Nota introduttiva al libro “In nome dell’antimafia” di Salvo Vitale
Ad evitare equivoci, fraintendimenti, strumentalizzazioni, affermazioni che mi fanno dire quello che non ho mai sognato di dire, pregiudizi espressi senza un’attenta lettura del libro in ogni sua parte, pubblico la nota introduttiva, nella quale chiarisco il senso, l’origine e gli sviluppi dell’inchiesta. Dietro ci sono anni di lavoro e di ascolto che non possono essere affrontati con giudizi superficiali e con quello che ormai è un male troppo diffuso, l’ignoranza. (S.V.)
Questa inchiesta è cominciata nel 2013, allorché alcuni familiari di persone sottoposte ad indagine per sospette collusioni mafiose, che avevano scelto di collaborare con i magistrati, dopo avere subito danni ai loro impianti per avere denunciato i loro estorsori, si sono trovati nella morsa dell’Ufficio misure di Prevenzione, che aveva disposto il sequestro dei loro beni, affidandoli nelle mani di amministratori giudiziari ai quali ben poco importava delle sorti delle delle aziende e persone e che vi lavoravano, e ne causavano lo sfascio o una drastica diminuzione del volume degli affari. Alcuni che avevano sperato di continuare a lavorare, offrendo la propria collaborazione, si erano invece ritrovati privi dalla loro attività, abbandonati dalla macchina amministrativa che avrebbe dovuto tutelarli e, non avendo più nulla da perdere, hanno voluto rendere note le loro vicende, raccontandole alla redazione della piccola emittente di Partinico, Telejato, affinchè si portasse a conoscenza il modo di operare di alcuni settori della giustizia italiana. Da allora è diventato un continuo viavai di gente, vittime delle più incredibili vicende, provenienti da ogni parte della Sicilia, alle quali era rimasta una sola possibilità, dopo aver perso tutto: comunicare agli altri le circostanze e, dal loro punto di vista, le ingiustizie di cui erano rimaste vittime. Una chiara rottura di quel muro del silenzio e dell’omertà che caratterizza gli ambienti vicini al sodalizio mafioso.
Difficile in questo contesto individuare e saper discernere gli elementi che avevano indotto i magistrati ad agire nei loro confronti, ovvero quanti fossero vittime e quanti invece fossero autentici mafiosi o loro amici che avevano accumulato le loro ricchezze in modo disonesto e adesso si ritrovavano, “con il culo per terra”. Abbiamo chiesto loro, per prima cosa, di mostrarci il decreto di sequestro, dove si indicava in qualche modo il peccato originale da cui era partita l’indagine, quasi sempre da parte della DIA, ovvero l’iniziale collusione mafiosa, i riscontri dei “pentiti”, le frequenze, le intercettazioni, la eventuale differenza tra gli introiti dichiarati e la ricchezza accumulata. Molti erano in grado di dimostrare la loro estraneità, ma non avevano potuto farlo perchè il tribunale di prevenzione rinviava puntualmente le udienze, altri non avevano mai subito un procedimento penale, gli altri, quasi tutti, erano stati assolti nei tre gradi di giudizio, ma si trovavano comunque sottoposti a sequestro e non sapevano più cosa fare e a chi rivolgersi per dimostrare le loro ragioni. Ci ha colpito questo bisogno di parlare, di denunciare, di ribellarsi, di non volere più subire e questa residua speranza di avere giustizia. Poichè non sono solito vendere illusioni, ho fatto quello che mi chiedevano di fare e che faccio da più di cinquant’anni, senza tesserino, cioè il giornalista di strada, ovvero ho scritto quello che mi raccontavano, perfettamente cosciente di non potere esprimere, se non in minima parte, tante storie di dolore, di prepotenze, di arroganze, di carriere e famiglie distrutte, di aziende fallite, di avvocati disonesti, di ragazzi cui era stato sequestrato persino il motorino o il cellulare e di proprietari di case costretti a pagare l’affitto della loro casa all’amministratore giudiziario, sino al momento dello sfratto, per non parlare di gente disponibile a pagare l’affitto delle proprie case, rimaste poi chiuse e abbandonate ai saccheggi,
Abbiamo picchiato duro per oltre quattro anni, sfidando apertamente i responsabili a denunciarci e a difendersi dall’accusa di abuso d’atti d’ufficio, di corruzione, di furto, d’incapacità gestionale. Mai nessuna denuncia, sino a un certo momento, probabilmente per paura che non si scoperchiasse troppo la pentola. Stranamente le denunce sono cominciate a fioccare, nei confronti di chi scrive e di Pino Maniaci, subito dopo che al Tribunale di Palermo si è scatenato un terremoto, del quale, ancora oggi si avverte qualche scossa di assestamento. Difficile sottrarsi al sospetto che sotto ci sia stata e c’è ancora una qualche strategia di rivalsa, da parte di coloro cui è stato rotto il giocattolo. Non si può sollevare il velo senza pretendere che nessuno guardi quello che ci sta sotto e, quando si ha il potere di farlo, senza rinunciare al proposito di infierire con chi ha avuto il coraggio di fare quel gesto. L’Ufficio Misure di prevenzione era considerato una sorta di fiore all’occhiello e il suo Presidente, Silvana Saguto, uno dei personaggi più impegnati nel mondo dell’antimafia. In realtà non era tutto oro.
Non abbiamo fatto, come i soliti ipocriti antimafiosi di facciata ci hanno accusato di fare, il gioco dei mafiosi, ma quello di una giustizia che protegga gli interessi di tutti i cittadini, che sia uguale per tutti, che metta a posto le disfunzioni senza distruggere l’economia e i posti di lavoro, nella drammatica situazione di povertà in cui si trova la Sicilia.
Si dirà che le misure di prevenzione e la carta bianca ai giudici nella lotta contro la mafia sono “eccezionalità necessarie”, se si vuole combattere l’accumulazione mafiosa della ricchezza, ma le eccezioni, per definizione, sono rare alterazioni della normalità, che si mettono in atto in condizioni d’emergenza e che non possono diventare croniche.
Ci sarà, e c’è già stato, qualcuno che, con la puzzetta al naso, ha sentenziato che con questo lavoro si delegittima il sistema, ma, se il sistema è questo, è bene delegittimarlo, o almeno metterne in discussione le parti malate e cercare la cura per renderlo più efficiente.
Si dirà che, esibendo questi numerosi casi di “fallimento” dello stato che non riesce ad assicurare a tutti una giustizia “giusta” e il diritto a conservare il lavoro, rispetto a chi invece lo perde proprio a causa dell’intervento dello stato, si mette in discussione la colonna portante delle istituzioni, la magistratura: troppo facile rispondere che una denuncia ha senso se serve, come in questo caso, a rilegittimare un’istituzione che non funziona bene e che la delegittimazione è causata dall’azione deviata di chi dovrebbe rappresentare legittimamente l’istituzione o da chi usa in modo distorto una legge già distorta.
Certamente si riscontreranno errori, nelle date, nei nomi, nel racconto delle vicende, motivati spesso dalla difficoltà di accedere agli atti giudiziari e o di avere un contraddittorio rispetto a quello che è stato riferito o raccontato. Alcuni sviluppi giudiziari non sono stati aggiornati ed è possibile che, di alcune notizie si sia omesso di citare la fonte, o che altre notizie possano essere considerate incomplete, sbagliate, se non diffamatorie. In ogni caso c’è la disponibilità ad eventuali rettifiche e integrazioni, senza il ricorso a rivalse giudiziarie ed economiche, secondo un vizietto invalso da qualche tempo.
Ultima considerazione: questo libro nasce già condannato. Nel bollettino di Libera, il 17 febbraio 2016 Lorenzo Fregerio, responsabile di Libera in Lombardia, verso il quale nutro stima, sulla base di informazioni e considerazioni che egli stesso definisce di parte, scrive: “Spiace pensare che una temibile “cupio dissolvi” stia ottenebrando il giudizio in alcuni e serva solo a criticare, perdendo di vista le positività oppure – concedeteci il sospetto – a promuovere libri dedicati all’antimafia che non funziona. Non vorremmo che così facendo, si finisca per lanciare il messaggio che l’antimafia vera non esiste, perché è tutto solo business”.
Non sono schierato “contro l’antimafia”, come Giacomo Di Girolamo, che ne ha scritto un libro con questo titolo provocatorio, nè considero quelli che fanno confessioni antimafia eclatanti dei “tragediatori”, come li chiama, nel titolo di un altro libro, Francesco Forgione. Considero l’antimafia espressione di un impegno civile non facile, soprattutto in zone in cui la mafia si taglia col coltello e che sembrano senza speranza. La mia storia personale, che ha avuto il momento più bello negli anni della collaborazione con Peppino Impastato e il momento più tragico con il suo assassinio, lo testimonia.
Per questi motivi non voglio far parte del coro di coloro che oggi abbaiano contro l’antimafia cercando le spiegazioni più balorde per dirne male. E’ diventato una moda trovare qualcosa e qualcuno da additare ad esempio del fallimento di un ideale, di un certo tipo di lotta che ha visto scendere in campo studenti, docenti, imprenditori, scrittori, artisti, sacerdoti, uomini politici, magistrati, gente comune.
Frigerio parla di “alcuni”, ma, finisce con lo scambiare la parte per il tutto ed estendere il giudizio sull’operato di una parte come il giudizio sul tutto, il giudizio su determinati settori verniciati di antimafia come un giudizio su tutta l’antimafia; finisce tra coloro che dicono di ritenersi offesi e fanno quadrato davanti alla denuncia di qualche disfunzione, anzichè prenderne atto e predisporre o stimolare le opportune correzioni di rotta. Il figlio di Pio La Torre ha dovuto impararlo a sue spese, lasciando Libera, i cui meriti sono innegabili, ma ci sono altri casi in cui sono stati istruiti processi d’offesa e di difesa, di santificazione e di demonizzazione, di osanna e di anatemi, le cui energie disperse avrebbero meritato di essere dirottate verso altri impegni.
Ancora due parole: la legge di cui si parla, le sue conseguenze, spesso disumane, la mancanza di scrupoli, da parte di chi l’ha applicata in modo indiscriminato, e di umanità, da parte di chi ne ha eseguito gli ordini, pone alcune gravi domande su quanti spazi di democrazia oggi siano presenti in Italia e quanti siano ancora da conquistare. Certe eredità del fascismo non sono mai morte. Non è vero che la legge è uguale per tutti: sarei tentato di dire, in siciliano “cu avi dinari e amicizia teni nculu la giustizia” (chi ha denari e amicizia tiene in culo la giustizia). Sarei disposto a dire, contraddicendo lo stesso assunto giuridico di base, che “la legge è uguale per tutti, eccetto che per i mafiosi”, poiché costoro non rispettano la legge e magari pretendono di usufruire delle sue garanzie. Ma attenzione, “eccetto che per i mafiosi” comprovati e giudicati tali, ai quali vanno tolte anche le mutande, non per coloro che sono sospettati di mafia e poi, dopo essere stati spogliati di tutto, sono prosciolti da ogni accusa. Una profonda revisione, se non la cancellazione della legge sulle misure di prevenzione fondate sul sospetto sarebbe una conquista di civiltà per distanziarci dalla barbarie e dal medioevo della giustizia.