Ricordando Claudio Lolli tra borghesia e ipocrisia in tempo di pandemia
Borghesia, fai sempre più rabbia e schifo
In queste ore due anni fa Bologna salutava Claudio Lolli, il cantautore delle vite e dei sogni degli ultimi e degli emarginati.
La notizia arrivò come un pugno e gelò di sconforto, si offuscarono i libri e rabbuiò la stanza. Tornando alla mente i versi di Stagioni di Guccini, altro grande cantautore bolognese, per descrivere i tristi giorni di due anni fa.
In queste ore Bologna salutò Claudio Lolli, con l’animo e la presenza migliaia si sono stretti ad una parte importante della storia di noi tutti. Quella storia che non troveremo mai sui libri, che non conquisterà mai il grande pubblico, che non è mai stata neanche del tutto vissuta e scritta. Ma è la più vera, autentica, pulita, umana.
Di rabbia e malinconia, di amori persi negli autobus e di piazze da riconquistare, di un grande freddo che ci opprime e del male di un’umanità sempre più in cerca di se stessa. Una sorta di male di vivere di chi si sente straniero rispetto al mondo che lo circonda, alle sue borghesi dinamiche e al suo amalgamarsi quotidianamente, alla sopravvivenza mediocre spacciata come grande vita. Un male di vivere che non si rinchiude in se stesso perché per chi soffre veramente il dolore degli altri, parafrasando De André, non è mai un dolore a metà.
Le canzoni di Claudio Lolli raccontano da generazioni il malessere di questa società senza autentico amore, in cui gli ideali marciscono e l’animo umano (quando esiste ancora) è prigioniero di un freddo sempre più grande. Ma che, nonostante tutto, non si vuole arrendere.
Il grande freddo e la piazza, bella piazza ci indica la bussola per sopravvivere in questa disumana società: cercare di illuminare e riscaldare nel dominio dei colletti bianchi e dei grigi doppiopetti, dei potenti sempre più arroganti e dell’iniquità contro i più deboli e fragili. La malinconia di Claudio spinge ad andare oltre, ad aprire finestre verso il sole anche quando è notte fonda, a sognare e vivere i sogni, guardando con sguardo diverso e colorato questo mondo imprigionato nelle catene della borghesia.
Il mondo di Claudio Lolli (così come di Faber) sono i luoghi dove si può bere e conversare in compagnia di un barbone, di un emarginato, di uno sconfitto, delle pietre di scarto di questa società da cui invece possono nascere i fiori. È il mondo in cui una prostituta vale più di una baronessa, in cui la cultura pullula nei bassifondi della società e i feudi borghesi sono aridi, non interessanti, vuoti e stantii. Da vivere nei vicoli scuri, nei luoghi dove il buon Dio non dà i suoi raggi, dove accarezzare troppo le gobbe, riconoscere i nostri fratelli e vivere felici in Piazza Maggiore ubriacandosi di luna, la terra di nessuno è la nostra terra e l’amore non viene lasciato fuori dagli autobus.
Viviamo tempi di una sofferenza e di un’ingiustizia e oppressione sociale che strappa il cuore, un’angoscia quotidiana che divora e lacera le carni come una coltellata continua, roba da non dormire la notte e stare male a ogni ora del giorno e della notte, senza mai trovare riposo (come si può anche solo pensare di farlo mentre c’è chi crepa e viene violentato nell’animo e nel corpo ogni santo secondo da ingiustizie, prepotenze, oppressioni le più diverse?), che fa piangere per il dolore che senti nelle viscere. E quindi questo mondo piccolo borghese, queste quotidiane convenzioni sociali di una società che si divide in pre-potenti e lacché, feudatari e servi provocano solo il vomito, la nausea, ci si sente sempre più stranieri e alieni.
Diventa vitale rivolgersi altrove, cercare nuove «patrie», asilo politico in altre piazze e case. Dove non ci siano pre-potenti, ricchi e uno stile di vita egoistico e sfrenato. Dove non si marcisca – per dirla con Pasolini – «in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo». E in questo mondo, re e regine, cittadini e animatori sarebbero gli ultimi, gli emarginati, i folli, gli sconfitti.
La tristezza in quelle ore non ci avvolse come miele e frustò il cuore, ricordo che il giorno in cui arrivò la notizia, il 17 agosto, mi ritrovai a parlare con una persona ad una festa paesana. Una di quelle persone che «bei tempi il PCI», «noi compagni e le feste dell’Unità, Berlinguer e quando la sinistra era vera», gli dissi che era morto Lolli pensò immediatamente ad un politico abruzzese del PD, quando gli dissi che era invece l’immenso Claudio mi guardò stranito e mi disse «e chi cazzo è?».
Anni di militanza politica, feste, comizi e tanto altro, aveva conosciuto tutte le più vacue, meschine e transeunte stagioni vantandosi di aver conosciuto di persona e stretto le mani a leader piccini ma Claudio Lolli neanche l’aveva mai sentito nominare. Mi sentii mancare l’aria, volevo quasi piangere e – parafrasando Alessio Lega – rare volte come in quel momento mi sentii straniero a questa società. Straniero come ormai, e questi mesi di emergenza sanitaria e sociale ci schiaffeggiano con questa verità, milioni di persone di tutte le latitudini. In questi giorni si discute sempre più di vacanze e di movide, dei passatempi più borghesi ed effimeri possibili e del sostegno alle grandi industrie ed attività economiche. Chi ricorda più la situazione disastrosa della sanità? Nell’isterico delirio collettivo è stato assunto a fine giurista e avvocato di grido il difensore di alcuni dei peggiori delinquenti e mafiosi della storia d’Italia, capace di portare fin nel cuore del Parlamento uno dei più menzogneri depistaggi sull’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.
Giorni fa ha accusato medici, infermieri ed operatori socio-sanitari di essere stati assassini, di aver compiuto stragi per inventarsi la pandemia. E subito milioni di speedy gonzales della tastiera, branchi vigliacchi e arroganti a condividere il suo squallido e vergognoso delirio. Ci sono stati infermieri che hanno testimoniato il dramma che stanno vivendo anche in queste settimane, il dolore, la sofferenza e le condizioni terribili in cui stanno lavorando da mesi. Quasi silenzio, forse l’1% hanno condiviso le loro testimonianze.
È un film che troppe volte vediamo, è la «borghesia» che Claudio Lolli ci canta da decenni: fa sempre più pena, schifo, rabbia o malinconia, che si indigna a comando, s’interessa delle frivolezze e delle piume più leggere dell’infosfera e rimane indifferente ed ostile a quel che veramente pesa sul mondo. E così per i figli di papà e mamma, i grandi ricchi e le vite più effimere e i sollazzi più incoscienti barricate mediatiche e non solo, per chi è senza casa, per chi non arriva alla metà del mese, per chi è prigioniera della schiavitù sessuale, per chi è oppresso dalle mafie, per chi è vittima di un sistema previdenziale pubblico che in questi mesi ha abbandonato milioni di persone alla disperazione indifferenza, stigma sociale, silenzi che sanno di omertà.
E come dimenticare che in questi mesi appena qualcuno ha sussurrato che bisognava sostenere economicamente i più poveri e non tutti, che c’erano imprese che si stavano imponendo in nome del loro profitto sulla pelle dei lavoratori e del Paese tutto e che nel Nord stava avvenendo un disastro con precise colpe e responsabilità è partito il fuoco della propaganda e accuse di sentimenti anti-settentrionali, di minorati per ragioni geografiche e odio contro gli imprenditori? E così è diventato esperto di economia e finanza, guru di come l’Italia dovrebbe uscire dall’emergenza e ripartire uno che si è arricchito con il lusso e gli stravizi di chi vive dal lato della barricata più opprimente, di chi ogni giorno gonfia portafogli sfruttando le lacrime e il sudore di milioni di persone, di chi ostenta la propria ricchezza personale disprezzando, odiando e calpestando gli impoveriti, gli emarginati, coloro che subiscono ogni giorno gli agguati della vita. Che sia un personaggio arricchitosi anche con bische clandestine, frodi, truffe ed evasioni fiscali è considerato più di un merito.
È la stessa società che ha accolto l’ultima relazione semestrale della Direzione Investigativa Antimafia nell’indifferenza, che dà fiato a chi isola i magistrati e i giornalisti che stanno denunciando da mesi l’avanzata delle mafie e il loro buttarsi come avvoltoi sulla crisi economica e sociale. Se si pensa che nell’Abruzzo da cui si sta scrivendo quest’articolo solo WordNews sta riportando le notizie, documentando e testimoniando le sfide dei sistemi criminali – a partire dai fuochi d’artificio minimizzati e ignorati anche da chi dovrebbe vedere ed intervenire – e le connessioni con reti mafiose e criminali (dai Casamonica ai clan di camorra fino ai network pedofili) chiedendo riflessione e indignazione attiva. Sono decenni che si cerca di battersi contro il razzismo e per la legalità, questi mesi di pandemia ci stanno probabilmente interrogando su come questi stanno diventando recinti troppo stretti e che forse dall’altro lato della barricata c’è qualcosa di ancor più gretto e squallido.
Il mafioso e il corrotto potenti sono «utili», si piega la testa e si chiede favori, lavoro e posizione sociale. Davanti al peggior marcio si tace perché «può sempre diventare utile» e «domani potrebbe servire a me», s’impone lo stile di vita del tacere ed adattarsi a tutto. Per poi lasciarsi comandare contro i più deboli, migranti (tacendo però sulle vere mafie, sui farabutti che sfruttano e su quali politiche li favoriscono) e cittadini, senza tetto e donne schiavizzate sulle strade e violentate, lavoratori che denunciano ingiustizie e condizioni di lavoro disumane e brutali, chi non accetta la spintarella o la bustarella, chi crede ancora che esistano diritti e non privilegi del Potere.
Non è (solo) razzismo, non è banalmente illegalità (o parole simili che magari esulino dal recinto della formalità istituzionale di un periodo), è vigliaccheria, è incapacità di non strisciare, è brutalità del branco, di farsi comandare, di piegarsi al più forte, è egoismo materiale sotto terra di chi considera gli altri solo utili o ostacolo per la propria squallida consorteria, è l’ipocrisia di coloro che guardano per terra da maiali e odiano chi vuol volare.
È sempre e soltanto, ogni crisi e ogni anno di più, la vecchia piccola borghesia piccina che fa sempre più rabbia e schifo «soddisfatta dei danni altrui» e che si tiene stretta i denari, «così grigia e così per bene» che si porta a spasso le proprie catene, che gode quando son trattati da criminali i più deboli, ama «ordine e disciplina» tranne quando vengono indagati e repressi i colletti bianchi e i potenti, gli oppressori e gli sfruttatori, gli schiavisti (veri) e i corrotti miliardari, che mente con meschinità e ha «fatto dell’ipocrisia» la sua «formula di poesia», «sempre fissa lì a scrutare un orizzonte che si ferma al tetto, sempre pronta a pestar le mani a chi arranca dentro a una fossa e sempre pronta a leccar le ossa al più ricco ed ai suoi cani».
«Chi se ne frega del piccolo siciliano di provincia? Ma chi se ne fotte di questo Peppino Impastato? Adesso fate una cosa: spegnetela questa radio, voltatevi pure dall’altra parte, tanto si sa come vanno a finire queste cose, si sa che niente può cambiare. Voi avete dalla vostra la forza del buonsenso, quella che non aveva Peppino. Domani ci saranno i funerali: voi non andateci, lasciamolo solo. E diciamolo una volta per tutte che noi siciliani la mafia la vogliamo. Ma non perché ci fa paura: perché ci dà sicurezza, perché ci identifica, perché ci piace! Noi siamo la mafia! E tu Peppino non sei stato altro che un povero illuso!» (I Cento Passi).