parole
Siamo tutti bravi,
facciamo le manifestazioni,
ci mobilitiamo per ricordare i morti,
sì, la memoria è necessaria,
un popolo senza memoria
è un popolo senza storia,
e blablabla,
sapienti architetture di parole,
con fiocchetti, analisi,
interventi scritti, applausi,
giacca e cravatta sotto il sole torrido,
apprezzamenti per i successi conseguiti,
parate disparate,
presenza d’obbligo delle forze dell’ordine,
strette di mano, baci, targhe,
e più recentemente alberi,
rassegne dei tipi più squallidi,
in rappresentanza delle istituzioni,
il presidente, il deputato,
il sindaco, gli assessori,
il capitano, l’arciprete, i parenti,
apoteosi del cerimoniale,
passeggiate sul sangue dei morti,
scoramenti, scornamenti,
se ci va lui non ci vengo io,
verifiche dei partecipanti,
la città che non c’era,
Peppino è vivo,
non certo tra i compagni a pugno chiuso,
perché Peppino è morto
e non lotta più insieme a noi,
Paolo vive,
non certo tra i camerati a braccio alzato,
perché Paolo è morto nel caldo di luglio,
assieme ad altri di cui possediamo l’elenco
e ad altri ancora che non ne fanno parte,
e poi, dopo la morte l’imbalsamazione,
la tumulazione nel pantheon dell’immobilità
la cera nelle orecchie per non sentire le urla,
lo stupore, l’angoscia del mare della morte
che si chiude sulle loro teste per sempre,
dentro uno spazio senza tempo.
L’applauso è un addio che ci distanzia
dalla condivisione delle loro scelte.
Più amara l’apparenza dell’impegno
che nasconde un qualche interesse.
“Noi ci dobbiamo ribellare…”
E come?
Chi si permette di dirlo è un sovversivo