Sinistra, è urgente cambiare gioco
intervista a Alfio Mastropaolo di Pierluigi Mele – 7 novembre 2017
La tornata elettorale siciliana di domenica scorsa, probabilmente, fa segnare una svolta nella politica italiana. Per alcuni osservatori, visti i risultati siciliani e quelli di Ostia, il prossimo confronto elettorale sarà il campo di battaglia tra due populismi: quello dei 5Stelle e quello del centrodestra. Un bipolarismo inedito per il nostro Paese.
Intanto la sinistra cerca di ricostruire una possibile unità. Un esito non scontato. Con il professor Alfio Mastropaolo, politologo palermitano (è stato ordinario di Scienza Politica all’Università di Torino), cerchiamo di entrare più in profondità nelle cause, e delle possibili conseguenze, del voto di domenica.
Professore, cerchiamo di dare una lettura un poco più profonda del voto siciliano. Che segna un grande astensionismo, la vittoria del centrodestra, il risultato notevole dei 5Stelle e la disfatta del PD e lo scarso risultato della sinistra “radicale”. Insomma cosa ci “insegna” questo voto?
Avessimo a che fare con una classe dirigente responsabile, e quando dico classe dirigente non dico solo i politici, penso pure agli imprenditori, ai giornalisti, agli intellettuali e via di seguito, resterebbe sbigottita e, almeno per un attimo, in silenzioso raccoglimento. Sommiamo il dato dell’astensione con quello del voto per 5 Stelle: un partito che per sua stessa natura si considera irriducibile al resto del sistema politico. Il risultato è che 6 elettori su 10 delegittimano il sistema dei partiti e la classe politica che lo regge. Qualcuno vorrà sottilizzare, ricordando che una quota di astensionismo è fisiologico. Resta il fatto che la metà e passa dell’elettorato si è ammutinata. Non è una novità. Il voto siciliano conferma l’ammutinamento osservato in occasione delle ultime amministrative. Che la tendenza si confermi non ne allevia la drammaticità, ma la aggrava. Per riprendere il titolo di un celebre libro inglese sull’argomento, metà degli elettori odiano la politica. Nessuno ha di che rallegrarsene. Nemmeno Grillo. I furbi e gli sciocchi entro la classe politica e tra i loro accademici di servizio, che sono tantissimi, fingono di non vedere, raccontano che succede dappertutto. Ma l’odio è inequivocabile e non è nemmeno contingente e solleva almeno parecchi problemi.
Quali sono le ragioni di quello che lei chiama odio?
Una ragione va scartata chiaramente, almeno a proposito della Sicilia: checché se ne dica, e checché dicano i sondaggi, l’emergenza immigrazione non preoccupa più di tanto i siciliani. La ex-Lega Nord e Fratelli d’Italia sono rimasti abbondantemente al di sotto del 6 per cento dei suffragi. Le emergenze perciò sono altre e cioè l’incapacità della politica, quale che sia il suo colore, di risolvere i problemi dell’uomo della strada: lavoro e servizi pubblici, in primis. È inutile girarci attorno. La classe politica che governa, o pretende di governare, ha fatto fallimento proprio nel trattare questi problemi. Non ci riuscì il centrodestra, collassato nel 2011, non ci riuscì il governo dell’emergenza di Monti e tantomeno ci sono riusciti i governi di centrosinistra, presieduti da Letta, Renzi e Gentiloni. Ne va preso atto.
Se non che, un livello così alto di astensione solleva un secondo problema: come si può governare credibilmente, cioè ottenere quel minimo di fiducia e di collaborazione dei governati che richiede qualsiasi azione di governo quando chi svolge tale azione ha ottenuto il consenso di più o meno un elettore su cinque? Qualcuno oggi canta vittoria. Qualcuno butta la colpa sugli altri. Ma la sostanza della questione non cambia. Mentre i partiti in parlamento si baloccano con legge elettorale, cercando quella più in grado di distorcere a proprio vantaggio quella modestissima manifestazione della volontà degli elettori che è il voto, gli elettori urlano loro in faccia la propria sofferenza e il proprio odio. È un segnale terribile, di cui farebbe bene a tener conto anche 5 Stelle, che esprime una variante di quest’odio e che sospinto da esso vorrebbe giungere al potere. Che valore avrebbe un governo dell’odio, circondato dall’odio?
Quali, secondo lei, le cause del suicidio politico della Sinistra siciliana? Non può essere tutta colpa di Crocetta…
Proviamo ora a guardare ai risultati. Entro la bocciatura sistemica, il vero disastro è quello del Pd e della sua strategia. Musumeci ha grosso modo confermato il consenso che lui stesso e Micciché avevano raccolto nel 2012. Fava ha ottenuto la stessa percentuale di Marano nel 2012. Micari e le liste collegate sono collassate rispetto al consenso conseguito da Crocetta: un terzo dei suoi voti è andato disperso. Non serve a niente prendersela con gli scissionisti, col rifiuto delle forze di sinistra di convergere con Alfano, tantomeno con Orlando o Pietro Grasso, come ha fatto il buontempone di turno. La partita era difficilissima, perché stavolta il centrodestra era riuscito a trovare un accordo e i siciliani riservano al centrodestra un trattamento di riguardo. Proprio per questo, bisognava prenderla con molto meno faciloneria e arroganza.
Se ragioniamo poi sulle cause della sconfitta della strategia del Pd due mi paiono preminenti. La prima è l’operato del governo uscente. La seconda è come è stata elaborata l’offerta elettorale. L’azione di governo di Crocetta è stata alquanto sgangherata. Qui le ragioni sono tre. La prima è che Crocetta non disponeva di una maggioranza in consiglio regionale. Ha provato a negoziare coi 5 Stelle, ma non ha funzionato. Per cinque anni ha galleggiato, tra aggiustamenti e compromessi d’ogni genere. La seconda è la personalità, sicuramente molto instabile, dello stesso Crocetta. La terza è l’infido sostegno ricevuto dal Pd. Che a un certo punto, Renzi consule, ha commissariato la regione, costringendo Crocetta a designare quale assessore al bilancio un personaggio di sua fiducia, giunto nientemeno che dalla Toscana. I risultati non sono stati cattivi. Anzi. Perché Crocetta ha fatto di più e di meglio dei suoi predecessori, Cuffaro e Lombardo, anzitutto sul piano della moralità pubblica. Eppure, per non smentirsi mai, il Pd (è sempre il partito che ha abbattuto Marino…), anziché valorizzare e rivendicare i suddetti risultati, si è dissociato e ha intrapreso la campagna elettorale avendo quale primo obiettivo quello di liberarsi di Crocetta.
E qui si viene alla seconda causa della disfatta: l’offerta elettorale. Il Pd è da tempo passivo succube della devastante teoria normativa della politica personalizzata. Peccato non avesse un candidato alternativo a Crocetta. Nessuno tra le figure locali possiede un po’ di smalto e nessuno aveva il coraggio di mettersi in gioco personalmente. Si sono affidati a Orlando, come cinque anni fa si erano affidati a Casini. Orlando, che avrebbe dovuto farsi i fatti suoi, ha invece proposto dopo parecchi dinieghi un candidato del tutto ignoto, senza esperienza di governo, improvvisato rispetto al mondo della politica e anche privo di un progetto per il futuro della Sicilia. Non bastasse: Renzi ha scelto di allearsi con Alfano e ha rinunciato a qualsiasi interlocuzione paritaria con le forze alla sua sinistra. La politica degli ultimatum paga di rado. Di fronte alla ricomposizione della destra, il Pd avrebbe dovuto cercare allo stremo un punto d’incontro con queste forze. Ha preferito lo scontro. Il risultato, presumibilmente, è stato una cospicua emorragia verso i 5 Stelle e verso l’astensione. Fanno impressione tante cose, in questa vicenda. Più di tutto è la parte recitata da Renzi. Ha vietato accordi con la sinistra, ha incastrato Orlando e si è lavato le mani per la sconfitta. Non ha praticamente condotto campagna elettorale. È un modello di leadership generosa!
Visti questi risultati per Matteo Renzi le prossime elezioni si mettono male…
È possibile che il Pd presenti a Renzi il conto. Possibile, ma improbabile. Perché il partito è debole e, evidentemente, nessuno ha la statura per sfidarlo. I più critici Gianni Brera li avrebbe chiamati “abatini”. Non si capirebbe altrimenti perché Renzi non sia stato ancora licenziato dopo che ha vinto il grande slam delle sconfitte elettorali e spaccato il partito. Intanto però gli è toccato di farsi sbeffeggiare da Di Maio, il quale non sarà un mostro di scienza, ma sta imparando a far politica: lui e i suoi sodali hanno tutto l’interesse a impostare la campagna elettorale sul dualismo tra loro e Berlusconi. Ecco perché Di Maio ha rifiutato il confronto con Renzi. Non per paura: quanto a facce di bronzo il confronto era più che equilibrato. Ora però che il Pd si è messo nell’angolo, Di Maio e i suoi possono sperare che una parte dell’elettorato Pd, pur di evitare l’eterno ritorno del cavaliere, si contenti dei 5 Stelle. Cioè di un voto di rivolta e di disperazione.
È inutile che gli avversari e i mass media insistano sulle modestissime prove dati dai 5 Stelle a Roma, a Torino: il risultato siciliano e quello di Ostia provano che il voto di disperazione se ne infischia. Mentre quel che preoccupa è la scarsa consapevolezza che i 5 Stelle hanno della propria condizione. Profittano del voto di disperazione, lo alimentano, lo sfruttano, ma non sanno che farci. Tentano qualche mossa di propaganda sull’immigrazione, che però non conta molto, e si ostinano a mancare di un progetto politico. Non hanno alcun progetto che non sia la moralità pubblica – quanto improbabile sia l’hanno già dimostrato a Torino e a Roma – e mancano pure di un personale dirigente, che non s’improvvisa. Stanno forse facendo esperienza, tra una gaffe e l’altra. Ma le scadenze incombono e per governare un grande paese industriale serve qualcosa di più che ribadire la propria pretesa diversità e moralità.
E le cose non vanno bene neppure per la sinistra, cosiddetta, “radicale”. E’ così professore?
Hanno assai poco da rallegrarsi anche le forze politiche che hanno candidato Fava: un galantuomo, ma un personaggio molto logoro. Hanno avuto, non c’è dubbio, poco tempo per organizzarsi. Ma allora era forse meglio rinunciare alla contesa. Per il futuro, dovrebbero decidersi a farla finita col modello del partito personale. Piuttosto andrebbe messo in piedi un partito: qualcosa di stabile, solido e visibile. E puntare sul gioco di squadra. Chi si è illuso su Pisapia e oggi si illude su Grasso fa male i conti. È urgente cambiare gioco, designare dei responsabili almeno regionali, arruolare dei quadri e soprattutto elaborare un progetto politico, che non sia quello di nuocere al Pd. Non è questione di nomi. Penso sinceramente che questa storia dei D’Alema e Bersani riciclati della vecchia politica sia un’idiozia ripetuta da chi non ha idee migliori. Hanno fatto molti sbagli e molti compromessi – chi non ne fa? – ma è gente d’esperienza e anche perbene. Mancano invece di un progetto politico in proprio. L’unica cosa che comunicano agli elettori – o che gli fanno comunicare: ma potrebbero smarcarsi – è la denuncia del tradimento del Pd: non funziona. Per smuovere gli elettori ci vuole assai di più. A cominciare da denominazioni meno criptiche. Quale esperto di comunicazione ha consigliato l’etichetta dei Cento passi per far campagna elettorale in Sicilia?
Parliamo del centrodestra. Un centrodestra che vince con un candidato di destra (ex missino). Nel centrodestra, in queste elezioni, è ritornato protagonista Silvio Berlusconi con il suo esponente siciliano Micciché. Insomma siamo al già visto. Eppure il centrodestra vince…
Naturalmente, a sguazzarci nei malanni altrui non ci sono solo i 5 Stelle, ma pure il centrodestra. Mi viene in mente la storia dei pifferi di montagna che andarono per suonare e tornarono suonati. Il buon Renzi credeva d’intrappolare Berlusconi al Nazareno, di profittare della sua debolezza per riscrivere la costituzione e la legge elettorale a sua misura. Il risultato è che ha resuscitato Berlusconi. Aveva portato il paese al fallimento, l’aveva frastornato di scandali e scandaletti, oggi è di nuovo in pista. Onore al merito: di stoffa politica ne ha da vendere. In realtà gli basta essere uguale a se stesso e federare le membra sparse del centrodestra. In questo è bravissimo. Purché ci stiano, è disposto a qualsiasi concessione. Tanto, tornasse il momento di governare, una qualche quadra si trova. Il suo compito non è troppo difficile. Il suo progetto di governo è l’anarchia di mercato più selvaggia. Non ci vuol molto a metter d’accordo gente che al fondo la pensa allo stesso modo, cui non gliene importa nulla della disoccupazione o del declino industriale, e che soprattutto miete consensi entro un elettorato la cui preoccupazione fondamentale è pagare meno tasse. Oppure, come nel caso della Sicilia, godere di qualche modesta provvidenza pubblica ed essere autorizzato all’abusivismo: l’economia dell’assistenza.
Come sarà la Sicilia di Musumeci? Quale blocco sociale favorirà?
Ecco, è l’assistenza il programma di Musumeci. Cuffarismo senza Cuffaro. Lombardismo senza Lombardo. E da vedere se in maniera più morale: i personaggi chiacchierati in lista non mancano – non ne mancava qualcuno nemmeno nelle liste pro-Micari – ed è sicuramente emblematico che Luigi Genovese, ventunenne candidato di Forza Italia, figlio di Francantonio, già primo segretario regionale del Pd, condannato in primo grado a undici anni in un processo su quel verminaio che sono i corsi di formazione professionale, abbia ottenuto a Messina 17.026 voti e sia stato il primo eletto. Questo è il blocco sociale che sta appresso a Musumeci e questo è il suo progetto politico.
Chi paga il conto purtroppo è la Sicilia, che sta molto male. Sta male tutto il paese, ma la Sicilia assai di più, come il resto del Mezzogiorno. Il blocco sociale dell’assistenza è fortissimo, perché è inerziale. Se qualcuno ricava enormi profitti, i più si contentano di benefici modesti: qualche metro cubo di cemento abusivo. Ma ci sono pure un’altra Sicilia e un altro Mezzogiorno. Basta fare un giro per l’isola. C’è gente che studia, legge, lavora onestamente. C’è perfino chi, in mancanza di meglio, si arrangia con l’economia informale: non paga le tasse, ma lavorano come pazzi per tirare a campare e crescere i figli. C’è dunque un controblocco con grandi potenzialità. Talvolta riesce ad alzare la testa, e a farcela alle elezioni: vedi il caso Palermo. Ma sono successi occasionali. La ragione fondamentale per cui tali potenzialità restano inespresse è che le grandi forze politiche nazionali da almeno trent’anni hanno preferito scendere a patti col blocco dell’assistenza (e spesso anche del crimine organizzato). Costa molto meno che non intervenire: per colmare il deficit di infrastrutture, per investire nella scuola, nella sanità, nei trasporti. Finché questo paese non riscoprirà lo spirito dei grandi meridionalisti del dopoguerra io sono convinto che non ci sia futuro né per il sud, né per il nord, il quale, sebbene finga di non saperlo, è solo il Mezzogiorno d’Europa.
Se il centrosinistra non si ricompatta, e non torna competitivo, le prossime elezioni politiche vedranno il confronto tra due “populismi”: quello del centrodestra, nonostante che Berlusconi neghi di essere un populista, e quello dei 5 Stelle. Qual è il suo pensiero?
A me parlare di populismo non piace. Il berlusconismo è la destra dei tempi televisivi. 5 Stelle è un partito-zelig, cresciuto grazie ai media, che non ha certo un programma di sinistra, nemmeno timidissima. Sarà lo scontro tra due destre: una affarista, l’altra arruffona e un po’ misteriosa. Hanno tutto l’interesse a concentrare su di sé la contesa elettorale. E il Pd sta dando loro una mano. Cosa vuole che le dica? Posso rattristarmi. D’altra parte, da che parte sta il Pd? Che non sia già diventato la terza destra?
Pubblicato su Nuova Atlantide 11 novembre 2017 | di Pierluigi Mele