Quando il giornalismo dà fastidio al Potere
Questo articolo di Giorgio Bongiovanni e di Aaron Pettinari commenta un’intervista su La 7 a Saverio Lodato, Paolo Borrometi e Federica Angeli. Il discorso è più ampio di quanto non sembri, nel senso che sono ormai incalcolabili le denunce presentati dai “potenti” nei confronti di “poveri” giornalisti, per lo più senza tessera che provano a fare il loro lavoro senza alcuna protezione e con il costante “fiato sul collo” da parte di chi si sente disturbato dalle loro inchieste. E’ il caso dell’emittente Telejato, sulla quale si è abbattuta la scure della Procura di Palermo. Due in particolare i giornalisti nel mirino, Pino Maniaci e Salvo Vitale. Per Maniaci sono state usate una serie di impressionanti forzature della legge, a cominciare dalla diffusione di intercettazioni che riguardavano la sua vita privata, il suo modo di esprimersi, le sue richieste di qualche spicciolo, spesso in relazione alla pubblicità fatta attraverso la sua emittente, altre volte per venire incontro alle esigenze di sopravvivenza di una persona sottoposta a un vero e proprio stalking da parte del marito. Nei confronti di Salvo Vitale invece sono state formulate una serie di denunce, quasi tutte provenienti da esponenti legati o alla magistratura o alle forze dell’ordine. Cosa ci sia dietro questa ostinata e pervicace “persecuzione”, che ha come obiettivo la chiusura dell’emittente, è facile da capire: la causa scatenante è stata la campagna condotta da Telejato, attraverso gli articoli di Salvo Vitale, di denunce sulla “mala gestio” dell’ufficio misure di Prevenzione diretto da Silvana Saguto, considerata un vessillo dell’antimafia attraverso il ricorso spesso ingiustificato al sequestro di berni a presunti mafiosi e la distribuzione di questi beni ai suoi amici, con l’affidamento d’incarichi, come quello di amministratore giudiziario, di consulente, di perito tecnico e molto altro. Curiosa una sentenza per diffamazione, da parte del procuratore di Palermo Francesco Lo Voi nei confronti di Salvo Vitale, reo di avere “immaginato” una cena dove erano presenti i protagonisti dello scandalo Saguto, i quali complottavano tra di loro su come poter far chiudere la bocca a Maniaci. Il processo si è concluso con la condanna di Salvo Vitale al pagamento di 500 euro di multa, al pagamento delle spese giudiziarie e al risarcimento a Lo voi di 3.500 euro. L’originaria richiesta del procuratore era stata di 100 mila euro e quella del PM al processo di un anno di carcere. Ho avuto l’impressione di vivere in un regime dittatoriale in cui si comminano pene nei confronti dei dissidenti politici per chiudere loro la bocca. Difficilmente la sentenza, alla quale è stato presentato appello, potrà avere un qualche sviluppo, nel senso che non sono in grado di pagare quanto stabilito dal giudice, se non con qualche detrazione sulla mia magra pensione.Non so a cosa potrebbero servire i miei soldi al Procuratore. Tutto questo, dopo che ho dichiarato che non era mia intenzione offenderlo e che, se così egli ha recepito la cosa, non avevo problemi a chiedergli scusa. Purtroppo, secondo le nostre vecchie leggi questo non basta. Ma siamo sempre lì, non si può più neanche scherzare o fare satira, specialmente nei confronti dei potenti di turno e non si può denunciare un verminaio specie se sotto ci sta chi rappresenta o dovrebbe rappresentare lo stato, il potente di turno, sia esso un magistrato, che un uomo politico o un esponente delle forze dell’ordine.
(Salvo Vitale)
Giuseppe Alfano, Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Giuseppe Fava, Mario Francese, Peppino Impastato, Mauro Rostagno, Giovanni Spampinato,Giancarlo Siani. Nove nomi, nove storie di giornalisti che sono stati uccisi dalla mafia per le loro inchieste scomode, per quelle parole dette ed impresse sulla carta. Giornalisti detective che con il proprio impegno offrivano un contributo fondamentale e che hanno sacrificato la propria vita per quel diritto all’informazione che ancora oggi, nel 2018, viene spesso calpestato. Saverio Lodato, editorialista del nostro giornale e saggista che di mafia si è sempre occupato, intervenendo ieri ad “Otto e mezzo”, la trasmissione condotta da Lilli Gruber su “La7”, ha spiegato chiaramente perché un giornalista entra nel mirino non solo delle criminalità organizzate ma anche di quei potenti di turno che temono continuamente di vedere svelati i propri affari ed i propri interessi: “Un giornalista entra nel mirino nel momento in cui comincia a capire quello che scrive e quello su cui sta lavorando e, da quel momento, fa la scelta di non fingere di non aver capito”.
Oltre a lui, ospiti della trasmissione, due colleghi che vivono sotto scorta proprio per le loro inchieste: Paolo Borrometi e Federica Angeli. Quest’ultima, cronista di “La Repubblica”, le scorse settimane ha ricevuto l’ennesima intimidazione con una busta, a lei indirizzata, contenente un proiettile recapitata alla redazione de “Il Fatto Quotidiano”.
Un’inchiesta recente sul clan Catanese dei Cappello, invece, ha svelato il progetto di attentato nei confronti di Borrometi, direttore di Articolo 21 e collaboratore de l’Agi, su richiesta del boss siracusano Salvatore Giuliano. Storie diverse che dimostrano come ancora oggi l’informazione dà fastidio al Potere. Nel ricordare l’elenco di quei giornalisti che hanno pagato con la vita “l’aver adoperato la parola contro lo strumento delle armi, del ricatto e degli affari”. Lodato ha voluto anche esprimere la propria solidarietà a Borrometi ed alla Angeli: “Entrambi appartengono a quella famiglia speciale dei giornalisti d’inchiesta. Quel giornalismo non gradito e non simpatico al potere e detestato da tutti i poteri criminali. Fortuna vuole che 30 anni di esperienze antimafia ha portato lo Stato a capire che giornalisti di questo tipo vanno protetti e scortati”.
Ovviamente non poteva mancare il tema dei rapporti tra mafia e politica. “Guardando all’ultima campagna elettorale non si è sentito molto risuonare la parola mafia o l’invito alla lotta alle mafie – ha subito evidenziato Borrometi – La politica ha abbassato la guardia su questo tema ed è un grande problema. Probabilmente perché è più semplice far leva sulla pancia del paese, creando e agitando lo spettro degli immigrati che fanno più presa rispetto agli attentati che mancano da un po’ di tempo, anche se l’ultima autobomba in Calabria ci fa comprendere come laddove si è peccato di sottovalutazione si torna in maniera forte e prepotente”.
Lodato invece ha evidenziato un dato, ovvero che “rispetto a trenta o quaranta anni fa, quando erano i mafiosi che cercavano il rapporto con la politica, oggi la mafia ha fatto un salto, riuscendo a sopravvivere alle stragi del 1992 e del 1993, dimostrando che l’affermazione di Falcone (“La mafia è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio ed avrà anche una fine”) era fallace. Perché uno come Falcone, che non era secondo a nessuno, può aver sbagliato una tale previsione? Perché la politica, chiaramente non tutta, ha acconsentito alla mafia di sopravvivere, riuscendo per l’ennesima volta a cambiare pelle”. L’autore di “40 anni di mafia” si è poi soffermato sul voto del 4 marzo: “Lo scenario è fortemente cambiato. La mafia un tempo votava Dc, poi socialista, quindi il partito Radicale. E lo scenario oggi è cambiato con un movimento che ha resuscitato a parole la questione morale di Enrico Berlinguer ed istintivamente i mafiosi non è che guardino con simpatia i Cinque Stelle. Il Pd in Sicilia da anni si è addormentato sulla questione morale e poi c’è la nota dolens, Forza Italia, con quel peccato originale di cui si è occupata anche la Cassazione nella sentenza definitiva di Condanna nei confronti per Marcello Dell’Utri”. “In quella sentenza – ha ricordato Lodato – si dice che Dell’Utri per diciotto anni, dal 1974 al 1992, è stato il garante “decisivo” dell’accordo tra Berlusconi e Cosa nostra. E questo rapporto corrisponde a cospicui e periodici scambi di denaro di Berlusconi nei confronti della mafia”. Secondo il giornalista, però il “nuovo sport delle mafie” riguarda l’attenzione alle “liste civiche che nascono alla vigilia delle lezioni e poi scompaiono”. Anche Borrometi ha condiviso quest’ultima analisi in particolare perché le mafie oggi “guardano più alle amministrazioni locali”, quindi ha anche evidenziato la responsabilità della società civile, ricordando l’elezione passata di figure come Totò Cuffaro o Raffaele Lombardo.
Leggermente diversa la considerazione di Federica Angeli rispetto al Movimento Cinque Stelle. “Non dico che sia colluso con la mafia, ma ad Ostia ha prestato il fianco anche alla mafia quando ha inviato un dossier additandomi come collusa con i clan di Ostia. E’ anche da questi aspetti che trae forza un clan che arriva a sentirsi forte se viene delegittimato il lavoro del giornalista diffamandolo”.
Ma c’è un altro aspetto che Lodato ha voluto evidenziare e riguarda il silenzio mediatico attorno a processi come quello sulla trattativa Stato-mafia che, probabilmente, domani vedrà la Corte ritirarsi in Camera di Consiglio: “Questo processo è pressoché sconosciuto agli italiani perché tocca gangli delicati, quello di una mafia che si è fatta politica, che si è fatta Stato. Gli imputati sono indifferentemente mafiosi, carabinieri e rappresentanti delle Istituzioni e forse è anche per questo che non si parla più di mafia. Se ne parlava solo quando c’era il volto di Riina, di Provenzano, delle stragi e dei delitti mentre c’è una mafia silente che continua a fare affari, i cui capitali solo in minima parte sono stati trovati. Nei fatti una mafia con la quale, come diceva un antico ministro, ‘si può convivere’, e la società civile credo che questo l’abbia intuito o capito”. Ed è forse questo l’aspetto più inquietante. E se da una parte i colleghi Angeli e Borrometi trovano il modo di andare avanti mettendo da parte la paura, continuando a fare il proprio dovere di giornalisti, è anche grazie all’intervento dello Stato, dall’altra è importante l’ultima considerazione di Lodato: “La mafia finirà quando finiranno i rapporti alti della mafia. Dobbiamo prendere atto che esiste da almeno 150 anni e che ha dimostrato una longevità infinita. In questo tempo è riuscita a mutare pelle decine e decine di volte. Le Commissioni Parlamentari Antimafia continuano a studiare il fenomeno e forse si è riusciti a capire quello che c’era da capire. Ed il giornalismo d’inchiesta è importante. Il bello di questo mestiere non è scrivere per scrivere ma scrivere per scrivere ciò che si pensa e quando si scrive davvero ciò che si pensa, perché si comincia a capire, allora a quel punto il mestiere diventa scomodo. E in Italia di questo abbiamo bisogno. Prova è che nel 2017 ci sono stati circa 500 giornalisti che a vario titolo sono stati oggetto di minacce, intimidazioni, atti di violenza, querele, citazioni per danni, con strumenti giudiziari adoperati in modo improprio per costringere a tacere. E’ questa la partita che era stata dei martiri elencati prima. E tutti quelli che siamo ad occuparci di queste cose, seppur modestamente, dobbiamo continuare ad occuparci di questo nostro Paese continuando a fare fino in fondo la nostra parte”.
Pubblicato su Antimafia Duemila 15.4.2017
di Giorgio Bongiovanni ed Aaron Pettinari – Riferimento puntata di Otto e mezzo su La 7, con Lodato, Angeli e Borrometi