PADRE NOSTRO: RILIEVI CRITICI (S .V.)
Premessa: Ho esitato per parecchio tempo prima di pubblicare questa riflessione critica. Il Padre Nostro è una preghiera insita nell’essere cristiani, componente primaria del cristianesimo, la preghiera per eccellenza, in quanto indicata dal figlio di dio, che ci rende, assieme a lui, figli tutti dello stesso padre. L’abbiamo tutti recitata e, sin da piccoli, il sapere di avere un altro padre ben più potente del nostro e che ci amava più del nostro, ci dava uno strano senso di sicurezza e di serenità, colmava il senso della nostra debolezza di esseri umani. In quanto preghiera divina, dovrebbe essere perfetta, al di sopra di ogni critica, completa e inattaccabile. E invece non è così. Tuttavia non riesco a sottrarmi alla responsabilità di mettere in discussione tante certezze attraverso l’uso di quella ragione che dovrebbe essere un dono di dio , che invece è forse un furto come il fuoco che Prometeo rubà agli dei o una esclusiva peculiarità dell’uomo: forse è per questo che dio lo avrebbe cacciato dall’Eden quando egli osò mangiare il frutto dell’albero della conoscenza..
Vogliamo riprendere dall’inizio la preghiera insegnata da Gesù, la più conosciuta e la più pronunciata tra le preghiere., ruolo che le viene conteso dall’Ave Maria. Si pensi che nel Rosario, ognuno dei tre misteri, gaudiosi, dolorosi, e gloriosi ( ai quali Giovanni Paolo II ha aggiunto i cinque misteri “luminosi”) è composto da cinque “stazioni” e che per ognuna di esse si contempla la recita di un pater noster, di dieci avemarie, 3 gloria patris: in pratica 150 avemarie, 15 pater noster e 45 gloria patris. Con l’aggiunta dei cinque misteri luminosi, il numero sale a 200 avemarie, 60 gloria patris e 20 pater noster, che possono essere recitati in unica soluzione o in forma ridotta, secondo giorni prestabiliti della settimana. Il pater noster si recita anche verso la fine della messa e, negli ultimi tempi è invalsa l’usanza di recitarlo con le palme delle mani rivolte verso l’alto.
Già la preghiera inizia con l’attribuzione di paternità: “Padre nostro”. Dio Padre è titolare di una paternità universale, che include anche la paternità del Figlio: bisognerebbe distinguere se quella del figlio è una paternità diretta, una sorta di fecondazione eterologa, come sembra dall’Annunciazione dell’arcangelo Gabriele, rispetto alla paternità degli altri uomini. Pur professandosi religione monoteista il Cristianesimo non ha saputo sottrarsi del tutto alle grandi triadi delle religioni antiche, ed estende la caratteristica di divinità, tutt’uno col Padre, al Figlio e allo Spirito Santo. Non si tratta di attributi o proprietà, ma di vera e propria identificazione, per cui il padre è il figlio e viceversa, così come ognuno di essi è lo spirito santo: sul significato di questa entità si è detto di tutto e il contrario di tutto, ma ancora oggi è difficile trovare qualche comune cristiano in grado di dare una risposta. L’identificazione padre-figlio comporta automaticamente che il figlio è padre di se stesso e del suo stesso padre, così come il padre è anche figlio di se stesso e che la sua entità di figlio lo rende anche fratello del padre. Tipica la definizione dantesca “Vergine madre, figlia del tuo figlio” poiché Maria è figlia di quel dio che lei stessa ha partorito, dandogli l’identità di figlio. A questo punto la fratellanza con Cristo diventa anche fratellanza con Dio, padre e fratello. Se Cristo, nel prescrivere la preghiera ha tutte le motivazioni per dire “Padre Nostro”, potrebbe anche dire “Fratello nostro”, così come ognuno dei credenti. Stesso grado di parentela è da attribuire, per analogia allo Spirito Santo. Più problematico invece attribuire il ruolo di padre di tutti gli esseri viventi, considerato che egli ha dato vita al primo degli uomini e che tutti quelli che discendono da lui rendono Dio, secondo la scala parentale, nonno, bisnonno, avo ecc.
“Che sei nei cieli”. Prima domanda è: Quanti sono i cieli? Perché non si dice “che stai in cielo?” . Se i cieli sono tanti, Dio li occupa tutti? O ha la sua reggia, per dirla con Dante, “Nel ciel che più della sua luce prende”?. Se è nei cieli dovrebbe teoricamente non essere sulla terra, ma al catechismo ci hanno insegnato che “Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo”. E allora?. Alla base si nasconde l’annoso e irrisolto problema del dualismo spirito-materia e la domanda: “Può Dio, puro spirito, creare materia?” La materia creata da Dio dovrebbe, in quanto tale, essere sostanza divina, o sotto-sostanza, creazione di qualcosa nella quale non è stata trasferita l’interezza della divinità, una sorta di entropia divina, di divinità declassata. IL dualismo porta inevitabilmente ad altri dualismi, primo fra tutti quello bene-male. Se Dio è il bene, che cos’è il male? Un’altra divinità che contrasta con lui, come nello zoroastrismo e nel manicheismo? Oppure, considerato che all’origine del male c’è la ribellione del più importante degli angeli, il Lucifero biblico, portatore di luce, il male sarà nato da qualche attimo di distrazione divina, cosa comunque incompatibile con la sua perfezione.
“Sia santificato il tuo nome” E perché? Che bisogno c’è di dire, di dirsi a ripetizione che Dio è santo, anzi che è santo il suo nome? Già è incluso nell’essenza divina la caratteristica dell’essere santo, così com’è insito nell’essere uomo quello di avere un corpo o una ragione. A che serve ripeterlo? “Sanctus, sanctus, sanctus, sanctus dominus Deus sabaoth”. Già lo si ripete quattro volte, non è chiaro se è per autoconvincersi o per attirare la benevolenza di Dio. La cosa potrebbe avere un senso se vista con l’occhio dell’uomo, imperfetto e quindi non santo, che individua la santità compiuta nel suo modello, ma se egli è stato fatto dallo stesso dio “ a sua immagine e somiglianza”, che bisogno ha di santificare qualcosa che sta anche dentro di lui, che gli appartiene? Una considerazione secondaria sarebbe quella del “non nominare il nome di dio invano”, ma nominarlo per santificarlo, non è forse un atto inutile, un ossimoro, e quindi una inosservanza del, comandamento?
“Venga il tuo regno”: questo vuol dire che ancora il regno divino non è venuto, non si sa che tipo di regno ci sia adesso e se ne attende e se ne auspica l’avvento di uno nuovo, senza conoscerne il tempo. Inevitabile la considerazione che Dio è re e quindi monarchico, essendo fuori discussione per lui la repubblica. Forme di governo non monarchiche sono sempre esistite a partire dalle origini della storia politica dell’uomo, ma Dio è re, così come anche suo figlio è INRI, Iesus Nazarenus Rex Iudeorum. Poca differenza con l’immagine del buon pastore che comanda sulle pecore, sia esso Dio, sia il papa, suo rappresentante in terra, sia il vescovo, sia il prete. Tutti pastori del gregge dei fedeli.
“Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra”: Anche qua c’è un auspicio che lascia intravedere come questa volontà non ci sia ancora e si invoca che possa esserci. Per contro c’è chi sostiene che tutto quello che succede avviene per volontà di Dio. In questo caso è inutile auspicare che tale volontà sia fatta, dal momento che lo è. Inevitabilmente ci spostiamo sul tema del “libero arbitrio”, ovvero nella facoltà che Dio avrebbe dato all’uomo di ”seguire” la sua legge o di poterla trasgredire, andando incontro a una punizione: in tal caso non tutto avviene per volontà di Dio, ma le scelte avvengono per volontà dell’uomo che, malgrado la sua essenza divina potrebbe trasgredire la legge divina e quindi far peccato. Qui l’onnipotenza di Dio si scontra e s’incontra con la sua onniscienza e con la sua indiscutibile bontà. Il dio che sa tutto sa anche quando e come l’uomo trasgredirà la sua precedente legge. In tal senso potrebbe intervenire per rimettere tutto a posto o stare a guardare. La preghiera ha in genere questa caratteristica del chiedere l’intervento divino, ma se dio interviene cambia quello che era il suo disegno originario. Se è onnipotente può farlo. Se è onnisciente, sapeva che avrebbe cambiato quello che lui stesso aveva deciso? In tal caso viene meno la perfezione del suo disegno originario, oppure la preghiera per ottenere qualcosa è perfettamente inutile, a meno che non si voglia pensare che dio sapeva che avrebbe cambiato la sua decisione grazie alla preghiera dell’uomo, modificando le sue stesse decisioni. Così l’onniscienza rischia di prendere due strade diverse.
“Dacci oggi il nostro pane quotidiano”. Se il pane è quotidiano, l’oggi è inutile, perché incluso nella quotidianità. In questo caso si rischia di pensare a Dio come a un fornaio e di ritenere il pane come l’elemento unico dell’alimentazione. Sarebbe stato più opportuno parlare di “cibo quotidiano”. In sostanza si chiede a Dio di fornire, di concedere ogni giorno il pane, come se questo dipendesse da lui, ma non è così, perché al momento della cacciata dall’Eden Dio condannò l’uomo a procacciarsi il pane col sudore della sua fronte.
“Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” : Questa dicitura è riportata dal vangelo di Matteo (6,9), mentre nel testo di Luca (11,1) è’ scritto: “perdonaci i nostri peccati perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore”. Ognuno di noi sarebbe debitore nei confronti di Dio e creditore nei confronti di altri suoi simili. Non è chiaro che debito si potrebbe avere contratto con Dio: noi siamo suoi figli, suoi fratelli, suoi eredi. Cosa può averci prestato, che dovremmo restituire, ma che lo preghiamo di rimettere? E non si tratta di un solo debito, perché è usato il plurale. Sembrerebbe scontato, normale, nell’ordine delle cose che noi “rimettiamo” i debiti alle persone verso cui siamo creditori, ma è altrettanto normale chiedersi quanti siano disposti a rimettere i debiti e perché dovrebbero rinunciare a riscuotere quello che hanno dato in prestito, magari escludendo gli interessi per evitare situazioni di usura. La rinuncia a riscuotere debiti dai propri debitori potrebbe essere valutata come “opera di misericordia”, ma non sembra economicamente produttiva. Si potrebbe ipotizzare un atto di benevolenza di chi ha di più nei confronti di chi non può pagare quello che ha avuto in prestito, ma si correrebbe il rischio di trovarsi davanti chi se ne approfitta, amplificando il suo debito che non pagherà. Cristo chiarisce che “se voi perdonate agli uomini le loro colpe, il padre vostro celeste perdonerà anche a voi, ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il padre vostro perdonerà le vostre colpe”. Per qualche verso sembra essere tornati alla legge del taglione, ovvero dell’”occhio per occhio”, che esclude il perdono in nome dell’amore: il perdono o il non perdono di Dio è consequenziale al perdono e al non perdono degli uomini, così come uno schiaffo di ritorno è la risposta al primo schiaffo. Il richiamo più conforme è quello della parabola dei talenti e del padrone che prima di partire dà ai suoi tre servi, rispettivamente dieci, cinque, uno talenti e al suo ritorno ne riceve venti, dieci, uno: il padrone si arrabbia con il servo che aveva nascosto il suo talento e glielo aveva restituito senza farlo fruttare e la parabola ha una terribile conclusione: “Toglietegli quel talento e cacciatelo via: in verità vi dico: a chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quel poco che ha”. E meno male che glielo aveva riportato. In pratica si tratta di quell’etica protestante insita, secondo Max Weber , nello spirito del capitalismo. L’eroe non è Robin Hood, ma Superciuck, lo scombinato supereroe del fumetto Alan Ford che ruba ai poveri per dare ai ricchi. Si potrebbe obiettare che non si tratta di soldi, ma di doni, senza che ci si possa sottrarre all’obiezione: perché Dio dovrebbe dare più ad alcuni e meno ad altri, creando discriminazioni, ma anche considerare che chi ha meno ha minori possibilità di investire e trarre profitto dal poco che ha e che spesso serve solo alla sua sopravvivenza.
“E non ci indurre in tentazione” A partire dal 29 novembre del 2020, per disposizione papale, non si dirà più “non ci indurre in tentazione”, ma “non abbandonarci alla tentazione”. La modifica si è resa necessaria perché davanti alla considerazione che Dio non può indurre qualcuno in tentazione, poiché egli è buono e ama i suoi figli, quindi non può stimolare in loro alcuna tentazione. La Chiesa è arrivata con molto ritardo, solo dopo duemila anni a questa elementare considerazione. Pare che l’errore sia originato dall’originario termine greco, il cui significato di “condurre, portare”, è stato in latino tradotto con “inducere”, poi riprodotto in italiano. Per contro in lingua spagnola si dice ”fa che non cadiamo in tentazione” e in francese , dall’originario “non sottometterci alla tentazione” si è passati al recente “non lasciarci entrare in tentazione”. Non è che la correzione cambi molto o sia meno scevra di critiche: perché dovremmo chiedere a Dio di non abbandonarci alla tentazione? Perché noi da soli non ne siamo capaci. Ma se Dio, per sua bontà interviene, non infrange quel libero arbitrio che ci aveva dato?. Dovrebbe venir meno anche il concetto che “Dio ci sottopone a prove” per vedere la nostra risposta, cosa che egli, nella sua onniscienza, dovrebbe già sapere. Le disgrazie non avvengono per volontà di Dio o come prove da lui volute, per vedere in che modo riusciamo a superarle. Sarebbe bene tirar fuori Dio da tutto ciò di cui sono responsabili gli esseri umani.
“Ma liberaci dal male”. La frase è consequenziale alla premessa, ovvero, ovvero è come dire ”non abbandonarci al peccato, ma liberaci da questo”. Può Dio intervenire per cambiare le decisioni dell’uomo? Può liberarlo dal male al quale egli sa già che andrà incontro? Parliamo di “male morale”, ovvero del peccato, che è una scelta dell’uomo. Se Dio libera l’uomo dal peccato, ogni problema è risolto, si torna a vivere nell’Eden , ovvero nel regno del bene assoluto, ma viene meno anche la facoltà di operare scelte, da parte dell’uomo. A meno che non si voglia parlare di “male fisico”, ovvero di disgrazie e sciagure: in tal caso la preghiera ha un senso, anche se dio non può modificare quello che egli ha deciso, a scapito della sua perfezione, né tantomeno è responsabile dei nostri malanni. Da stabilire se l’accidentalità esiste e se su di essa Dio può intervenire per modificarla, ma in tal caso non è più accidentalità. E’ stata da sempre insita nell’uomo la tendenza a rivolgersi a una divinità di fronte all’ineluttabilità degli eventi. “Timor fecit deos” diceva G.B.Vico. Ma in questo caso Dio non è più all’origine di tutto, diventa una costruzione della mente umana. Cosa inaccettabile per qualsiasi credente.
Amen: la traduzione dall’ebraico sarebbe “E così sia”, con due possibili significati: uno quello imperativo, nel senso che ordino che avvenga così, fiat, l’altro ottativo, nel senso che auspico che così avvenga, interpretazione che sembra più aderente.
In conclusione il Padre Nostro è una preghiera piena di contraddizioni, di luoghi scontati, di deviazioni logiche. E ad essere coerenti, il credente non dovrebbe avere bisogno di una preghiera già fatta, sia pure confezionata dal figlio di Dio, e quindi da Dio stesso, che finirebbe con l’autoglorificarsi servendosi dell’uomo. Il rapporto di amore e di congiunzione con la divinità non si dovrebbe esplicitare in forme e in formule, ma dovrebbe essere avvertito interiormente, sentito più che esplicitato. Ma qui finiamo con lo spostarci nell’intimismo protestante, rispetto alle esternazioni di fede di cui il cattolicesimo non sa e non può fare a meno. Quindi, se questa irrazionale preghiera può servire a dar serenità all’uomo e a farlo sentire più vicino alla divinità in cui crede, che ben venga per chi ad essa fa ricorso, ma senza la pretesa di dar significato alle parole che la compongono e ai conseguenti significati. (Salvo Vitale)