Spunti per un’analisi della deriva pentastellata
- Pubblicato: 26 Febbraio 2019 su Antimafia Duemila
di Salvo Vitale
Non un minimo d’analisi sul recente tracollo del Cinque Stelle, liquidato come un risultato locale e non come un nazionale declino d’un movimento nato sull’antipolitica e invischiatosi nella rete della politica. Non una riflessione sul fatto che, venuto meno l’antirenzismo, brodo di cultura del movimento, sia venuto meno il motivo centrale del dissenso, senza che ne sia seguito un mantenimento del consenso. Come, del resto, nessuna seria analisi è stata fatta, dopo un anno, sui motivi del tracollo del PD. Ma il PD è un partito, i Cinque stelle sono un movimento, malgrado si stia affacciando la tentazione di trasformarlo in partito. In ogni caso Renzi si è messo apparentemente da parte, Di Maio rimane al suo posto, forse nella determinazione di non poter perdere l’occasione della sua vita. E visto che il “capo” dei Cinque stelle non sa fare l’’analisi” del voto e della situazione del suo Movimento, proviamo a darei qualche spunto:
1) Il Movimento è nato come forza “antisistema, ma non come alternativa al sistema. Qualsiasi alternativa deve basarsi su un progetto politico di “risistemazione” delle storture della società che vengono denunciate, nella prospettiva di una ipotesi di “stato nuovo” con nuove regole il più possibile condivise. Nell’originaria visione grillina c’era solo un vago orientamento ecologico, che spesso guardava indietro a modelli arcaici ormai superati dall’evoluzione tecnologia e c’era molta rabbia per il malgoverno. Venuta meno la rabbia, non ha fatto seguito l’apprezzamento per un buon governo.
2) L’unico spazio dato alla tecnologia è stato dato dall’introduzione del voto on line, quasi si trattasse di autentica volontà popolare. Il voto, controllato dalla Casaleggio e da discutibili piattaforme, non offre nessuna garanzia di trasparenza, è riservato solo a coloro che posseggono uno strumento telematico e sono “certificati”, quindi nessuna espressione del voto del popolo, ma solo di un gruppo di attivisti e fedelissimi ai quali è facile suggerire l’orientamento.
3) La mancanza di coerenza e l’inversione di marcia su alcuni punti fermi ha causato un crollo di fiducia ormai irreversibile. In particolare si accenna alla TAV, all’immunità parlamentare, alla posizione sui flussi migratori, al decreto sicurezza, alle vaccinazioni, alla sanatoria ad Ischia, alla generale mancanza di politica estera, dalla mancata presa di posizione sul Venezuela, agli inutili scontri con la Francia, all’incontro con i gilet gialli e alla successiva retromarcia ecc.
4) Quello di scaricare sugli iscritti la responsabilità di una decisione che competeva ai senatori, e la cui risposta era già scritta nell’identità del movimento, è stato un errore politico gravissimo, sia per avere esposto i militanti a una scelta contraria ai loro principi, sia perché l’alleato di governo non aveva bisogno di essere “salvato”, sapendosi già salvare da sé, né tantomeno essere confortato da dichiarazioni di corresponsabilità per alcune discutibili scelte che avrebbero portato solo a lui vantaggi elettorali.
5) La mancanza di serie politiche riformatorie nel mondo della scuola, della cultura, della sanità pubblica, nella giustizia. In pratica si va avanti salendo sui carrozzoni precedenti, vivendo di rendita. La stravagante riforma degli esami di maturità, i tagli alla scuola, la ventilata divisione della separazione delle carriere dei magistrati sono frammenti di un generale stallo, che spesso è anche retromarcia.
6) La fretta elettorale di approvare Il reddito di cittadinanza, che è una misura complessa che andava studiata in tutti i suoi dettagli, a partire dalla condizione dei destinatari, sino alla preparazione delle strutture di controllo e di erogazione, oltre che la preparazione di un piano generale di “reperimento” del lavoro, con un rilancio delle opere pubbliche e con l’utilizzo del reddito non come forma assistenziale, ma come momento retributivo per un’attività da svolgere.
7) L’errata valutazione di una “crescita” economica in relazione alla relazione di spesa dei soldi del reddito, finalizzati non agli investimenti in strutture produttive, ma all’acquisto di generi di consumo. A parte Conti e Tria nessuno degli economisti ha visto nella misura un momento di crescita.
8) La mancata inversione di rotta nelle spese militari, sia delle inutili e costose missioni all’estero, sia nell’acquisto di armamenti, il cui mantenimento comporta un’ulteriore dipendenza dalle nazioni e dalle società con cui si è contrattato l’acquisto.
9) La mancanza di una politica agricola e zootecnica. Il caso del latte sottocosto, dell’olio d’oliva svenduto e di una serie di altri prodotti schiacciati dalla concorrenza dei prodotti esteri, la mancata assistenza a coloro che vorrebbero dedicarsi ad attività agricole, l’assenza di un piano di protezione e di produzione dei prodotti alimentari locali, confermano l’andamento del passato, che ha messo in crisi il settore e ne sta comportando l’estinzione, sulla base di una condizione in cui esistono solo consumatori e non più produttori: per cui il consumo è determinato dal suo basso costo e comprare all’estero è più conveniente che produrre in loco. Anche qui un piano di rilancio avrebbe potuto dare lavoro e ricchezza, possibilmente puntando sulla qualità e sull’identità del prodotto.
10) Il mancanza di un piano nazionale di promozione delle energie rinnovabili, nella prospettiva di una ricerca di autonomia rispetto alla dipendenza delle fonti energetiche provenienti dall’estero, che espongono il consumatore ai giochi perversi del grande capitalismo mondiale. Strettamente legato a ciò l’assenza di un piano nazionale sullo smaltimento dei rifiuti e sul loro riutilizzo.
11) L’inesistenza di un progetto di ridistribuzione del reddito a vantaggio delle fasce deboli della popolazione, ovvero l’inversione dell’andamento nazionale e mondiale di accumulazione delle ricchezze nelle mani di pochi. Una tassa patrimoniale, perentoriamente esclusa da Conti, avrebbe potuto essere già un buon inizio per “togliere” un po’ di ricchezza a chi ne ha troppa e favorire condizioni di vita più dignitose a chi si trova al limite della sopravvivenza o della povertà totale. Si tenga presente che la mancanza di questa condizione minima di “socialismo” è la prima causa della crisi e della quasi scomparsa della “sinistra”, che su questo dovrebbe fondare la sua identità.
12) La mancanza di una visione generale dello stato più centralizzata, rispetto alle spinte del liberismo e del capitalismo, dove la privatizzazione ormai sostituisce qualsiasi forma di controllo dall’alto e offre in mano a soggetti intraprendenti la possibilità di appropriarsi dei vari circuiti produttivi e spesso anche di quelli politici, per sfruttarli a proprio vantaggio.
13) La cancellazione del ruolo del sindacato, e quindi della contrattazione a tutela dei lavoratori, ove questa tutela non finisca in forme di improduttivo assistenzialismo. Le politiche del lavoro non possono essere affidate al dilettantismo di un ministro che ignora le più elementari e indispensabili leggi dell’economia. In un’Italia dove dilaga la corruzione le aziende vanno controllate, sia nel momento in cui decidono di licenziare, sia quando spostano i loro capitali all’estero, sia quando sono “svendute” agli acquirenti esteri senza che questi diano precise garanzie. La caccia al lavoro nero, al disumano sfruttamento di chi è soggetto a nuove schiavitù, la possibilità di favorire forme di autorganizzazione dei lavoratori, quando i padroni decidono di abbandonarli, sono passaggi di cui dovrebbe occuparsi lo stato assente.
14) La pesante situazione del debito pubblico, ormai diventato una montagna del cui peso sarà difficile scrollarsi, almeno per i prossimi cento anni, se non si ricomincia a elaborare un piano per la sua riduzione. Tutto questo espone le finanze nazionali al pagamento di esosi interessi che fanno aumentare il debito in una spirale senza speranza.
15) La mancanza di rapporti o di alleanze con i movimenti sociali e con le associazioni civiche del territorio, con cui concordare azioni comuni: il movimento è rimasto arroccato nella sua intransigenza, senza aprirsi all’esterno, nella pretesa che pochi dovessero rappresentare la voce di tutti. La politica è l’arte della mediazione, e questo sembra attualmente mancare ai “tribuni” del movimento, che, con il ditino sulla tastiera giornalmente esprimono condanne e giudizi improvvisati dietro cui sta una totale ignoranza.
16) La totale sudditanza alla linea della Lega e quindi di Salvini, che ha alle spalle una struttura organizzativa e dietro cui sta l’insieme delle strutture produttive del nord Italia. L’inesperienza si lega anche all’incapacità di comunicazione, d’intervento quotidiano su un qualsiasi tema, anche inutile e soprattutto sul sapere essere credibili e affidabili.
17) La mancanza di democrazia all’interno del movimento, dove non c’è il confronto su posizioni diverse e la loro convivenza, ma si fa presto a gridare all’eresia e all’espulsione, quando le direttive del “capo” non sono condivise. Manca anche un’organizzazione interna di dirigenti con le idee chiare, sulla falsa aporia dell’uno vale uno “che si trasforma nell’”uno per tutti”, annullando i tutti nell’uno. Naturalmente questi sono solo alcuni punti di una generale mancanza di obiettivi, di progetti, di idee su come si vorrebbe “riorganizzare” la società, prospettare che tipo di vita e di condizione sociale si vuole o si vorrebbe per i “cittadini”, che non sono solo quelli che vivono in città, che non sono solo consumatori, internauti, disoccupati, immigrati, lavoratori, ma sono soprattutto uomini.