

“Se Guarrasi è colpevole (dell’omicidio De Mauro n.d.r.), Verzotto lo è due volte di più” scrivono i giudici.

Per la Corte di Palermo, l’interesse dell’ex Dc per il lavoro di De Mauro era “duplice”. In primis perché “si riprometteva di strumentalizzarlo in chiave anti-Cefis”, in quanto nell’estate del ’70 ambiva alla sua successione come presidente dell’Eni. Poi perché aiutando De Mauro si garantiva “un osservatorio privilegiato per orientare la sua inchiesta e indirizzarla con opportuni suggerimenti, secondo la propria convenienza”. Questo “fino al momento in cui si è reso conto che il cronista, pur fidandosi ancora di lui, era troppo prossimo a scoprire la verità: e a quel punto doveva essere eliminato”. Secondo i giudici di Palermo la rivelazione di un attentato a Mattei, progettato con la complicità di apparati italiani (e forse con il supporto della Cia), avrebbe avuto “effetti devastanti per i precari equilibri politici generali, in un paese attanagliato da fermenti eversivi e tentato da svolte autoritarie”. E’ per questo motivo che vengono allertati gli alleati mafiosi di Verzotto e dei cugini Salvo: ovvero i boss Stefano Bontade e Giuseppe Di Cristina sancendo di fatto la delibera alla morte del giornalista. Erano in tanti, infatti, all’interno di Cosa Nostra, che non volevano far conoscere i retroscena del delitto Mattei, ovvero quello che il collaboratore di giustizia “Masino” Buscetta aveva definito come “il primo delitto della Commissione”.

Se il “caso De Mauro” sembra davvero essere senza fine la causa è da ricercare nei continui insabbiamenti e depistaggi che hanno caratterizzato le indagini. Sono tanti i pezzi mancanti del puzzle di questa storia che assume sempre più i colori del “giallo”.

Nel dispositivo che ha chiuso il processo contro Riina i giudici avevano evidenziato alcune posizioni di testimoni apparsi falsi tanto che la Corte ha tramesso gli atti al Pubblico Ministero perché proceda per falsa testimonianza nei confronti dell’ex funzionario del Sisde Bruno Contrada, dei giornalisti Pietro Zullino (morto nel gennaio scorso) e Paolo Pietroni e dell’avvocato Giuseppe Lupis. Tutti avrebbero avuto un ruolo depistante nelle indagini e questo verrà approfondito in un nuovo dibattimento. Nel corso degli anni le difficoltà per ricostruire la verità si sono manifestate a più livelli. Basti pensare alle indagini iniziali, che si erano concentrate verso direzioni differenti per poi infrangersi muro del silenzio. Per non parlare poi della singolare “assenza di notizie” negli archivi dei servizi e degli apparati investigativi. A queste si aggiungono le pagine strappate dai quaderni di De Mauro, la scomparsa degli appunti e del nastro con l’ultimo discorso di Mattei a Gagliano, che secondo le testimonianze dei familiari il giornalista “ascoltava e riascoltava in continuazione”. Addirittura la sentenza pone l’attenzione sulla scomparsa del materiale all’interno di uno dei raccoglitori conservati in un armadio a casa De Mauro, il cui titolo era “Petrolio”. Un nome che riporta al romanzo a cui stava lavorando Pier Paolo Pasolini prima di morire. Strane coincidenze che aprono a nuovi scenari d’indagine. Peccato che sul depistaggio, e con essa forse la verità completa sul caso De Mauro, si sia abbattuta la scure della prescrizione.

Giornalisti

Giovanni Spampinato, “assassinato perché cercava la verità”

 “Assassinato perché cercava la verità”. Così titolava L’Ora di Palermo, l’indomani dall’uccisione di Giovanni Spampinato, giovane giornalista d’inchiesta corrispondente per il giornale da Ragusa. Un giornalista che aveva avuto il coraggio di raccontare la mafia nella città “babba” di Ragusa, che poi tanto “babba” non era. Fu uno dei primi giornalisti a scoprire l’esistenza di “Gladio”, l’intreccio di neofascismo e servizi segreti che aveva il fine di evitare l’ingresso del PCI nel governo italiano.

Spampinato venne assassinato il 27 ottobre 1972 da Roberto Campria, figlio dell’allora presidente del tribunale di Ragusa, in un contesto che all’epoca non venne adeguatamente investigato in sede giudiziaria. Il cronista de L’Ora, prima di morire, stava indagando sull’uccisione di un facoltoso ingegnere-imprenditore, Angelo Tumino, che era avvenuta a Ragusa il 25 febbraio dello stesso anno, e fu l’unico a rivelare che proprio Roberto Campria era tra gli indagati di quel delitto. Spampinato sosteneva che, proprio per questo motivo, quell’indagine su Tumino dovesse essere affidata ad altri giudici di un’altra città invece l’inchiesta non fu trasferita ed il giovane cronista venne criticato ed isolato persino tra i colleghi.

Quell’omicidio si verificò proprio nei giorni in cui Spampinato rivelava la presenza a Ragusa del “bombardiere nero” Stefano Delle Chiaie (uno degli artefici della “strategia della tensione”, all’epoca ricercato per le bombe del 12 dicembre 1969 all’Altare della Patria), e di altri noti fascisti romani legati a Junio Valerio Borghese, che nel dicembre del 1970 aveva tentato un colpo di Stato. Uno di questi personaggi, Vittorio Quintavalle, fu interrogato dagli inquirenti che seguivano le indagini sul delitto e questo avrebbe rafforzato l’idea che l’omicidio Tumino potesse essere collegato in qualche maniera alle trame eversive che stava documentando. Morì prima di poterlo dimostrare. Per anni la storia di Spampinato è stata raccontata come quella di un “povero ragazzo” ucciso perché aveva parlato di un omicidio. Oggi però, dopo aver ottenuto riconoscimenti autorevoli anche a livello internazionale, a Spampinato si riconosce l’essere stato un bravo giornalista che faceva il suo dovere raccontando quelle notizie scomode che davano fastidio al potere.

Mario Francese, cronista controcorrente

Dalla strage di viale Lazio al delitto Tandoj, passando per la strage di Ciaculli e l’omicidio del colonnello Giuseppe Russo. E’ così che Mario Francese, giornalista del Giornale di Sicilia, divenne in poco tempo un grandissimo conoscitore della mafia palermitana ed i suoi segreti. Fu uno dei primi a capire cosa stesse accadendo all’interno di Cosa nostra negli anni Settanta, raccontando l’ascesa dei corleonesi Riina e Provenzano. Fu persino l’unico giornalista a intervistare la moglie di Totò Riina, Ninetta Bagarella. Fece anche rivelazioni su personaggi come don Agostino Coppola, il sacerdote di Partinico che aveva celebrato le nozze segrete del latitante Riina e aveva rapporti con l’anonima sequestri.

Quindi scavò sulla pioggia di miliardi giunta dal Governo per la ricostruzione post terremoto del Belice che andava a toccare ben tre province: Trapani, Palermo e Agrigento. Francese scoprì che alla base del forte scontro interno mafioso c’erano soprattutto i soldi stanziati per la costruzione della diga Garcia (alcuni terreni erano dei cugini Salvo, legati al democristiano Salvo Lima [Cfr. L. Mirone, Gli insabbiati, p. 158]). E nel settembre del ’77 arrivò a pubblicare un’inchiesta in sei puntate dove descriveva tutta la rete di collusioni, corruzioni ed interessi che si erano sviluppati per la realizzazione della diga. Ed è in quella occasione che Mario Francese spiegò che dietro la sigla di una misteriosa società, la Risa, si nascondeva Riina, a quell’epoca considerato quasi come un fantasma, pienamente coinvolto nella gestione dei subappalti relativi alla costruzione della diga stessa. E proprio su quel rapporto tra mafia e politica, inserito nel contesto della gestione degli appalti, insisteva con determinazione. Quando venne assassinato, Francese stava attendendo la pubblicazione di un suo dossier su mafia e appalti, pubblicato postumo come supplemento al Giornale di Sicilia. Un ritardo di cui il giornalista si lamentò con diversi colleghi, ritenendo che “fosse uscito dalla redazione”.

Francese venne ucciso, davanti casa, da Leoluca Bagarella mentre stava rientrando dopo una dura giornata di lavoro. Era la sera del 26 gennaio 1979. Non è stato semplice giungere ad una verità, seppur parziale, sull’omicidio e sui motivi che portarono alla morte del cronista. Sullo sfondo resta infatti l’amarezza per un silenzio durato un ventennio. Si è dovuto attendere l’aprile 2001 perché la Corte d’assise riconoscesse la matrice mafiosa dell’uccisione di Francese e accertasse che quel giornalista era stato assassinato per il suo straordinario impegno professionale e perché la sua esecuzione servisse da monito. Solo allora venne sgombrato definitivamente il campo da quelle piste alternative, riconducibili a inverosimili regolamenti di conti che determinati ambienti contigui al crimine mafioso avevano contribuito ad accreditare. Scrivono i giudici nella sentenza di Primo grado: “Negli articolo redatti da Mario Francese emerge una straordinaria capacità di operare collegamenti tra i fatti di cronaca più significativi, di interpretarli con coraggiosa intelligenza, e di tracciare così una ricostruzione di eccezionale chiarezza e credibilità sulle linee evolutive di Cosa nostra, in una fase storica in cui oltre a emergere le penetranti e diffuse infiltrazioni mafiose nel mondo degli appalti e dell’economia, iniziava a delinearsi la strategia di attacco di Cosa nostra alle istituzioni. Una strategia eversiva che aveva fatto – si legge nelle motivazioni della sentenza – un salto di qualità proprio con l’eliminazione di una delle menti più lucide del giornalismo siciliano, di un professionista estraneo a qualsiasi condizionamento, privo di ogni compiacenza verso i gruppi di potere collusi con la mafia e capace di fornire all’opinione pubblica importanti strumenti di analisi dei mutamenti in atto all’interno di Cosa nostra”.

Mauro Rostagno il giornalista ucciso dalla mafia con i poteri occulti sullo sfondo

Giustizia è stata fatta soltanto il 15 maggio 2014 con la condanna all’ergastolo del killer Vito Mazzara e del boss trapanese Vincenzo Virga. E’ stato accertato che ad uccidere Mauro Rostagno il 26 settembre 1988, a pochi passi dalla comunità Saman in contrada Lenzi, fu la mafia.

“L’omicidio di Mauro Rostagno – scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza – volto a stroncare una voce libera e indipendente, che denunziava il malaffare, ed esortava i cittadini trapanese a liberarsi della tirannia del potere mafioso, era un monito per chiunque volesse seguirne l’esempio o raccoglierne l’appello, soprattutto in un area come quella del trapanese dove un ammaestramento del genere poteva impressionare molti”. A ventisette anni di distanza dalla morte del giornalista-sociologo-attivista di Lotta Continua viene fatta chiarezza sulle modalità dell’omicidio e viene ricostruito il movente che ha portato la mafia ad agire in prima persona.

A confermare il movente e le responsabilità del capomafia Vincenzo Virga e al suo sicario prediletto Vito Mazzara, incastrato anche da una impronta genetica ritrovata su un fucile, sono diversi pentiti. L’obiettivo era chiaro, “bisognava mettere a tacere per sempre quella voce che come un tarlo insidiava e minava la sicurezza degli affari e le trame collusive delle cosche con altri ambienti di potere”. Proprio il contesto trapanese di quegli anni viene ricostruito dal Presidente della Corte d’Assise: “La torsione nelle finalità istituzionali degli apparati di intelligence che si consuma proprio in quegli anni e che ha a Trapani, con la costituzione dell’ultimo Cas nella storia di Gladio, un suo epicentro, crea un terreno propizio all’instaurazione di sordidi legami tra alcuni esponenti dei Servizi e ambienti della criminalità organizzata locale”.

“Ne scaturisce – continua Pellino – una rete di relazioni pericolose, fatte di intese e scambi di favori reciproci e protezioni. Un’organizzazione criminale che detiene un controllo capillare del territorio può essere fonte della merce più preziosa per un apparato di intelligence, le informazioni; ma può servire anche per operazioni coperte, ovvero per offrire copertura a traffici indicibili da tenere al riparo da sguardi indiscreti. Traffici che coinvolgono pezzi di apparati militari e di sicurezza dello Stato, all’insaputa dei vertici militari e istituzionali o dei responsabili politici”.

Rostagno, che già era “socialmente impegnato” nell’attività di recupero di persone tossicodipendenti all’interno della comunità Saman, creata con Ciccio Cardella, dava fastidio per le sue molteplici inchieste e quell’opera di “sensibilizzazione della coscienza civile sul temi della corruzione, della lotta alla mafia e al traffico di droga. Andava quindi messa in conto non solo un moto di reazione e dell’opinione pubblica, ma soprattutto un possibile inasprimento dell’azione repressiva dello Stato”.

Davano fastidio quegli editoriali su Rtc così come il suo lavoro d’inchiesta “sommerso”, come rivelato da alcuni suoi appunti, sulla massoneria deviata ed il “Circolo Scontrino”. Ed è proprio questo uno degli aspetti gravi che fa presagire come la morte di Rostagno fosse “comoda” anche per altri poteri.

Parlando di quei “sordidi legami tra alcuni esponenti dei Servizi e ambienti della criminalità organizzata locale” i giudici affrontano una questione chiave: “Se Cosa Nostra sapeva che i servizi segreti, certamente annidati anche all’interno degli apparati che, in ipotesi, avrebbero dovuto attuare la paventata risposta repressiva dello Stato, da tempo attenzionavano Rostagno non come personalità da proteggere, ma come target, cioè come obbiettivo ostile da sorvegliare… Se davvero tutto ciò era a conoscenza dei capi mafia locali – e non era difficile saperlo, considerato il sistema di vasi comunicanti che permetteva la circolazione di informazioni nei diversi ambienti collegati da quel sistema – allora non occorre immaginare chissà quali indicibili accordi collusivi per concludere che i vertici dell’organizzazione mafiosa ben potevano presumere di poter contare, se non su un’attiva complicità, quanto meno su una proficua acquiescenza degli apparati repressivi e di sicurezza dello Stato, ove si fossero determinati a mettere in atto il proposito di sopprimere Rostagno”. Il Presidente Pellino si spinge anche oltre: “Tale acquiescenza, unita all’interesse dei servizi a non bruciare rapporti di collaborazione e di scambio già avviati, poteva anche lasciar prevedere interventi utili ad addomesticare le indagini, evitando che si andasse a fondo sulla pista mafiosa. Naturalmente una simile ricostruzione, in mancanza di elementi certi in ordina all’effettiva instaurazione di proficui rapporti di collaborazione tra Cosa Nostra e alcuni settori degli apparati di sicurezza, sarebbe solo ipotetica e congetturale. Se non fosse per il fatto che, come vedremo, i depistaggi vi furono davvero. E se per qualcuno può concedersi che sia stato involontario e inconsapevole, per altri aspetti e momenti appare assai più difficile negarne la volontarietà, o dubitarne”.

Proprio i depistaggi condotti sul caso vengono affrontati con accuratezza. Viene messo in evidenza come, quando ancora il corpo di Rostagno era riverso sul volante della sua Fiat Duna, scattarono subito “colpevoli ritardi e inspiegabili omissioni” da parte di chi doveva indagare.

Secondo la corte vi è stata “la soppressione o dispersione di reperti, la manipolazione delle prove e reiterai atti di oggettivo depistaggio”. E’ cosa nota che dalla sede di Rtc scomparve la videocassetta su cui Rostagno aveva scritto “Non toccare”. Lì, probabilmente, c’era il suo ultimo scoop, la registrazione con le riprese del presunto traffico d’armi nei pressi della pista d’atterraggio di Kinisia.

Un elemento di prova scomparso così come non si ritrovano le lettere che Rostagno si scambiava con il fondatore delle Brigate Rosse Renato Curcio, il memoriale sull’omicidio del commissario Luigi Calabresi, o la partizione del proiettile calibro 38 estratto dal corpo del sociologo durante l’autopsia.

Tra i documenti svaniti nel nulla c’è anche una relazione degli 007 del centro Scorpione, una delle 5 basi della VII divisione del Sismi, da cui dipendeva “Gladio”, che riguardava il centro Saman.

I giudici sottolineano anche “l’inconsistenza delle piste alternative” che avevano cercato di classificare l’omicidio Rostagno come una “questione di corna” o come un delitto maturato all’interno della Saman coinvolgendo elementi della sua stessa famiglia, viene resa giustizia mettendo nero su bianco che la pista mafiosa, seguita inizialmente dalla polizia e subito abbandonata dai carabinieri che la sostituirono nelle indagini, era invece quella giusta.

Porcasi giornalisti 1106-1

Peppino Impastato e quei “Centopassi” che portavano al rinnovamento

La storia di Peppino Impastato è di quelle che scavano nel profondo. Una parte del merito va sicuramente riconosciuto al film “Centopassi”, capace di far colpo soprattutto nelle giovani generazioni. Peppino Impastato, il giovane nato in una famiglia mafiosa (il padre Luigi era stato inviato al confino durante il periodo fascista, lo zio e altri parenti erano mafiosi e il cognato del padre era il capomafia Cesare Manzella, ucciso con una “giulietta” al tritolo nel 1963, ndr) capace di ribellarsi e di mettere in atto una vera e propria rivoluzione culturale. Da quando venne cacciato di casa dal padre ha profuso se stesso avviando una forte attività politico-culturale antimafiosa. Prima fondando il giornalino L’Idea socialista, poi con la costituzione del gruppo “Musica e cultura”, che svolge attività culturali (cineforum, musica, teatro, dibattiti ecc.); e la realizzazione di “Radio Aut”, radio libera autofinanziata, con cui denunciava i delitti e gli affari dei mafiosi di Cinisi e Terrasini, e in primo luogo del capomafia Gaetano Badalamenti, che avevano un ruolo di primo piano nei traffici internazionali di droga, attraverso il controllo dell’aeroporto. Il programma più seguito era “Onda pazza”, trasmissione satirica con cui sbeffeggiava mafiosi e politici. Nel mezzo il suo impegno politico accanto ai gruppi di Nuova Sinistra e le lotte accanto ai contadini espopriati per la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Palermo, degli edili e dei disoccupati. Un percorso che lo portò a candidarsi nel 1978 all’interno della lista di Democrazia Proletaria alle elezioni comunali. Venne assassinato nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978, nel corso della campagna elettorale, con una carica di tritolo posta sotto il corpo adagiato sui binari della ferrovia. Gli elettori di Cinisi votano il suo nome, riuscendo a eleggerlo al Consiglio comunale. Stampa, forze dell’ordine e magistratura parlano di atto terroristico in cui l’attentatore sarebbe rimasto vittima e, dopo la scoperta di una lettera scritta molti mesi prima, di suicidio. E’ l’inizio della campagna del fango.Solo grazie all’attività del fratello Giovanni, della madre Felicia Bartolotta Impastato, e degli amici della Radio, l’inchiesta giudiziaria venne riaperta. Nel 1998 presso la Commissione parlamentare antimafia si è costituito un Comitato sul caso Impastato e il 6 dicembre 2000 è stata approvata una relazione sulle responsabilità di rappresentanti delle istituzioni nel depistaggio delle indagini. Il 5 marzo 2001 la Corte d’assise ha riconosciuto Vito Palazzolo colpevole e lo ha condannato a 30 anni di reclusione. L’11 aprile 2002 Gaetano Badalamenti è stato condannato all’ergastolo. Proprio sul depistaggio ancora oggi è aperto un fascicolo alla Procura di Palermo. Già la sera stessa dell’omicidio, accaddero cose inquietanti. Un gruppo di carabinieri perquisì la casa di Impastato e portò via l’archivio del giovane militante antimafia, ma non fu stilato alcun verbale. Anni fa, il sostituto procuratore Franca Imbergamo era riuscita a farsi consegnare dall’Arma una copia del materiale sequestrato, ma si trattava solo di una minima parte. Su un foglio senza intestazione era stato scritto, nel 1978: “Elenco del materiale sequestrato informalmente a casa di Impastato Giuseppe”. Ma il sequestro informale è una formula che ha poco di diritto, quei documenti sono insomma detenuti illegalmente nell’archivio dell’Arma dei carabinieri. Così, ad oggi, iscritti nel registro degli indagati ci sono quattro militari dell’Arma che parteciparono alle perquisizioni in casa Impastato dopo l’omicidio dell’attivista antimafia di Cinisi: il generale Antonio Subranni per favoreggiamento, Carmelo Canale, Francesco De Bono e Francesco Abramo per falso.

Pippo Fava e la mafia in Parlamento

 “I mafiosi sono in ben altri luoghi e in ben altre assemblee. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della Nazione. Se non si chiarisce questo equivoco di fondo – cioè non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità che credo abiti in tutte le città italiane ed europee – il problema della mafia è molto più tragico e importante, un problema di vertici di gestione della Nazione che rischia di portare al decadimento politico, economico e culturale l’Italia. I mafiosi non sono quelli che uccidono, quelli sono gli esecutori, anche ai massimi livelli”. Così rispondeva Pippo Fava, direttore dei Siciliani, ad una domanda di Enzo Biagi, durante la trasmissione “Filmstory”, andata in onda il 28 dicembre 1983, appena una settimana prima di essere ucciso. Potrebbero bastare quelle parole, tanto lungimiranti, per spiegare i motivi per cui Pippo Fava doveva essere eliminato. Le sue incessanti denunce sul connubio tra i boss e gli imprenditori catanesi erano una spina nel fianco non solo per i mafiosi, autori del delitto, ma anche, se non soprattutto, per quel pezzo di istituzioni corrotte e colluse con la mafia.

Fava, giornalista, scrittore e drammaturgo italiano fu tra i fondatori della rivista I Siciliani nel primo numero scrisse un pezzo intitolato “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa” dedicato ai quattro maggiori imprenditori catanesi, Rendo, Graci, Costanzo e Finocchiaro. Nell’inchiesta, frutto di due anni di lavoro già da quando Fava lavorava al Giornale del Sud, accusava il mondo imprenditoriale e politico della città di essere legato a doppio filo con la mafia catanese e in particolare con il boss Nitto Santapaola. Nell’inchiesta, Fava riportò anche l’intervista del generale Carlo Alberto dalla Chiesa a Giorgio Bocca su Repubblica, dove lo stesso Generale, ucciso dalla mafia il 3 settembre 1982 a Palermo, accennava ai quattro cavalieri del lavoro: “Oggi la Mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della Mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?”. Accusato dell’omicidio fu proprio Nitto Santapaola (latitante dal giugno dello stesso anno), già incriminato per la Strage della circonvallazione di Palermo, dove trovò la morte il boss Alfio Ferlito, insieme ai tre carabinieri della scorta. Da quel dicembre al gennaio 1984 furono pubblicati undici numeri de I Siciliani, con il primo numero ristampato per ben tre volte perché esaurito nel giro di una settimana. Tra le inchieste più rilevanti quelle sui rapporti tra la mafia e la politica, le banche, e le altre criminalità organizzate, a cui si aggiunsero quelle sulla Giustizia e il “Caso Catania”, sullo stanziamento dei missili nucleari nelle Basi Nato siciliane.

Fava venne ucciso la sera del 5 gennaio 1984 da cinque proiettili calibro 7,65, sparati sulla nuca dai sicari di Cosa nostra. Inizialmente, l’omicidio fu etichettato come delitto passionale, sia dalla stampa sia dalla polizia. Si disse che la pistola utilizzata non fosse tra quelle solitamente impiegate in delitti a stampo mafioso. Si iniziò anche a cercare tra le carte de I Siciliani, in cerca di prove: un’altra ipotesi era il movente economico, per le difficoltà in cui versava la rivista.

Persino rappresentanti delle istituzioni, come il sindaco Angelo Munzone, avallarono questa tesi, evitando di organizzare una cerimonia pubblica con la presenza delle cariche cittadine e arrivando persino a dire che la pista mafiosa fosse impossibile in quanto “a Catania la mafia non esiste”. L’onorevole Nino Drago chiese una chiusura rapida delle indagini perché “altrimenti i cavalieri potrebbero decidere di trasferire le loro fabbriche al nord”. In quel clima di polemiche, omertà e depistaggi non fu facile giungere ad una verità. Per l’omicidio sono stati condannati nel 1998 dalla Corte d’Assise di Catania i boss Nitto Santapaola e Aldo Ercolano, considerati i mandanti, e Marcello D’Agata, Francesco Giammuso e Vincenzo Santapaola, come organizzatori ed esecutori dell’omicidio. A portare alla sbarra i cinque imputati furono le dichiarazioni di Maurizio Avola, collaboratore di giustizia che si autoaccusò dell’omicidio, patteggiando sette anni di pena. La Corte d’Appello di Catania confermò poi le condanne all’ergastolo per Santapaola e Ercolano, mentre assolse D’Agata, Giammuso e Vincenzo Santapaola: sentenza diventata definitiva nel 2003. “Fava non era controllabile” Maurizio Avola ha parlato così, attraverso il suo avvocato, in un’intervista al quotidiano “La Repubblica”. “Con la stampa si andava d’amore e d’accordo e qualche ‘incomprensione’ giornalistica da allora si risolse senza bisogno di minacce. Fava invece non era più controllabile. Il Giornale del Sud che dirigeva in precedenza era del cavaliere Gaetano Graci, ma ‘I Siciliani’ era del tutto indipendente e schierato contro gli interessi di Costanzo e degli altri che controllavano appalti miliardari. Uccidendolo, Cosa nostra ha tutelato anche i propri interessi economici”. Avola, dopo 31 anni, ha spiegato che “l’omicidio Fava è servito allo scopo della mafia e dei Cavalieri” di cui “Fava aveva scritto molto, parlando, in particolare, della mafia dai colletti bianchi”.

Beppe Alfano, una storia da (ri)scrivere?

Le recenti rivelazioni del collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico, ex killer di Barcellona Pozzo di Gotto, ha di fatto aperto nuovi scenari su un caso, quello dell’omicidio del corrispondente de La Sicilia Beppe Alfano, che per anni sembrava avere delle certezze, almeno sul piano del rinvenimento degli esecutori materiali dell’attentato. “Ad uccidere il giornalista non fu Antonino Merlino ma Stefano ‘Stefanino’ Genovese” ha dichiarato ai pm di Messina che hanno aperto una nuova inchiesta sull’omicidio, sui mandanti esterni e sul depistaggio che, a questo punto, appare sempre più evidente. Beppe Alfano si era fatto conoscere già prima del suo incarico a La Sicilia attraverso le antenne barcellonesi di Telenews, l’emittente televisiva rilevata nel ’90 dall’amico d’infanzia Antonio Mazza. Alfano era direttore dei servizi giornalistici, si occupa della cronaca mentre Mazza cura gli editoriali. Insieme denunciavano abusi, inadempienze, sprechi della pubblica amministrazione negli anni in cui il senatore andreottiano Carmelo Santalco dominava la scena politica di Barcellona. Alfano aveva anche scoperto gli scandali di un’associazione di assistenza dove avevano messo le mani insieme politici e mafiosi e stava indagando sulla potente massoneria coperta operante nelle città di Barcellona Pozzo di Gotto e Messina. Non solo. La figlia, Sonia Alfano, nel chiedere che sia fatta piena luce sui mandanti del delitto, che ha avuto luogo l’8 gennaio 1993, ha raccontato che il padre stava indagando sui traffici di armi e uranio. Documenti che sarebbero poi spariti. “Quegli appunti – ha ricordato – sono spariti da casa la sera stessa dell’omicidio, dopo la perquisizione delle forze dell’ordine. Alle 22.45 dell’8 gennaio 1993 piombarono a casa nostra oltre 50 agenti di vari corpi portarono via numerose carte ed effetti personali, ma non tutto ci è stato restituito. Tante cose, anzi, non sono state neanche verbalizzate”. Ma non ci sono solo questi aspetti che andrebbero chiariti. Tra i buchi neri ancora irrisolti, vi è il mistero della Colt 22, l’arma usata per l’omicidio, mai sottoposta a perizia balistica, le cui tracce sono state scoperte dall’avvocato Fabio Repici, legale della famiglia Alfano. In un verbale del 28 gennaio ’93, acquisito agli atti del processo, veniva riportato che 20 giorni dopo l’assassinio di Alfano Olindo Canali, titolare dell’inchiesta, aveva scoperto che l’imprenditore Mario Imbesi possedeva una Calibro 22 e se l’era fatta consegnare, con un iter quantomeno insolito. Il magistrato, infatti, invece di sequestrare l’arma, aveva atteso un’ora e mezza che l’imprenditore fosse andato a casa a prelevare la pistola per poi prenderla in consegna. Dopo otto giorni, il 5 febbraio, il revolver era stato restituito al proprietario, ma agli atti del processo non risulta alcuna perizia balistica sull’arma. Solo diciassette anni dopo la morte di Alfano, nel 2011, la Scientifica dimostrerà che quell’arma, con l’omicidio del cronista, non c’entra niente. 
E’ sempre l’avvocato Repici a scoprire però l’esistenza di un’altra Colt 22 nelle disponibilità di Imbesi. Quest’altra arma sarebbe stata ceduta nel ’79 a Franco Carlo Mariani, fermato nel 1984 in quanto coinvolto in un’indagine sulle bische clandestine. Insieme a Mariani, viene arrestato anche Rosario Pio Cattafi (finora solo sfiorato dalla pista investigativa del delitto Alfano) condannato in primo grado a 12 anni per associazione mafiosa e considerato anello di congiunzione tra mafia, massoneria e servizi segreti), accusato dal pm di Barcellona Francesco Di Maggio (ex vice capo del Dap, ritenuto tra i personaggi chiave della trattativa e uno dei principali artefici, nel ‘93, della revoca del carcere duro a oltre 300 mafiosi) affiancato da Olindo Canali, al tempo uditore e che diventerà in seguito pubblico ministero al processo Alfano. Canali, dopo aver restituito la prima pistola a Imbesi, si recò a Roma per incontrare Di Maggio. La sua partecipazione ad incontri sul delitto Alfano, quando ancora ricopriva l’incarico di funzionario Onu a Vienna, sarebbe stata giustificata dall’aver svolto indagini che coinvolgevano “soggetti barcellonesi trasferiti a Milano e coinvolti in traffici di armi”. Secondo la ricostruzione di Repici, che insiste proprio sulla centralità della pista della Colt 22, questa descrizione calzerebbe perfettamente al profilo di Cattafi e nei mesi scorsi lo stesso legale ha chiesto alla Procura di Messina di appurare se la pistola sia in qualche modo arrivata a Cattafi, o se sia stata effettivamente usata per l’attentato al giornalista. Resta poi aperto quel filone d’inchiesta sull’omicidio Alfano che riguarda la latitanza nel barcellonese del boss catanese Nitto Santapaola. Secondo l’ipotesi investigativa Alfano sarebbe venuto a conoscenza della presenza del capomafia in quei luoghi. La stessa figlia del giornalista, Sonia Alfano, è sempre stata convinta che il padre venne ucciso proprio per aver rivelato al pm Canali della presenza di Santapaola a Barcellona. Infine, dopo le rivelazioni di D’Amico che di fatto smentirebbero le dichiarazioni di un altro pentito, Maurizio Bonaceto (primo accusatore del killer Antonino Merlino, condannato definitivamente per il delitto, ndr), qualora fossero riscontrate, andrebbe accertato il perché quest’ultimo abbia accusato del delitto un presunto innocente.

(Pubblicato su Antimafia Duemila) – Il quadro d’apertura è di Gaetano Porcasi

Seguimi su Facebook