Peppino e Salvuccio
09 Aprile 2016
di Salvo Vitale
La recente vomitevole intervista a Salvuccio Riina, figlio del più grande criminale dei nostri tempi, il quale, diventato scrittore, racconta e descrive un idilliaco quadro delle sue vicende familiari, si scaglia, come già suo padre, contro i collaboratori di giustizia, affida solo alla magistratura il compito di giudicare i mafiosi, ignorando o fingendo di ignorare il dovere morale che ogni cittadino deve avvertire nella condanna della mafia e dei suoi crimini, ha riproposto l’importanza dell’uso dei mass media, specialmente davanti a tipi come Bruno Vespa, autentico “sciacallo” dell’informazione, pagato con circa un milione e mezzo di euro dalla RAI per propinare minchiate in tarda serata.
Vale la pena citare una delle ultime considerazioni di Umberto Eco, scomparso da poco, nel suo libro “Apocalittici e integrati”: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli. La tv aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità”.
Se vogliamo dare un volto a quanto dice Eco l’imbecille è chi pretende di parlare per tutti, lo scemo del villaggio è chi si sottopone alle domande. In una parola Vespa e Riina.
Nel rapporto genitori-figli, specie quando si tratta di genitori mafiosi, l’unico, vero, lacerante momento di rottura familiare rimane quello di Peppino Impastato. Le sue parole sono chiare e drammatiche: «Arrivai alla politica nel lontano novembre del ’65, su basi puramente emozionali: a partire cioé da una mia esigenza di reagire ad una condizione familiare divenuta ormai insostenibile. Mio padre, capo del piccolo clan e membro di un clan più vasto, con connotati ideologici tipici di una società tardo-contadina e preindustriale, aveva concentrato tutti i suoi sforzi, sin dalla mia nascita, nel tentativo di impormi le sue scelte e il suo codice comportamentale. È riuscito soltanto a tagliarmi ogni canale di comunicazione affettiva e a compromettere definitivamente ogni possibilità di espansione lineare della mia soggettività”.
A conferma di tutto ciò c’è il suo essere cacciato di casa, poco meno che ventenne, il suo adattarsi in un magazzino che è capace di trasformare nel “Circolo Che Guevara”, la sua negazione totale della cultura familiare e dei suoi micidiali principi fatti di violenza, assuefazione, prepotenza, mancanza di rispetto dell’altrui persona, complicità, omertà. La conseguenza è la solitudine, l’arroccamento in se stesso, da cui Peppino tenta disperatamente di uscire attraverso l’impegno politico e la costruzione di un nucleo di compagni nel segno del comunismo.
Altro che “essere orgogliosi del proprio padre e dei valori che è riuscito a trasmettergli”, come afferma il rampollo di Fracchia-Riina, “la belva umana”.
A che serve mandare in onda queste sciatte interviste? Solo a cercare di fare audience e di pubblicizzare un libro i cui proventi andranno nelle tasche di un editore senza scrupoli e di un autore che, per il solo fatto di avere scontato otto anni di carcere per associazione mafiosa, è un mafioso a tutti gli effetti e non ha dimostrato alcuna volontà di fare un passo indietro. Un consiglio: Non sprecate i vostri soldi.
(Antimafia Duemila)